di Ettore Mo*

(Pubblicato sul n. 5 di Amadeus, aprile 1990)

Prima reclutato e poi licenziato per inefficienza dal KGB,
Vladimir Ashkenazy è tornato dopo ventisei anni con un memorabile concerto
nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca.

«Io sono russo e russo rimango. Non mi permetto la nostalgia, anche se mi mancano molte cose. Mi manca la mia gente, mi mancano l’abbandono, la generosità dei russi. Mi mancano gli amici, il paesaggio, i boschi di betulle che hanno un suono speciale e quando gli cammini sopra, specie d’autunno, è come passeggiare sulle corde di un’arpa».
Così si sfogava nel novembre del ’76, prima di un concerto alla Scala, Vladimir Ashkenazy, il pianista russo che dal ’63 non era mai più rientrato in patria e aveva messo le radici in occidente, rinunciando definitivamente alla cittadinanza sovietica in favore di quella islandese, il Paese della moglie.

Vladimir Ashkenazy a Mosca. Sullo sfondo la Basilica di San Basilio.

Questa dolorosa favola dell’esilio ha un lieto fine ventisei anni dopo, quando Ashkenazy rimette piede a Mosca per un memorabile concerto nella Sala Grande del Conservatorio. È la sera dell’11 novembre dell’89. A 52 anni, il piccolo vibrante Vladimir si presenta nel duplice ruolo di pianista e direttore d’orchestra con la Royal Philharmonic di Londra, e rovescia sul pubblico, commosso e quasi stregato passione di una giovinezza vissuta altrove.
Non ha avuto tempo, Ashkenazy di riassaporare l’incanto della sua terra e tanto meno di passeggiare sull’arpa dei boschi di betulle; la visita fu breve, anzi brevissima, un paio di concerti in due giorni e subito un imbarco in aereo alla volta del Giappone. Ma sarebbe improprio parlare del rientro come di un evento traumatico: tutto si è svolto in un clima che a noi cronisti è parso d’intensa, intima commozione, senza scenografie plateali. Un ritorno comunque molto diverso da quello che l’artista aveva sognato.
Non era certo nell’indole del musicista recitare il ruolo del grande esule, che gode compiaciuto la propria rivincita nel luogo da cui era stato bruscamente allontanato e sfrattato: né avrebbero potuto sedimentare, nel cuore di Ashkenazy, sentimenti di animosità e di astio verso la Russia, dal momento che la lunga permanenza all’estero gli aveva consentito di realizzare esperienze musicali di ogni genere e di affinare la sua arte. Ashkenazy, allievo diligentissimo fin da bambino del Conservatorio di Mosca, vincitore nel ’62 con John Ogden del prestigioso premio Ciaikowski, non nega i benefici della scuola sovietica: «Ci sono insegnanti e sistemi didattici eccellenti – mi disse durante quella remota intervista alla Scala -: ma si tratta di un tipo di insegnamento che ha i suoi vantaggi e svantaggi. Ecco, il difetto potrebbe essere che ci si accosti alla musica per una questione d’indole naturale, con un fervore troppo romantico, romantico fino all’esasperazione. L’occidente mi ha insegnato una specie di distacco, una valutazione razionale del testo musicale, se così si può dire: il che non significa abbandonare l’anima, l’istinto».

Mosca non era gran che cambiata, fisicamente, dai tempi della sua infanzia e adolescenza: ma era certo diverso il clima politico. Ora, questo illustre musicista, che soltanto qualche anno prima era stato bollato come «traditore» tornava sorridente e osannato in uno dei più grandi templi della musica. Durante la prova, nella sala del Conservatorio, file di ragazzini e studenti si sono avvicinati al proscenio con mazzi di fiori e con le partiture aperte perché Vladimir, il grande Vladimir, vi ponesse l’autografo. Più ancora dell’ovazione finale, quando era apparso stremato e felice davanti al pubblico che non cessava di applaudirlo, ci è sembrato che Ashkenazy fosse particolarmente commosso da quella festosa adolescenza che nel pomeriggio gli aveva regalato fiori e sorrisi e a lungo gli aveva parlato nella sua lingua. In quella sala non aveva mai suonato. Però ricordava i tempi della gioventù quando si infilava in galleria ad ascoltare i grandi virtuosi del pianismo russo.

Vladimir Ashkenazy.

È probabile che molti si siano ricordati di quella famosa serata del 20 aprile dell’86, quando il mitico pianista Vladimir Horowitz tornò a suonare in Russia – la sua Russia – dopo 61 anni di assenza: ma in Horowitz il pubblico moscovita riconosceva e ritrovava un artista eccelso del passato, un uomo che aveva suonato davanti all’ultimo degli Zar e si era intrattenuto con Lenin. Un avvenimento mondano oltre che politico, orchestrato dalla CasaBianca e dal Cremlino a sostegno della perestrojka.
Il rientro di Horowitz aveva qualcosa di cinematografico, di hollywoodiano: ed è onesto presumere che non avesse toccato le intime corde del mondo e del pubblico sovietici, per i quali questo monarca della tastiera era sostanzialmente considerato uno straniero. Ma Ashkenazy era un’altra cosa. Era uno dei figli del post-stalinismo, uno di quei ragazzi degli anni sessanta – come il ballerino Nurejev, pure rientrato nell’Unione Sovietica nel novembre dell’anno scorso – che diedero il via al fenomeno della fuga verso la libertà scegliendo di vivere e lavorare in Occidente.
«Non provo alcun risentimento – confidava Vladimir Ashkenazy il giorno del suo rientro a Mosca – Semplicemente, a distanza di tempo, posso constatare quanto fosse assurdo quel regime che non tollerava la nostra presenza. Ora tutto sta cambiando, e sta cambiando così in fretta. Sta scomparendo quel sistema incredibile, disumano e ridicolo, che per decenni ci ha impedito di viaggiare, parlare, far musica e persino ridere… In realtà, devo riconoscere che il regime non si è mai accanito particolarmente contro la musica. Perché la musica non dice, la musica non parla. Però quando essa dice e quando essa parla, come nel caso della Tredicesima Sinfonia di Shostakovich, corredata dai versi di Evtuchenko, irriverenti o blasfemi, allora la censura è intervenuta». Nelle biografie romanzate Ashkenazy si continua a insinuare che l’ostracismo delle autorità sovietiche nei suoi riguardi sia stato provocato dal fatto che il giovanissimo pianista abbia sfidato la leader­ship del Cremlino suonando una marcia funebre ai funerali di Pastemak, insieme al già famoso Sviatoslav Richter: un’accusa assurda poiché al tempo della morte di Pasternak, Ashkenazy era in tournée all’estero. Probabilmente le sue difficoltà sono legate ad altri episodi. Ciò che è vero è che il musicista corse il rischio di diventare, nella prima giovinezza, un agente del KGB: in effetti era stato «reclutato a forza» dai servizi segreti del Cremlino perché spiasse i compagni di conservatorio, soprattutto gli stranieri, gli anarchici, le teste calde e tutta la scomposta frangia dei romantici di stile occidentale che adoravano Pasternak e Majakovsky.

Vladimir Ashkenazy.

«In realtà – mi ha detto Ashkenazy – non sarebbe corretto sostenere che fui costretto a entrare nel KGB. Diciamo piuttosto che aderii alla loro proposta perché ero terrorizzato dalle conseguenze che avrebbe potuto provocare un mio rifiuto. Ma come avrei potuto fare il delatore sui miei compagni? Dalla mia bocca non uscì mai un’informazione, un’indicazione che potesse giustificare l’intervento, spesso brutale, della polizia segreta: e non fui certo sorpreso quando mi licenziarono per incapacità, scarso zelo, inefficienza. Fu un gran sollievo».
Il KGB non era certo scomparso con l’avvento della perestrojka, ma il Paese dove Ashkenazy rimetteva piede dopo ventisei anni di lontananza aveva un volto diverso, meno duro nei lineamenti, più mosso: «Ho trovato gente nuova – mi ha confidato – gente più libera; quel grande patrimonio umano che è l’anima russa, compresso per oltre mezzo secolo, sta riemergendo e non c’è dubbio che questo processo di liberazione psicologica, oltre che politica, avrà degli effetti profondi e benefici anche sulla musica».
Era possibile che queste novità, questi primi tentativi di cambiamento nelle strutture intime della società e della vita in URSS spingessero il musicista a riprendersi la cittadinanza sovietica, valendosi di una legge appena varata a favore dei fuoriusciti e dei transfughi degli ultimi vent’anni? Ashkenazy si è mostrato molto cauto in proposito ed è quindi assai improbabile che decida di sbarazzarsi del passaporto islandese.

Vladimir in famiglia con la moglie Dodie, il figlio Dimka (a 17 anni), le figlie Sacjha (a 14 anni) e Sonja (a 11 anni).

Troppe cose lo legano ormai saldamente all’occidente: la moglie, Dodie, i cinque figli, la sua ultima dimora, Lucerna, da cui può raggiungere con poche ore di volo tutte le capitali europee, gli impegni fittissimi con programmazioni quinquennali e, infine, (perché tacerlo?) anche i lauti, siderali compensi che gli piovono addosso da ogni parte del mondo per ogni concerto… «E comunque – ha esclamato il maestro, con quella sua voce sempre sommessa e che esclude inflessioni e impennate retoriche – non si tratta di una questione di cittadinanza e di passaporto. Ciò che conta è il cuore: e il mio è rimasto ineluttabilmente russo». Quella sera, nella sala grande del Conservatorio di Mosca ne abbiamo avuto la prova: soprattutto quando ha attaccato il Concerto n. 3 per pianoforte di Beethoven, esibendosi nel duplice ruolo di solista e direttore d ‘orchestra. Mirabile nell’uno e nell’altro, ha incantato un pubblico che conosceva la sua fama di impareggiabile virtuoso della tastiera ma sapeva poco o nulla delle sue capacità interpretative dal podio. In realtà, il podio di Ashkenazy era lo sgabello del piano a coda. Dirigeva con le mani rivolte al pubblico, quasi sempre seduto, ma con le mani e le braccia che si agitavano in gesti perentori e flessuosi a seconda della frase e la grande testa canuta ondeggiava seguendo il flusso della musica.
Ma nel momento delle conclusioni fulminee, quando l’intera orchestra stava per esplodere con gli archi, le trombe e i timpani, allora scattava in piedi e la sua figura vibrava tutta come fosse uno strumento. La moglie e due figlie, Sacha e Sonja, bionde come il grano, il figlio Dimka (studente di Conservatorio) seguivano da un palco laterale l’espansione di quell’uragano sonoro che saliva a spirali verso il cielo buio della sala: e il giovane Dimka sentiva che era suo dovere dare una mano al padre, così solo e fragile sulla pedana, e dirigeva anche lui e quando Vladimir Ashkenazy si alzava in piedi,  catapultato in alto da quel demone di Beethoven, anche lui, Dimka, si alzava in piedi e si conficcava le unghie nel palmo della mano, agitando i pugni chiusi.

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Restano preziosi i contributi di Ettore Mo al mensile Amadeus. Sarà nostra cura ripubblicarli in questa rubrica.

*La vita avventurosa di Ettore Mo
Nel 1962 si presenta al corrispondente da Londra del Corriere della Sera, Piero Ottone, per ottenere un posto come giornalista e viene assunto nella sede londinese del Corriere.
Negli anni precedenti aveva girato il mondo come, secondo le sue parole:
«Sguattero e cameriere a Parigi e Stoccolma, barista nelle Isole della Manica, bibliotecario ad Amburgo, insegnante di francese (senza titoli, naturalmente) a Madrid, infermiere in un ospedale per incurabili a Londra e infine steward in prima classe su una nave della marina mercantile britannica.»
Lavora prima a Roma e poi a Milano, dove si occupa di musica e teatro, fino al 1979, quando ottiene il primo incarico come inviato speciale. Il direttore del Corriere, Franco Di Bella, lo manda in Iran, a Teheran, dove era appena tornato dall’esilio e aveva preso il potere l’Ayatollah Khomeini.
Sempre nello stesso anno compie il primo viaggio in Afghanistan, paese per il quale nutre un amore particolare e di cui diventa uno dei massimi conoscitori. Negli anni successivi ritornerà svariate volte in Afghanistan, entrandovi da clandestino e travestito da mujaheddin, percorrendo le sue montagne con ogni mezzo. Ha incontrato e intervistato più volte Aḥmad Shāh Masʿūd, il Leone del Panshir (il loro primo incontro risale al 1981), di cui ha detto: «Per me era un amico. Lo uccisero due giorni prima dell’attacco alle Twin Towers. I suoi amici mi raccontarono che la sera prima di morire aveva parlato loro di Dante e Hugo. Aveva insegnato loro la guerra, ma anche la poesia
Luigi Baldelli, fotografo, è il suo compagno di viaggio e di lavoro dal 1995, anno nel quale si incontrarono a Sarajevo durante la guerra di Bosnia.
Ettore Mo si è occupato per oltre vent’anni di politica estera: ha raccontato in prima persona tutte le crisi mondiali e ha conosciuto e intervistato i maggiori protagonisti del XX secolo, sempre secondo la sua filosofia, per la quale per un giornalista l’importante è essere sul posto, vedere con i propri occhi, poter ascoltare dai testimoni diretti quanto è accaduto e poterlo riportare in prima persona.
Pur essendo in pensione, continua a girare il mondo in cerca di storie da raccontare ai lettori del suo giornale: «È una malattia: se hai avuto la fortuna di essere testimone dei più grandi avvenimenti non riesci più a farne a meno». Il suo campo sono i grandi servizi speciali, le storie di ogni angolo del mondo che spesso raccoglie in volume.
Ettore Mo è autore di una delle ultime interviste rilasciate da Luciano Pavarotti, al Corriere della Sera, in cui il tenore modenese racconta la sua lotta contro la malattia. (Fonte Wikepedia)