di Enzo Fabiani

(Pubblicato sul n. 1 di Amadeus, dicembre 1989)

Il tracagnotto artista di Ferrara, che ha dedicato grande bravura e talento nel ritrarre le donne certamente più belle della sua epoca, aveva sicuramente la «musica in corpo». In tal senso, una testimonianza la fornisce il vivace racconto di Colette, la scrittrice
che in gioventù ebbe modo di lavorare nel mondo dello spettacolo e che più tardi rievocherà tali sue esperienze
nelle pagine
di «La vagabonda» e di «Il rovescio del music-hall».

L’idea di ricercare momenti ed elementi ispirati o legati alla musica nella vita e nella pittura di Giovanni Boldini può sembrare forse peregrina, e anche strana. Difatti, a quanto ci risulta, l’argomento non ha finora sollecitato né critici né cronisti, in quanto considerato evidentemente secondario. Soltanto recentemente (e cioè nel catalogo Mazzotta della grande antologica boldiniana, alla Permanente di Milano) è capitato di leggere una curiosa notazione di Ettore·Ca­ mesasca, secondo la quale «eccettuato qualche musicista al lavoro, non un personaggio ritratto da Boldini fornisce il minimo indizio sulla propria attività»; anche perché, è superfluo aggiungere, tutte le contesse, baronesse e principesse che correvano a posare per lui sottoponendosi a contorsioni difficili anche per gli acrobati e compiendo «i gesti di un’umanità mai esistita» (come scrisse il critico Alexandre nel 1931), non facevano un bel nulla, ricche e fragili com’erano.

Giovanni Boldini, Autoritratto (1892).

Un «lavoro» compiuto da loro (a parte ovviamente le battaglie amorose) certamente con grande passione era dunque, o poteva essere, quello di corrispondere, “di adattarsi al «tipo» boldiniano, diventare cioè delle «liane viventi». Perciò per essere ritratte «Si fasciavano i fianchi, allungavano il busto, strizzavano la vita; tiravano o scioglievano i capelli, alleggerivano il peso del seno, si davano un pallore lunare, affilavano le dita (cioè le unghie), snellivano il piede (cioè la scarpa) e si avvitavano… Misero cappelli come aiuole, si sporsero, sedettero precarie sul bordo della sedia, camminarono con una gamba, restarono ferme sull’altra, incespicarono, contorsero le braccia, trasformandosi in onde sontuose e, probabilmente, voluttuose…»

La grande voga di balli e balletti
E cos’era mai tutto questo, se non uno spettacolo di balletto eseguito per «quel vecchio demonio della pittura», cioè Boldini, che intanto sciabolava a tutto andare con il suo pennello, scatenandosi come un elettrizzato direttore d’orchestra o un maestro di banda? Certo, non c’erano allora (siamo negli anni 1870 e seguenti) né apparecchi radio né fonografi: ma il maestro la musica se la sentiva dentro, anche perché la conosceva, avendo imparato a suonare la spinetta nel 1856 nella natia Ferrara, probabilmente con la guida di Timoteo Pasini, figlio del suo padrino di battesimo; sicuramente, poi, frequentava i locali alla moda parigini, assistendo attento e beato agli scatenati balli e balletti allora in gran voga.

Giovanni Boldini: Donna al pianoforte (1870).

A conferma di questa sua passione musicale c’è un ricordo di Colette, la famosa scrittrice che da giovane lavorò nel mondo dello spettacolo, da lei poi rievocato nei romanzi La vagabonda ed Il rovescio del music-hall. Passione, o meglio mania per il ritmo che ce lo fa apparire come un tarantolato. Ricorda infatti Colette: «Quel vecchio demonio della pittura, il Boldini, lo vidi per la prima volta nel suo studio. L’abito di un grande ritratto muliebre incompiuto, di un raso bianco, abbagliante, di quel bianco di certi pasticcini alla menta, i bergamozzi, assorbiva e rimandava la luce con violenza. Boldini distolse dal ritratto il suo volto di grifone e mi squadrò con insistenza.
«Siete voi – domandò – che indossate lo smoking la sera? Mi sarà capitato per una mascherata … Siete voi che fate la mima? Sì. E vi presentate sulla scena con la calzamaglia così… così… tutta nuda? Un momento: non sono apparsa nuda su nessuna scena. Lo avranno anche detto, lo avranno anche stampato, ma la verità è… Non mi ascoltava più. Aveva riso con una smorfia di fine malizia, dandomi un buffetto sulla guancia, e mormorando: Piccola borghesuccia… piccola borghesuccia… E mi aveva dimenticato per rimettersi a “sciabolare“ a tutto beneficio del ritratto di zucchero alla menta, manifestando il suo demonismo con salti da batrace, gorgoglii, gridi, colpi magici di pennello, e con romanze italiane e monologhi».


Un ritratto vivace, perfetto, che è una precisa conferma di quanto accennavamo prima: cioè della «musica in corpo» che animava e contribuiva a rendere appunto scatenato il modo di dipingere di Boldini. Musica ma anche, beninteso, sensualità che ne è spesso madre o sorella, dalla quale «nasce e si svolge e declina» così questo serpentinismo venale, frizzante, profondamente scettico, disinvolto, compiaciuto, arrabbiato: e Boldini, che ne è un creatore fedelissimo, ne è anche, di natura, molto ghiotto, per una sua necessità privata. Sembra che sia la sua rivincita, la rivincita della sua sensualità sana e normale, contro l’amarezza snervata, l’anormalità miserevole e fastosa del decadentismo.

«L’artista amava la musica
Se quei corpi slanciati, bislacchi, zigzaganti, che scappano da tutte le parti, sono tenuti insieme solo da una febbre che, mentre li adula, li devasta, Boldini presume di non essere responsabile. Egli partecipa a questa evanescenza come un interprete, un misuratore, con lo stile appena calcato di chi eccede in fedeltà e precisione, se questo è possibile».
I difetti della pittura di Boldini – ha detto un critico che ha visto molto giusto fin dall’epoca dei più grandi trionfi mondiali del pittore ferrarese – sono i difetti, o i caratteri senz’altro, dell’oggetto che egli circuisce e ricrea» … Non potrebbe essere questa, almeno in parte e mutatis mutandis, la recensione di un balletto? Sembra proprio di sì, con un po’ di fantasia ovviamente.
Ad ogni modo Giovanni Boldini conosceva la musica, cantava romanze (come ci ha detto Colette), aveva imparato la spinetta e suonava il pianoforte. E ce lo conferma visivamente una bellissima fotografia pubblicata anche nel volume edito da Marescalchi in occasione della mostra da lui allestita a Bologna qualche mese fa (mostra esemplare, intelligente, contenuta, e quindi convincente e avvincente) e in cui si vede il pittore che suona ispirato chissà quale melodia.
La didascalia dice: «L’artista amava la musica, ma più che per lui quel piano è famoso per essere stato suonato da Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Jules Massenet, Charles François Gounod»…
Ed ecco che arriviamo, dopo le indicazioni interpretative di cui sopra, «al pratico» (come direbbero a Milano): cioè ai rapporti reali, umani, quotidiani del grande «Spadaccino» con i personaggi che, nel mondo tra il moschettiere e il surreale da lui raffigurato, erano gli unici ad avere un «lavoro», cioè i musicisti. E tra questi c’erano nientemeno che i grandi maestri sopra ricordati: Verdi, Puccini, Massenet, Gounod. Nomi che basterebbero a farci concludere che Giovanni Boldini, maestro ferrarese e bassotto (era infatti di statura «mediocre», cosi come Michelangelo e Wagner: un metro e mezzo, o poco più …), sapeva avvertire nel creatore e nell’esecutore musicale un qualcosa di insolito, di superiore.
E non soltanto nei grandi compositori e virtuosi ma anche negli anonimi orchestrali (e si vedano i frementi Tre studi per orchestra, disegni a matita già esposti da Marescalchi e riportati nel citato volume curato da Vito Doria, direttore del Centro Studi del Museo Boldini di Ferrara); e si vedano i ritratti dei direttori d’orchestra come Emanuele Muzio; di pianisti, come A. Rey Colaço; di violoncellisti, come Gaetano Braga: fino ad arrivare ad uno dei capolavori di Giovanni Boldini, ovverosia il ritratto a pastello di Giuseppe Verdi.
Il burbero maestro di Busseto evidentemente aveva in simpatia Boldini: fu più volte suo ospite e l’ebbe ospite Il pittore andava a vedere le sue opere (nel dicembre 1884 ad esempio assistette a Nizza alla rappresentazione dell’Aida insieme al musicista Magnus, facendo diversi disegni) e il compositore arrivò a regalargli lo spartito dell’Otello con la dedica che diceva: «All’egregio artista e carissimo amico Boldini, Giuseppe Verdi, 9 febbraio 1887» (da Verdi non c’erano da aspettarsi effusioni calorose). Risulta anche che Verdi lo volle suo ospite a Genova per il Natale del 1884; a conferma della stima che li legava.

Uno spiacevole equivoco con Verdi
Ma la dimostrazione migliore (anche dei caratteri) l’abbiamo nell’episodio dei due ritratti. Verdi posò a Parigi verso la fine del 1884 ma Boldini lavorò nervosamente dato che il musicista «nelle pose è accompagnato dalla Strepponi, che critica insistentemente lo studio, giudicandolo indegno di un artista del livello di Boldini, la camera da letto poco luminosa, eccetera». Il ritratto, che è il primo, senza cappello, non riuscì al meglio; comunque Boldini ai primi del 1886 lo spedì a Sant’Agata richiedendolo però indietro qualche mese dopo per farvi dei ritocchi.
Verdi gli rispose che era «Un bel pasticcio», riferendosi ai problemi del trasporto. Boldini ne rimase profondamente offeso, avendo capito che quell’espressione fosse un giudizio negativo sul suo dipinto. L’equivoco venne chiarito poco dopo grazie all’amico comune maestro Muzio; e Verdi il 6 aprile 1886 era di nuovo in posa nello studio parigino di Boldini, sia per fare un piacere all’amico sia perché, in realtà, del primo ritratto non era rimasto entusiasta. E così, grazie anche all’assenza della signora Strepponi, Boldini poté dimostrare appieno la sua grande maestria di ritrattista.

Giovanni Boldini: Ritratto di Giuseppe Verdi (1886)-

A quanto pare il ritratto a pastello, in cui Verdi appare in tutta la sua possente personalità, venne eseguito in circa due ore, di getto: anche perché probabilmente il musicista era stufo di stare in posa. Boldini però riuscì a trattenerlo, magari cantandogli qualche «aria» dell’Aida, ancora per un paio d’ore: e il capolavoro fu fatto; e verrà regalato al compositore ai primi del 1893, come risulta da una lettera di ringraziamento scritta da Verdi, che era a Genova, a Boldini in data 8 marzo.
Ovviamente il «vecchio demonio della pittura» non riceveva nel suo studio soltanto i compositori, ma anche le interpreti: come ad esempio la soprano Lina Cavalieri, famosa per la sua bellezza, alla quale fece uno dei suoi ritratti più belli. Ed anche un’altra bellissima, cioè la Belle Otéro, e diverse altre attrici e sciantose, meno celebri ma ugualmente belle e sicuramente brave. D’altra parte la musica interiore che Boldini aveva in corpo, per manifestarsi degnamente aveva bisogno di sollecitazioni visive capaci di renderlo lo «Scatenato spadaccino» ch’egli era.
Giovanni Boldini assistette da spettatore, come si sa, alla grande avventura dell’Impressionismo e dei Movimenti che ne seguirono. Pur essendo amico di Degas e stimato da diversi altri (anche Van Gogh, dopo un primo giudizio negativo, lo lodò in una lettera al fratello) restò un isolato.
Probabilmente, anche per quanto riguardava la musica il maestro ferrarese non si scomodò, cioè non si entusiasmò per Chabrier, Bizet, Saint-Saens e Wagner, come fecero Renoir, Cézanne e Degas e diversi altri: infatti, non risulta che egli frequentasse i concerti o le serate musicali che ad esempio venivano tenute il lunedì in casa del padre di Degas. Forse Boldini ci andò qualche volta, dato che gli piaceva moltissimo la vita mondana: ma quasi sicuramente preferì dipingere e sognare sulle ali delle romanze italiane sentimentali e appassionate.

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Le parole sottolineate ed evidenziate in blu fanno riferimento a un link presente su internet, di cui consigliamo la visione.