di Mario Pasi

(Pubblicato sul n. 1 di Amadeus, dicembre 1989)

In scena al «Grand Palais» di Parigi per il bicentenario della Rivoluzione, l’opera danzata
del grande coreografo francesesi compone di tre parti: nella prima vi è il racconto di quegli eventi
che vien fatto a un gruppo di ragazzi contemporanei;  nella seconda, su musiche di Beethoven,
la «Virtù repubblicana» si esprime nelle danze astratte e solari della felicità collettiva.
La terza parte infine propone il rovescio della medaglia ed è il messaggio quasi disperato
rivolto a noi tutti per avvertirci che siamo in prossimità di un nuovo baratro: quello dei pericoli che la Terra corre.

Maurice Béjart, il più grande coreografo vivente, ha uno strano rapporto con la sua terra, la Francia: un amore mai spento, eppure insidiato da rotture e divorzi. Offerte, dinieghi, esili. Béjart ha costruito la sua fama appena al di là dei confini, prima a Bruxelles e poi a Losanna. Luoghi dove si parla il francese, basi operative da cui si arriva in un momento a Parigi. Ma Parigi è troppo grande, ministeriale, politicizzata per Béjart, che è nato a Marsiglia e non ha mai accettato di sottoporre il suo lavoro creativo alle leggi del mercato e a quelle sindacali. In linea con i suoi principi (che hanno fatto della sua compagnia, il Ballet du XX Siècle ora diventato il Ballet Lausanne, una confraternita di eguali), il coreografo ha evitato gli impegni con l’Opéra, ha rinunciato a creare una scuola di ballo «Super» a Parigi e non si è mai legato troppo ai ministri della Cultura, che in Francia tuttavia sono del tutto rispettabili.
«Eppure mi sento francese in modo totale, visceralmente parigino, la mia cultura è nata qui, fra la Senna e Montmartre, sui Campi Elisi ed i Boulevards. È fatale che torni spesso a Parigi e che poi riparta, nel vasto mondo, per mare e per cielo, fino a quando la nostra piccola armata non dovrà riprendere il suo posto a Losanna. E comunque ogni mattina c’è un treno superveloce in banchina, tentazione assai comoda per un giramondo come sono io».

I chierici vaganti della parola alata
Tuttavia … Tuttavia quando c’è una celebrazione importante, quando la «grandeur» francese lo richiede, quando Marianna si sente sola, Parigi richiama in servizio Béjart. E il coreografo non si nega, si cinge i fianchi del tricolore blu-bianco-rosso e si inchina alle glorie patrie. Accadde già nel 1976, quando la Comédie française volle festeggiare i suoi trecento anni di vita: Béjart vi rappresentò uno dei suoi balletti più belli, il Molière imaginaire con musiche di scena ordinate e composte dal nostro Nino Rota.
Fu una grande fantasia teatrale su Molière, il drammaturgo più celebre e amato di Francia; un affettuoso omaggio al mondo degli artisti, chierici vaganti della parola alata; un atto d’accusa, anche, nei confronti dei bigotti, dei tartufi, dei medici, delle donne sciocche, del potere ingiusto. Béjart si riconobbe ancora una volta in Jean Baptiste Poquelin, diventato Molière al momento di lasciare la casa paterna. Béjart aveva fatto lo stesso, abbandonando Marsiglia e il padre filosofo: e aveva mutato il nome di casa, Berger, in quello di Béjart, perché così si chiamavano gli artisti che avevano accolto Poquelin-Molière, e anzi una Béjart aveva sposato Jean Baptiste…
Tutti sappiamo come sia austera, orgogliosa, selettiva la Comédie française, culla dell’ufficialità ma al tempo stesso depositaria di una tradizione viva. Alla «prima» del Molière di Béjart, dove Louis XIV appariva come Apollo nell’oro solare del costume tramandatoci dalla storia, c’era il «tout Paris», ma anche tanta Italia. E la musica di Rota, forse, faceva eco a quella del fiorentino Lully, maestro di corte al tempo del Re Sole e di Molière.
«C’era una grande felicità di vivere, in quegli anni – dice Béjart -; c’era una fiducia stranamente esaltante, e ognuno di noi sognava o desiderava un mondo migliore. Io dissi che il secolo del Re Sole era invece il secolo di Molière, che l’arte era al di sopra del potere, che l’artista è immortale a dispetto di ogni insidia, gelosia, tradimento. Non ho raccontato la vita di Molière, se non in parte, il balletto non è biografia … Ma il destino dell’artista sì, con i simboli della gloria e del dolore, la poltrona del malato immaginario e il sacco che contiene tutti gli attori e li trasforma ogni volta in uomini diversi. Io stesso ero in scena, ero il nonno di Jean­Baptiste, e aiutavo il bambino, il futuro attore e autore, ad innamorarsi del teatro, degli artisti, delle maschere, della commedia dell’arte».


Parigi decretò un trionfo al Molière, e gli spettatori di mezzo mondo sottolinearono il successo di questo balletto così nuovo e diverso, incontro perfetto fra danza e teatro con la benedizione della Cultura (con l’iniziale maiuscola, beninteso). Maurice Béjart aveva mosso i primi passi a Parigi, dove aveva creato una piccola compagnia: i Ballets de l’étoile. Teatro povero, ringhioso, sperimentale: negli anni Cinquanta il coreografo di Marsiglia era «Contro» la tradizione, il metodo di Serge Lifar, per tanti anni padrone dell’Opéra, e le favole romantiche. Non avrebbe mai usato musiche di Ciaikovski, per i suoi balletti (Balanchine invece sì), perché attirato dall’avanguardia, dal concreto, dal jazz, dal diverso. Furono gli intellettuali a dargli fiducia, quando la Rive Gauche era ancora un carrefour di poesia e la Ville Lumière non aveva ancora perduto il suo charme un po’ nero e un po’ coquette a vantaggio di yankees e japs.
Ludmila Tcherina, famosa ballerina, pittrice, scrittrice, nonché bellissima dama e amica dei maggiori artisti, ricorda che restò folgorata quando vide nascere la Sinfonia per un uomo solo. «Compresi, e insieme con me lo capirono le menti più libere di Parigi, che in un teatro grigio e con una piccola compagnia, un giovane artista francese stava rinnovando il balletto contemporaneo».
Con Joseph Lazzini e Roland Petit, in quegli anni, Maurice Béjart formava una triade «très géniale». Ma se Lazzini poi si perdette per via e se Petit portò la sua fantasia, dopo le prove maiuscole degli anni Quaranta, in America e nello spettacolo leggero in coppia con Renée «Zizi» Jeanmaire, Béjart tentava vie più difficili, al limite della provocazione. Parigi non poteva però accettare l’idea di un berretto frigio sul monumento a De Gaulle. Petit trovò la sua sede a Marsiglia, feudo dell’amico Gaston Defferre, sindaco a vita della città del Sud, e vi portò la sua verve parigina. Il marsigliese Béjart fu invitato più a Nord, a Bruxelles. Molti si aspettavano una doppia invasione, una conquista dell’Opéra da parte dei migliori artisti francesi. Non è accaduto, né accadrà tanto presto. Forse mai.

La Piaf conquistava tutti i cuori
Eppure, Parigi non dimentica i suoi figli migliori. E Béjart così firma il gemellaggio Paris­Tokio con un omaggio alla voce di Edith Piaf, il passerotto, il simbolo della chanson francese; Edith, figlia di poveri, nata su un marciapiede, eppure conquistatrice di tutti i cuori. «Che cosa c’è di più parigino di Edith Piaf? – afferma Béjart – E ancora, girando il mondo, mi sono reso conto che Piaf significa Parigi, anche in Giappone. Nessuno si è stupito, a Tokio, della mia scelta. Ascoltavano le canzoni, e si sentivano commossi. Non ho messo in scena Edith, è impossibile; ho usato delle fotografie ingrandite, e la sua voce. Ho messo davanti a lei solo tanti uomini, i suoi uomini».
E anche quest’anno la Patrie ha voluto Béjart. Per celebrare il bicentenario della Rivoluzione, il 1789. Duecento anni fa cominciò a nascere l’idea di una Europa libera, repubblicana e democratica. Béjart ha raccontato la storia di quel grande sogno nel luogo sacro del Grand Palais, nel cuore di Parigi.
«C’è – dice – uno spirito speciale, in questo momento celebrativo, da recuperare: non il potere, non il commercio, non la guerra, ma il principio dell’eguaglianza e della libertà. La Francia addita nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo il punto focale della Festa. Cento anni fa veniva inaugurata la Torre Eiffel, quest’anno si innalzerà nel cielo, ancora più grande, l’Ideale, la promessa di un mondo nuovo».

L’autore più rivoluzionario
Il balletto che Béjart ha portato al Grand Palais dal 2 maggio a metà giugno s’intitola soltanto «1789 … et nous» e si divide in tre parti.  Nella prima la Rivoluzione viene raccontata a un gruppo di ragazzi di oggi, con tutti i suoi temi, le guerre, i tradimenti, le ingiustizie e i principi superiori della Virtù repubblicana. Nella seconda, su musiche di Beethoven, la Virtù si esprime. nelle danze astratte e solari della felicità collettiva.
«Ho scelto – spiega Béjart – le musiche dell’autore più rivoluzionario del tempo, che è Beethoven. Un gioco di numeri sta dietro alle idee musicali: nell’ordine danziamo pezzi delle Sinfonie n. 1, 7, 8, 9. Un po’ di cabala ed è 1789».
La terza parte è «nera», il rovescio della medaglia. Con immagini apocalittiche Béjart lancia un messaggio agli uomini di oggi perché si rendano conto che la Terra è in pericolo, che l’Uomo stesso, che ha tanto lottato per la sua libertà, oggi è sul1’orlo di un baratro. Attenzione, dice Béjart, stiamo perdendo tutto. Distruggiamo la natura, costruiamo armi da guerra micidiali, facciamo saltare gli equilibri ecologici, diventiamo schiavi di poteri occulti e dannosi. Il balletto ci mostra i disastri che ci attendono, ma ci invita a non disperare. A lottare uniti per essere degni dei nostri principi più saldi e veri, della nostra filosofia della vita.
Forse qualcuno avrebbe preferito che il balletto finisse in gloria, con un positivo Allons enfants. Ma Béjart non smentisce mai se stesso e non rinnega la sua libertà. Non celebra miti, ma ideali e proprio nel momento in cui appare più facile alzare i calici in brindisi disimpegnati, ci richiama alla realtà del quotidiano.
«Perché i giovani sappiano e non si facciano illusioni».

Immancabile: da noi si giuoca al «Toto-béjart»
Chi riuscirà ad importare in Italia il «l789… et nous» di Béjart? Chi troverà lo spazio e i tempi giusti per far vedere anche al cittadino italiano il più grande balletto di quest’anno? La caccia è stata aperta, già ai primi dello scorso febbraio, dall’Ater di Modena che propone come luogo il Palasport di Bologna; ma anche la Fenice di Venezia si è lanciata sulle tracce di Béjart; la concorrenza non è stata a guardare.
Al Totobéjart partecipano un po’ tutti. Milano contende «1789… et nous» a Bari; Roma vorrebbe inserirsi; perfino l’Arena di Verona farebbe i salti mortali per ospitare lo spettacolo, ma nel ’90.
Favoriti potrebbero essere i teatri di Emilia e Romagna, ma è poco probabile che «1789… et nous» possa venire in Italia nel corso di quest’anno. E nel 1990, che senso avrebbe?
L’ipotesi più attendibile, salvo smentite e sorprese, è questa: il balletto, depurato dalle tematiche occasionali, potrebbe arrivare anche da noi in futuro, solo con la parte centrale, Beethoven, unita a qualche brandello del finale apocalittico.