In occasione dl decennale della morte di Claudio Abbado, avvenuta a Bologna il 20 gennaio del 2014, iniziamo la pubblicazione di tutti gli articoli dedicati da Amadeus al grande direttore d’orchestra, protagonista della vita musicale del Novecento e di questo primo scorcio del nuovo secolo.
È stato inevitabile che, fin dal primo numero, la nostra attenzione fosse rivolta al Maestro da poco eletto a una delle cariche più prestigiose: quella di direttore dei Berliner Philharmoniker.

(Aprile 1993 – Amadeus n. 41)

La tournée italiana di Claudio Abbado e dei «Berliner»: potenza e mito

di Mario Bortolotto

Preceduti dagli eroici squilli che, secondo i poemi classici, usurano le trombe della Fama, ecco giunti all’Accademia di S. Cecilia i quasi mitici musicisti del Berliner Philharmonisches Orchester: presentati, da quel prodotto costosissimo che sono, nella miglior luce. Il programma di sala è diventato un libricino non tanto maneggevole, e vi si leggono saggi, discorsi, un intervento sul Declino della forma, fieramente coraggioso, di Quirino Principe, una poesia di Alexander Ritter: insomma, di tutto.
Vi è anche l’orazione pronunciata da Klaus Geitel per il centenario della grande orchestra, nel 1982, e si inizia con parole di spiccata umiltà: «I Filarmonici Berlinesi sono la migliore orchestra tedesca». Assunto, questo, che per troppa mitezza finisce con l’assomigliare ad affermazioni quali: «Mozart è il più grande compositore salisburghese del secondo Settecento».
Poi vengono giustamente cantate le debite lodi, semplicemente ricordando i quattro direttori che si sono susseguiti, in centodieci anni, su quell’ambitissimo podio: Bülow, Nikisch, Furtwängler e Karajan, oltre il momentaneo ma vitale apporto di Sergiu Celibidache; Claudio Abbado è il quinto della gloriosa serie, e il primo straniero: i tempi sono mutati. Ma l’efficienza dell’organico non sembra aver ceduto di un pollice, dai tristi giorni in cui – la guerra era finita da qualche settimana – i Berlinesi dettero il primo concerto in una sede di fortuna includendovi anche Čiajkovskij e Mendelssohn, in omaggio agli occupanti e a proclamare l’avvenuta voltata di pagina: «canti di liberazione», infine. La dote migliore dell’Orchestra, diceva Čiajkovskij appunto, è «elasticità». L’unico punto su cui ci permetteremmo un marginalissimo dissenso è quello relativo alla virtù della modestia: «nonostante la vastità delle loro ambizioni… non divennero mai altezzosi e arroganti». Squisito sapore luterano: in realtà decine di aneddoti dimostrano che la spocchia dei Berlinesi è pari al loro indiscutibile valore. Posseggono mirabili strumentisti in ogni sezione: la poderosa massa degli archi ha, se non il colore insuperabile dei Viennesi, un’uguaglianza che, in Paesi latini, stupisce sempre. Quale devozione alla causa comune, quale disciplina, qual magistero.
          Era scontato, e anche giusto, che l’Orchestra, dopo tanti anni di assenza, si presentasse con un programma nazionale, kerndeutsch: Brahms e Strauss. I due lavori scelti hanno permesso di mostrare, come sotto fari di oreficeria, la dote fondamentale: la potenza del suono, certo difficilmente raggiungibile. E tale essa è da incorrere magari in qualche momentaneo squilibrio.
In Tod und Verklärung, ad esempio, vi è un momento (Eulenburg, pag. 78-9) in cui l’esaltante esagramma viene dominato, per quattro note, dai tromboni, per le due ultime, le decisive, dai violini.
Strauss pertanto indica mf i primi, fff i secondi: ma come fare, quando gli ottoni lucidati a dovere da qualche brava signora prussiana («sian lodate le donne tedesche», disse in occasione analoga Giorgio Vigolo, citando il suo Hölderlin) tuonano come minacce dall’Olimpo?
Riascoltare Claudio Abbado, dopo parecchi anni, e tanto Nono, in due classici, è stata per molti un’occasione festosa: sono direttori che le nostre dissestate finanze ci consentono raramente. Le facoltà dell’illustre maestro sono sempre le stesse: chiarezza estrema, trasparenza, capacità costruttiva: infine, le qualità razionali, a tutto discapito delle istintuali o immediate. Le antitesi, gli scontri emotivi sono letteralmente tradotti in rapporti di masse foniche, e il «molto appassionato», indicato da Strauss nei punti chiave, resta il suo perfetto antipodo.
Rimane, anche nella lunga assenza, un direttore italiano dalla testa ai piedi, a cui la Romantik è geneticamente estranea. Forse se la intende meglio con gli alloglotti che spesseggiano ormai anche fra i Berliner, magari giapponesi: ne condivide, almeno, il virtuosismo inscalfibile.