di Franca Cella
(Pubblicato sul n. 96 di Amadeus, novembre 1997)
Una breve storia in tre puntate delle secolari
vicende di questa eccelsa formazione cameristica
con Elisa Pegreffi, testimone d’eccezione
Il 20 dicembre 1946, il Quartetto Italiano allora giovanissimo (aveva un anno di vita) tenne il suo primo concerto per la Società del Quartetto di Milano. A cinquant’anni da quel debutto, la stessa istituzione milanese ha allestito nella stagione 1996-1997 la mostra, a cura di Enzo Beacco, Una storia di quartetti: da Beethoven al Quartetto Italiano. Al Conservatorio milanese dal dicembre ’96 al febbraio ’97, ha poi cominciato a viaggiare. Spero non vi sia sfuggita per almeno quattro ragioni. Prima la bellezza delle immagini, attinte alla miniera del collezionista Tully Potter, arricchita di documenti con la collaborazione anche del Conservatorio di Milano, de I Teatri di Reggio Emilia e degli stessi protagonisti del Quartetto Italiano: Elisa Pegreffi, secondo violino, vedova del primo violino Paolo Borciani scomparso nel 1985, Piero Farulli, viola; con l’operosa vicinanza di Guido Borciani, fratello di Paolo.
Seconda ragione la chiarezza con cui viene isolata una forma musicale (il quartetto d’archi) e abbozzata la storia dei suoi interpreti: i delicatissimi organismi musicali che han nome Quartetti, basati sull’equilibrio sonoro e interpretativo di due violini, una viola, un violoncello. Formano una strana galleria di ritratti quei signori severi, vestiti di scuro, stretti ai loro strumenti ad arco, concentrati su leggii d’epoca e ripetitivamente aggregati quattro a quattro: la loro misteriosa identità di Quartetto si sviluppa dalle quattro persone ed esistenze, maturando un carattere di pensiero e suono, una voce riconoscibile, una storia. La Mostra è un labirinto di storie.
Terza evidenza è la forza del taglio storico: punto di partenza è Beethoven perché con lui la scrittura quartettistica raggiunge un livello così alto e rivoluzionario da obbligare il Quartetto a diventare una formazione organizzata di professionisti. Il piacevole suonare in famiglia, tra amici, che permetteva anche ai dilettanti di leggere i Quartetti di Haydn e Mozart, a Beethoven non basta più. Punto d’arrivo è il Quartetto Italiano, poiché quella formazione fragrante del 1946 diventò presto esemplare nel mondo: per la purezza assoluta del loro suonare a quattro, per la professionalità moderna con cui han dedicato la propria vita artistica esclusivamente al quartetto, e mantenuto la formazione intatta per più di 30 anni.
Le origini della formazione a quattro
Il violinista viennese Ignaz Schuppanzig, amico di Beethoven e di Schubert, è considerato il fondatore del primo Quartetto «stabile» al servizio di un principe: prima di Llchnowsky (dal 1794 al ’99), poi di Rasumovskij (dal 1804 al ’14), il dedicatario dei 3 Quartetti di Beethoven op. 59, terminati nel 1806. Poi per 10 anni girò l’Europa come solista; tornato a Vienna ricostituì il Quartetto (dal 1823 al 1830) ed eseguì gli ultimi Quartetti di Beethoven, composti negli anni 1822-26: così avanzati di novità da risultare «difficili per l’insieme» a chi suonava, e ostici a chi ascoltava. Fu il primo a eseguire, nel tempo, tutti i Quartetti di Beethoven (escluso l’op. 131). Partecipò alla prima esecuzione dell’Ottetto di Schubert nel palazzo del committente conte Troyer che vi suonava il clarinetto (1824) e nello stesso anno diede la prima esecuzione pubblica del Quartetto n. 13 «Rosamunde»; nel 1826quella privata del n. 14 «La morte e la fanciulla».
L’esempio prolifera; Beethoven, con la sua forza di novità e le edizioni a stampa dei Quartetti, inventa una specializzazione, conquista l’Europa. Nascono i Quartetti itineranti. Quattro fratelli tedeschi, i Müller, si specializzano in letteratura per quartetto e per 27 anni girano freneticamente per tutta Europa, con valige piene di musica. Si deve a loro la prima esecuzione dell’op. 131 di Beethoven, nel 1828. Il violinista Pierre Baillot, che aveva incontrato a Vienna Haydn e Beethoven, introdusse esecuzioni regolari di quartetti a Parigi, dal 1814. Londra programmò la prima integrale dei Quartetti di Beethoven (1845), guidata da Camillo Sivori, allievo di Paganini. Il magnetico Joseph Joachim (1831-1907), violinista prodigio a 12 anni, solista acclamato in Europa, primo interprete autorevole di Concerti e Sonate di Brahms, Bruch, Schumann e Konzertmeister in storiche istituzioni, fondò Quartetti in tutti i luoghi della sua presenza stabile: a Lipsia, Weimar, Hannover, Londra, Berlino. E quando viaggia cerca sul posto i complementi per formare il Quartetto, come accade a Milano fin dalla sua prima apparizione alla Società del Quartetto nel 1880, naturalmente con programma Beethoven. Il rapporto delle formazioni quartettistiche con la milanese Società del Quartetto, fondata nel 1864, è un’altra prospettiva che la mostra segnala. Tutti i grandi Quartetti passano da qui e diffondono la grande musica.
Quarta prospettiva intrecciata: il rapporto con gli autori. Adolph Brodsky, russo educato a Vienna, primo interprete solista del Concerto per violino di Caikovskij (1881), crea due formazioni di Quartetto, a Lipsia e a Manchester; a quest’ultima Elgar dedicò il suo Quartetto in mi minore, nel 1918. L’ancor più famoso concertista Eugène lsaye (1859-1931) fu per 16 anni primo violino del Quartetto che porta il suo nome (attivo dal 1886 ai primi del secolo): ecco i quattro fotografati attorno al vecchio César Franck, a Tournoi nel maggio 1890, dove eseguirono il suo unico Quartetto in re maggiore appena composto.
Nel 1906 ricostruirono la formazione per la prima esecuzione del Quintetto n.1 di Fauré, con l’autore al pianoforte. Il Quartetto Amar (1921-1929) si riunì attorno al compositore Paul Hindemith (che suonava la viola) e diede le prime esecuzioni dei suoi Quartetti n. 2, 3, 4, di Minimax e del Quintetto per clarinetto e archi.
Occorrerebbe un libro per dipanare tante storie. Allora siamo partiti dall’unica storia che possediamo, il Quartetto Italiano, e abbiamo chiesto a Elisa Pegreffi, intelligente e luminosa come il suono del suo violino allora, di attraversare con noi la Mostra, di ricordare, di ripensare, naturalmente con la sua personale libertà di pareri. Di farci capire dall’interno il sapore vivo del Quartetto il modo di vedere uno e molteplice, attraverso la sua esperienza, la sua quartettistica capacità di fraseggiare in dialogo anche quando parla.
«Come eravamo? Ci ritrae, proprio nel 1946 (novembre, poco prima dell’ingresso di Piero Farulli al posto di Forzanti), un articolo di Giulio Confalonieri, dopo un concerto alla Camerata milanese al Castello Sforzesco e uno ravvicinato, a casa di un amico scrittore: “Borciani, con la sua testa eretta, sembrava un Peter Pan appena appena baffuto, orgoglioso di far strada ai compagni verso l’impero delle fate; la Pegreffi, con i capelli spioventi sopra la tavola del suo violino, lo seguiva pensierosa e l’attesa di arrivare non turbava mai la sua fede. Forzanti, interrogando il cuore della viola, levava spesso gli occhi al cielo; era proprio uno che pregasse e la preghiera intendesse come un dolce colloquio. Ma Rossi veniva ogni tanto sopraffatto dalle sue e dalle altrui meraviglie. A sentirsi il violoncello così vivo, così accondiscendente sotto la pressione delle dita e dell’arco, la faccia gli si arrossava. Io mi aspettavo di vederlo sciogliersi in lacrime e allora sarei corso da lui per dirgli che non era cosa dolorosa. Il Beethoven del Quartetto in fa op. 59 balzò nella stanza”.
Confalonieri, critico e musicista, e conoscitore sottile dei sacrifici che il Quartetto esige: “Riunirsi in quartetto è un’operazione difficile. Occorre una simpatia illimitata, che continui a circolare e si chiuda in un anello di fiducia reciproca; occorre quell’atto ispirato per cui, monacandosi, uno interrompe la melopea del proprio individuo e sa di ritrovarla, più tardi, trasfigurata in un concetto, riprodotta in un’azione collettiva, specchiata in un’opera. È un arduo modo di immortalarsi senza soggiacere alle pesantezze del nome; una scelta di vivere, accordando una speranza al destino delle proprie fantasie segrete. Che quattro giovani, che quattro giovanissimi abbiano vinto lo splendente egoismo della loro età gagliarda è già, per sé stessa, una cosa ammirabile. Ma che, poi, questa decisione e questo impegno si accompagnino a tanta semplicità, rinuncino a sottolinearsi, si ristorino in una sorridente franchezza è quasi, ai giorni nostri, “un prodigio”. All’inizio, e nei primi concerti milanesi, la viola era Lionello Forzanti, compagno ai corsi di perfezionamento dell’Accademia Chigiana di Siena, dove Rossi rulli, Borciani e Pegreffi si incontrarono negli anni della seconda guerra mondiale; aveva 9 anni più di loro che ne avevan venti e puntava alla direzione dell’orchestra. Farulli, arruolato in Sicilia, entrò nel 1947.
Elisa Pegreffi, come si manifesta la vocazione al Quartetto?
«Io penso che noi tutti, quando abbiamo cominciato a studiare, pensavamo al concerto da solista. Però in tutti noi è accaduto qualcosa. Ci siamo incontrati a Siena, abbiamo suonato insieme, e il Quartetto Italiano è venuto fuori da lì, come cosa naturale, come si nasce, si cammina».
C’era però in tutti voi un costume che purtroppo oggi è scomparso, l’abitudine a far musica in casa.
«Avevamo tutti il senso dell’insieme del Quartetto. Io vengo da una famiglia di musicisti: mio padre era capo dei secondi violini al Carlo Felice di Genova, mio nonno aveva studiato composizione con Padre Petronio Minorio. A dieci, dodici anni facevo quartetto in casa, con mio padre alla viola, io primo violino e due allievi di mio padre dilettanti. Ho studiato a Genova, al Conservatorio Paganini, con Antonio Abussi; per l’esame al diploma bisognava fare Quartetto, e poiché non esisteva una viola andavo a lezione da un vecchio insegnante che si chiamava Grieis, e suonavo io la viola. Rossi e Farulli, che studiavano a Firenze, andavano per esempio la sera a casa Olshki a far Quartetto, leggevano. Mio marito, Paolo Borciani, durante la guerra era scappato, nel ’43, e di giorno stava nascosto in mezzo al grano; a mezzanotte veniva fuori, tappavano le finestre e suonavano: lui e il padre ai violini, il fratello che faceva le altre due parli sul pianoforte».
Queste premesse sono maturate a Siena, dove voi, ventenni cresciuti in tempi difficili, scoprivate la libertà della musica, ai corsi di Arturo Bonucci (violoncello), Arrigo Serato (violino), Alfredo Casella (pianoforte), Antonio Guarnieri (direzione d’orchestra).
«Frequentavamo tutti, sempre, la classe di Bonucci, che faceva anche musica da camera. E lì, nel ’42, Bonucci decise di portare al saggio il Quartetto di Debussy. Aveva scelto come secondo violino un’altra ragazza, e c’erano Paolo, Forzanti e Rossi. Ma c’è un destino. Da poco avevano cominciato a provare quando, in una delle sale del palazzo Chigi, incontro Bonucci: “Ciao, Pegreffina, ti devo chiedere una cosa. Tu faresti il secondo violino nel Quartetto di Debussy?”. ”Ma altroché”. ”Ma, il secondo violino…”. “Certo”. Eravamo alla casa dello Studente, si studiava dopo cena. Come abbiamo cominciato a studiare Quartetto, ragazzi venivano con la loro sedia, si mettevano davanti alla porta aperta e ascoltavano. Quindi c’era già allora qualcosa che attirava quando abbiamo fatto il saggio, ricordo che provavamo prima di entrare, e lo sapevamo a memoria. Non so chi di noi ha detto: “Potremmo fare a memoria”. Al momento no, perché non l’avevamo mai provato. Ma da lì è venuto il suonare a memoria del Quartetto Italiano».
L’8 settembre ’43 pone fine all’isola felice di Siena. Quando vi siete ritrovati?
«Quando è finita la guerra. Paolo stava a Reggio Emilia, io ero sfollata a Novellara. È venuto e ha detto: ‘Ti ricordi che quando ci siamo lasciati a Siena abbiamo detto che si doveva fare Quartetto?”. “E come no?” Allora suo fratello Guido è andato a Venezia con mezzi di fortuna a cercare gli altri due».
Nel ’45 cominciano, e volano subito alto. A Venezia, al Festival di Musica contemporanea del ’46, Virgil Thomson, critico dell’Herald Tribune, resta folgorato. Ma venivano da un momento difficile, senza modelli, non c’erano dischi. La situazione di guerra li ha fatti crescere in una terra un po’ isolata. Li ha concentrati su un rapporto diretto con gli autori. «Abbiamo cominciato senza aver sentito quasi nessuno. Il nostro primo Quartetto è stato Debussy, e abbiamo preso dei tempi che fecero scrivere a Gavoty: ”Il Debussy del Quartetto Italiano è una creazione”». Si sono inventati un metodo di studio. «Studiavamo cercando. Non c’era mai niente di preordinato, doveva venire spontaneo. Ci abbiamo messo moltissimo a studiare. Eravamo i più lenti di tutti i Quartetti del mondo. Perché stavamo lì sopra a ripensare e cambiavamo anche tante cose. Anche perché il mondo stava cambiando».
Vi univa la concordia…. «Macché! Succedevano cose turche, discussioni. Certe volte passavamo ore sopra due battute. Però non era mai tempo buttato via, si acquistava. In noi, anche come caratteri, come modo di vivere, c’è sempre stata l’angoscia, il tormento. Il tormento dello studio, delle legature, dei concerti, di tutto. Era un tormento continuo. Eppure eravamo delle persone allegre. Per noi era una questione vitale il dubbio, il capire, l’avvicinarsi a quello che ha voluto l’autore».
Da tanto provare, confrontare i pensieri, limare, si libera il momento creativo dell’interpretazione.
«Porto sempre l’esempio di quando cominciammo a studiare l’op. 18 n.3 di Beethoven. Stavamo leggendo l’Andantino, e alla fine c’è una pausa. Poi comincia il secondo violino con delle sincopi, e il violoncello riprende il tema, ma spezzato, sotto questa cosa. E Franco Rossi lo riprese, più lento. A me è venuto da piangere, Paolo si è messo a ridere dalla gioia. Perbacco, gli han detto, e tu perché ridi? Perché quando si sente far la musica così, bisogna ridere».
Sono presi dall’idea del suono completo: «Cercavamo in noi la voce del Quartetto. Il leggendario Joachim dev’essere stato un gran Quartetto, per lo meno lui, il violino, era grande. Un tempo, la tendenza era far emergere il primo violino: era lui il leader. In noi quest’idea non c’è mai stata, credo che sia effettivamente cambiata quando siamo venuti fuori noi».
Nel ’79 Farulli si ammalò e il Quartetto proseguì con Dino Asciolla, ma nell’81 si dissolse. È difficile mettere insieme quattro vite, per più di 30 anni?
«In certi momenti è tragico, e lo è stato il nostro finale. E non poteva essere che così, perché noi eravamo un Quartetto da tragedia greca. Con tutto che ci siamo sempre molto stimati ed è rimasta l’unione».
Il rigore, la professionalità assoluta li rendeva orgogliosi, mordaci. «Eravamo molto orgogliosi, anche perché eravamo convinti che quello che facevamo noi andava bene. Perciò eravamo un po’ ingrugnati nell’ascoltare gli altri. Ed eravamo mordaci, feroci anche fra noi». Negli anni ’20 non han potuto conoscere i Quartetti storici formati tra ‘800 e ‘900: il Rosé (1802-45) che crea prime esecuzioni di Brahms (Quintetto n.2, 1890) e Schbnberg (Verktarte Nacht, 1903; Sinfonia da camera, 1907; Quartetti n. 1 e n. 2), il parigino Capet (1893-1928), devoto a Beethoven con le sue ben cinque formazioni, il Flonzaley (1902-28) che prende nome dalla residenza svizzera del banchiere americano che li fondò; per loro Stravinsky scrive su commissione i 3 Pezzi (1915) e Concertino (1920).
«l Quartetti del passato li conosco di nome. Per esempio ho un’incisione del Flonzaley, con Betti primo violino: l’abbiamo trovata da un antiquario di New York, dove loro erano di casa, e l’abbiamo portato a fatica, perché pesa un accidente. È stata una cosa impressionante sentire come suonavano, con quale pienezza. Ed eravamo lusingati perché, al nostro debutto americano (New York, Town Hall, novembre 1951), il critico Virgil Thomson aveva mpotuto paragonarci al Kneisel di Boston, allo svizzero Flonzaley o al parigino Capet. “Essi”, disse di noi, “hanno creato modelli di tecnica e condotta musicale destinata a rimanere a lungo il segno più alto dell’arte”».
Degli anni che precedono la guerra, Elisa Pegreffi ha una prospettiva limitata all’osservatorio di Genova, dove è nata e ha studiato. «Dall’epoca in cui ho cominciato ad andare ai concerti da bambina, verso i dieci anni (sono nata nel 1922), alla Giovine Orchestra Genovese, ricordo pochissimi Quartetti. Perché era un’epoca in cui il Quartetto, almeno in Italia, non era una vera scelta professionale. Ricordo il Quartetto Poltronieri, che però aveva il viziaccio maledetto di cambiare ogni momento, ma il Quartetto non era la loro vita artistica, lo facevano come si faceva allora, ogni tanto. Così Michelangelo Abbado, lo stesso Remy Principe di Roma. Quello che mi fece impressione fu il Quartetto Kolisch (1922-39) perché aveva due cose: una che suonava a memoria, l’altra che il primo violino suonava alla rovescia, quindi i due violini stavano di fronte. Probabilmente, se avessi abitato a Milano avrei sentito i grandi Quartetti: il Busch (1913-52) (che invece ho ascoltato come violinista in duo con Serkin), il Lener (1918-48), il Pro Arte (1913-47). Il Quartetto Busch l’ho sentito solo in disco: era un toscaniniano fervido e faceva tempi rapidi alla Toscanini. Quindi certi suoi tempi di Beethoven non ci sono piaciuti, perché erano troppo lontani dai nostri. Con tutta l’ammirazione, perché, ad esempio, l’inizio dell’op.132, il primo tempo, è una cosa meravigliosa. In loro c’è l’intelligenza, la cultura, la capacità di attirare dentro e far capire».
Poi, lanciati in giro per il mondo, avete avuto contatti con altri Quartetti?
«È difficile incontrarsi nelle tournées, perché non c’è tempo. La vita del Quartetto è faticosa: bisogna far presto, conciliare con gli impegni di chi insegna al Conservatorio, e fare, magari, i concerti per le scuole la mattina, e la sera il concerto per i soci. Eravamo molto amici con lo Smetana; siamo andati più volte in Cecoslovacchia e si mangiava tutti assieme, si parlava.… A New York siamo andati a sentire il Quartetto di Budapest con Roisman primo violino: magari tecnicamente qualcosina lasciava a desiderare, però dava il carattere della musica che suonavano».
Sono stati altri incontri a portare confronto, novità, cambiamento al vostro equilibrio?
«Abbiamo scoperto cose dopo anni, parlando con i grandi: pianisti, violoncellisti, direttori… Ascoltando e cambiando. Perché noi abbiamo cambiato veramente modo di suonare. Dalla purezza cristallina dell’inizio, piacevolissima da sentire, toscaniniana, siamo andati verso quello che poi ci è sembrato il modo giusto, che evidentemente era in noi, ma occorreva che qualcuno ci indicasse la strada. È stato l’incontro favoloso con Furtwängler, nel ’49 a Salisburgo; ci ha aperto un mondo che noi non conoscevamo, noi che venivamo dal Conservatorio, dal non aver quasi sentito nessuno. Facevamo un concerto al Festival, e lui venne a sentirci, perché adorava il Quartetto di Verdi che avevamo in programma, tanto più che stava dirigendo Otello. Me lo ricordo in piedi, vicino a una porta del bel salone da musica dell’Impero austroungarico. Alla fine venne a salutarci e propose: ”Perché non venite stasera da dei miei amici? Leggiamo il Quintetto (per pianoforte in fa minore) di Brahms”. Siamo andati, ci siamo messi attorno al pianoforte, e come lui ha staccato l’Allegro a un tempo ampio, disteso, siamo stati trascinati dalla sua forza irresistibile di convincimento; l’abbiamo letto da cima a fondo, e rifatto un’altra volta. Poi ci siam messi a parlare. Abbiamo cominciato a domandare i tempi degli ultimi Quartetti di Beethoven. E Furtwängler ci ha aperto questo mondo di tensione, non di lentezza. Qualcosa che uno prende fra le mani, tira al massimo, e non si spezza mai. Come la Canzona dell’op. 132».
I leggendari tempi larghi del Quartetto Italiano.
«Non è detto che si debba fare tutto lento, ma è il bisogno di una continuità estrema nel Quartetto. Diceva che bisogna essere sempre liberi in battuta: anche una semicroma può bastare a creare l’unione tra la battuta dopo e la precedente, senza mai fermarsi, col senso della grande linea. Furtwängler ce lo ha fatto capire con umiltà commovente. Ricordo che stavamo studiando, allora, l’op. 130 di Beethoven. Avevamo avuto delle discussioni sullo Scherzo; lo facevamo, come indicato, “Allegro assai” perché avevamo una bellissima tecnica però Paolo aveva un problema nel Trio, non riusciva a far sentire l’acciaccatura al suo disegno (una pagina di acciaccature che Beethoven ha annotato). Furtwängler ha ascoltato, poi ha detto con semplicità: ”È vero, non si sente. E allora lo staccate più lento”. Poi a casa abbiamo veramente pianto studiando, perché non capivamo più quello che si poteva o non si poteva fare. Perché sentivamo che non era così, e bisognava provare ad avvicinarsi a un altro mondo, che non era più quello che avevamo dietro le spalle, ma quello che dovevamo conquistare, quando saremmo andati avanti, fin che Dio voleva».
(continua)