di Rubens Tedeschi

(Pubblicato sul n. 18 di Amadeus, maggio 1991)

Il 29 maggio 1913 andava in scena una nuova epoca artistica.
Il capolavoro di Stravinsky chiarì che le arti e la stessa vita
erano pronte
per un’irresistibile svolta storica.
Il suo fragore
raccolse tutte le spinte eversive del momento.

Igor Stravinsky in una fotografia giovanile.

Il 29 maggio 1913 Le Sacre du printemps esplose come una bomba tra gli ori e gli avori del Théatre des Champs-Elysées. Fu uno «Scandalo» storico, una battaglia paragonabile a quella scatenata un secolo prima dall’ Hernani di Victor Hugo.
La nascita di un’epoca nuova provocava, ancora una volta, la netta divisione del pubblico: da una parte i conservatori offesi e, dall’altra, gli innovatori, schierati, per ragioni artistiche o mondane, contro i «signori palchettisti».
Con differenze e analogie tutt’altro che trascurabili. L’ Hernani accompagnava la nascita del romanticismo ribelle, mentre il Sacre seppelliva gli epigoni di un romanticismo ormai svuotato d’ogni ragion d’essere. In compenso, come cronisti di eccezione, i due avvenimenti mobilitarono i più raffinati giocolieri della parola: Théophile Gautier per Hugo, Jean Cocteau per Stravinsky. Ora, però, lasciamo il passato per fermarci al nostro secolo e, con Cocteau, «ritorniamo nella sala dell’avenue Montaigne, in attesa che il direttore d’orchestra batta sul leggio e che il sipario si alzi su uno dei più nobili avvenimenti registrati negli annali dell’arte». «La sala –prosegue lo scrittore – si comportò com’era prevedibile: si ammutinò immediatamente. Si rideva, si sputava, si fischiava, si imitavano versi animaleschi; forse il baccano sarebbe cessato a lungo andare, se il gruppo degli esteti e qualche orchestrale, trascinati da zelo eccessivo, non avessero replicato con insulti e con minacce verso il pubblico dei palchi. Il chiasso, allora, degenerò in lotta. In piedi nel suo palco, il diadema di traverso, la vecchia contessa di Pourtalès brandiva il ventaglio e gridava, congestionata: ”È la prima volta in sessant’anni che si osa prendermi in giro”. La buona dama era sincera: credeva realmente a una mistificazione».
Secondo un’altra testimone d’eccezione, Romola de Pulszki che pochi mesi dopo sposerà Nijinskij, le signore del bel mondo erano le più attive nel conflitto, da una parte e dall’altra: «Una dama sontuosamente abbigliata si alzò nel suo palco e schiaffeggiò un giovanotto che fischiava nel palco vicino. Il suo accompagnatore intervenne e gli uomini si scambiarono i biglietti da visita. L’indomani vi fu un duello. Un’altra signora dell’alta società sputò in faccia a uno dei manifestanti».

Un immagine della prima rappresentazione del “Sacre du printemps” (1913).


Rave
I e Debussy
I musicisti non erano da meno. Maurice Ravel applaudiva con fervore meritandosi l’epiteto (doppiamente gratuito) di «sporco ebreo». Per pareggiare i conti un altro compositore amico di Stravinsky, l’illustre Florent Schmitt, urlava «Taisez-vous garces du seizième» (state zitte, puttane del sedicesimo) a certe elegantissime snob che non avrebbero attraversato, neppure in carrozza, il popolare «Sedicesimo arrondissement». Claude Debussy sedeva invece in silenzio accanto a Misia Sert, l’estrosa russa mecenate di Diaghilev, che così lo rammenta nelle proprie memorie: «Il suo viso inquieto rifletteva una spaventosa tristezza. Si protese verso di me e mormorò: ”È terribile, non capisco più”». Cosa abbastanza strana perché Debussy, qualche mese prima, aveva suonato l’opera a quattro mani con lo stesso Stravinsky confermandogli per lettera il suo entusiasmo: «Ho sempre in mente la nostra lettura al pianoforte del Sacre du printemps, in casa di Laloy. Mi ossessiona come un magnifico incubo e cerco, invano, di rievocare quell’impressione terrificante».

Igor Stravinsky e Vaslav Nijinskij a Parigi nel 1911.

Folgorati e convertiti
L’elenco dei folgorati e convertiti potrebbe continuare a lungo. Per amor di patria non dimentichiamo gli esuberanti italiani citati da Gianfrancesco Malipiero: Gabriele D’Annunzio, Alfredo Casella e, naturalmente, lui stesso, schierati col russo «contro la bestialità trionfante», mentre e fra gli ascoltatori composti, ma tutt’altro che rapiti c’era Ildebrando Pizzetti» che giudicava Stravinsky «Un artista di molto ingegno, ma creatore di un’arte tutta esteriore, senza profondità».
Per concludere la cronaca, citiamo ancora due testimonianze opposte sul dopoteatro. Secondo Cocteau, «alle due del mattino, Stravinsky, Nijinskij, Diaghilev e io ci pigiammo in una carrozzella e ci facemmo condurre al Bois de Boulogne». E lì, nella «notte profumata di acacia», Diaghilev, col grosso volto rigato di lagrime, si diede a «borbottare» in russo versi di Puskin sul viaggio alle mitiche isole.
Il racconto è poetico, ma nettamente smentito dallo stesso Stravinsky nelle Conversazioni con Craft: «Dopo l’esecuzione eravamo eccitati, adirati, disgustati e … felici. Con Diaghilev e Nijinskij si andò in un ristorante. Ben lungi dal piangere e dal recitare Puskin nel Bois de Boulogne come si è formata la leggenda, il solo commento di Diaghilev fu: “Esattamente quello che volevo”. Aveva di certo un’aria soddisfatta».
Sebbene Stravinsky, nei suoi ricordi, non sia sempre affidabile, la sua versione sembra più vicina al vero. Comunque sia, il Sacre ottenne una vibrante rivincita l’anno successivo (aprile 1914) in concerto al Casino de Paris. Un vero e proprio trionfo, coronato dall’invasione del palcoscenico da parte degli spettatori che, issato il musicista su «anonime spalle», lo riportarono festosamente all’hotel. Il russo ne fu ampiamente soddisfatto: il successo musicale, piacevole in sé, gli permetteva di scaricare la responsabilità dello scandalo sulle spalle di Nijinskij, autore di una coreografia che aveva contribuito non poco a irritare il pubblico. Basterebbe ricordare le reazioni dei begli spiriti ai gesti delle danzatrici con le palme premute sul volto: «Un docteur!», «Non, un dentiste!», «Deux dentistes!» e via di questo passo.
Gli spettatori, viziati dal pittoresco esotismo dei precedenti balletti russi, trovarono repulsivo uno spettacolo che, secondo Cyril Beaumont, testimone delle repliche londinesi, era «così totalmente nuovo nella prospettiva, così interamente primitivo nella concezione, così brutale nel movimento». «I critici di Nijinskij hanno torto – disse Stravinsky al critico del Gil Blas all’indomani della prima – Egli è un artista ammirevole, capace di rivoluzionare l’arte del balletto. Non è soltanto un meraviglioso danzatore, ma è in grado di creare qualcosa di nuovo. Il suo contributo al Sacre du printemps è molto importante». In seguito, però, nelle Cronache e nelle ripetute dichiarazioni, non mancò di denunciare «l’ignoranza» musicale di Nijinskij, vera o presunta.

Stravinsky a Hollywood con Edward G. Robinson.

Oggi, dopo ottant’anni, la polemica sulle «responsabilità» non ha più senso. Le arti, la vita stessa erano giunte a una svolta storica e il Sacre l’abbordò con l’irresistibile violenza di un treno lanciato alla massima velocità. Non vi fu un deragliamento, ma una scossa che risvegliò i passeggeri insonnoliti, costringendoli ad aprire gli occhi sullo sfacelo delle comode tradizioni.
I conformisti avevano appena digerito l’impressionismo dopo averlo denunciato come mostruoso sovvertimento. L’ Olympia di Manet era stata appena ricevuta nel tempio del Louvre, ed ecco emergere, all’insegna del «fauvismo» e del «Cubismo», una nuova rottura più catastrofica. Gli ismi si moltiplicano. Il Futurismo rimbalza dall’Italia alla Russia, rilanciando dalle pagine del Cavaliere Azzurro l’invito a «buttare a mare tutta la zavorra accademica» assieme alle regole della vecchia cucina: «Costruzione, Simmetria (Anatomia) delle proporzioni, Prospettiva, ecc.».
Scompaiono dalle tele dipinte le morbide figure femminili sostituite da un diluvio di quadrati, di triangoli, di ruote in movimento dove l’Antigrazioso di Boccioni soppianta il grazioso, i violini esplodono in frammenti di legno e la Donna in camicia, squarciata da Picasso, ha perso ogni sensualità.
La distruzione dei canoni accademici si accompagna alla scoperta dei primitivi. Voltando le spalle al Partenone, gli artisti scoprono, in Oceania o in Africa non importa, l’arte negra: maschere, idoli, sculture funerarie. Il feticcio trovato da Vlaminck (o da Matisse?) appare a Derain «bello come la Venere di Milo» e addirittura «più bello» a Picasso. Leggende, si sa, ma indicative di un gusto che travolge, come un’onda irresistibile, le più radicate credenze artistiche. Il benpensante è sconvolto e si guarda bene dal seguire gli ironici consigli di Apollinaire: «È indispensabile visitare il Salon d’Automne. I padri di famiglia faranno bene a condurvi i figli con intento pedagogico e umanitario».

Igor Stravinsky (a sinistra) con Ruzena Zatkova Kchvoshinsky (seduta), Sergei Diaghilev (dietro di lei) e Léon Bakst, nel 1915.

Bombardato dalle provocazioni, il padre di famiglia vorrebbe piuttosto trovare un rifugio nella musica. E invece, anche qui, dopo essersi orientato a fatica tra le ombre del castello di Mélisande, ecco l’eruzione vulcanica del Sacre. È vero che – usando ancora una volta il senno di poi – essa non giunge inattesa, visto che, nel giro di un decennio, erano già spuntate Salamé, Elektra, le Sinfonie di Mahler oltre al Pierrot lunaire. Ma il fragore del Sacre, ingigantito dalla cassa di risonanza dei Ballets russes, supera ogni altro, raccogliendo in un unico blocco tutte le spinte eversive del momento: la violenza colorisitica dei fauves, l’angolosità dei cubisti, la nudità dei primitivi. Il tutto ulteriormente potenziato da un’orchestra gigantesca e dalla luce implacabile del palcoscenico, ma soprattutto costruito con spietata volontà.
È questa la fondamentale caratteristica dell’arte del nostro secolo, governata – sulle macerie dell’ispirazione romantica – dalla lucidità dell’intelligenza. L’intelligenza, si badi, dell’epoca delle macchine, spogliata di ogni grazia illuministica. I celebri ritmi del Sacre, con le loro sequenze matematiche e irregolari, ne sono l’esempio più evidente. Ma un altro esempio, meno noto perché abilmente nascosto, è quello del nuovo «primitivismo» attraverso l’impiego di cellule folkloristiche. Stravinsky l’ha sempre negato: «La melodia iniziale del fagotto nel Sacre du printemps è l’unica melodia popolare presente in quel lavoro. Proveniva da un’antologia di musica folklorica lituana che avevo trovato a Varsavia».
L’affermazione, rispettosamente raccolta dagli esegeti, è vera e falsa allo stesso tempo. L’ha smentita, recentemente, il musicologo Richard Taruskin consultando gli schizzi preparatori dell’autore. Qui sono annotati, oltre a vari canti lituani, altri derivati dalla collezione di Rimskij-Kor akov o direttamente registrati dallo stesso Igor Stravinsky nelle campagne di Talaskin e di Ustilig. Utilizzando queste fonti, il compositore le sottopone a un raffinato «processo di astrazione» sino a farle praticamente scomparire. Esse, nota Richard Taruskin, «Sono talmente assorbite nel tessuto musicale stravinskiano che, senza gli appunti, la loro presenza riuscirebbe insospettabile. In altre parole, lo sketchbook rivela quell’astrazione di elementi stilistici dal folklore che segna il momento della svolta nello sviluppo di Stravinsky come compositore».
Da qui in poi, infatti, il colore «nazionale» si farà più ambiguo nelle sue composizioni sino a scomparire. Il risultato, paradossale, fu una seconda e opposta rivolta degli ascoltatori: il Sacre, dapprima condannato per l’eccessiva modernità, verrà rimpianto in seguito come l’estremo capolavoro di una stagione «russa» praticamente irripetibile. Salvo la fortunata eccezione delle Noces che, dopo aver fatto piangere di gioia Sergej Diaghilev, riconciliano momentaneamente il pubblico col suo autore.

****************

Un rito primordiale in uno spettacolo choc

di Mario Pasi

Le Sacre du  printemps (in italiano, correttamente, il  Rito della primavera, e non Sagra) fu uno spettacolo choc dei Ballets russes di Serge Diaghilev, e uno degli scandali più clamorosi del tempo. Le «Scene della Russia pagana» parvero ai più intollerabili sia sul piano musicale sia su quello coreografico. Il Sacre però fu definito barbaro e offensivo anche per i contenuti che esprimeva: il risveglio violento della natura e della sessualità, lo scatenamento di una cerimonia che porta al sacrificio della Eletta, lo sviluppo di forze primordiali nutrite dalle profondità della storia non erano certamente facili da capire da parte di spettatori abituati a visioni più consolanti e del tutto impreparati al nuovo. La musica, nel suo disordine cosmico e nel suo parossismo ritmico, fu accusata di brutalità sovversiva. Oggi ci appare come una delle più belle e geniali partiture del nostro secolo.

Sergej Diaghilev insieme a Igor Stravinsky.

Forse, in quella serata del 1913, la miccia della rivolta fu accesa, in un fatale raddoppio scandalistico, dalla coreografia di Vaslav Nijinskij. In questa prova, che seguiva di poco L’après-midi d’un faune e Jeux, il giovane ballerino tradusse la danza in un cerimoniale primitivo e tribale rovesciando tutti i temi della tradizione romantica. Nulla di gentile e di bello, nel Sacre, ma solo furori e terrori espressi con grande incisività, posizioni «anormali», coi piedi volti «in dentro», braccia rovesciate, balzi e salti, tensioni fisiche al limite del possibile. Nijinskij aveva ragione: solo così poteva essere raccontata una storia lontana, con uomini e donne non ancora toccati dalla civiltà.
Diaghilev voleva senza dubbio che il Sacre fosse una miscela esplosiva e che se ne parlasse molto: i Ballets russes erano alla moda, i loro artisti erano diventati dei divi e Nijinskij appariva come l’uomo del rinnovamento. Stravinsky, scoperto e lanciato dall’impresario che aveva fiutato il suo genio, poté assumere per qualche tempo il ruolo di capofila nella rivoluzione musicale. Si sa però che, da uomo moderato qual era, non fu sempre d’accordo con le fughe in avanti del coreografo.
Nijinskij in quello stesso anno sposò Romola de Pulszki e provocò l’ira del padre-padrone di Diaghilev, che lo cacciò dalla compagnia. L’impresario peraltro non pensava fosse giusto proseguire sulla via delle provocazioni e degli scandali e negli anni successivi, segnati dall’avvento di Leonide Massine, tornò a produzioni più tranquille. Lo stesso Massine realizzò nel 1920 una edizione meno sovversiva del Sacre.
Se la musica di Stravinsky è entrata nel grande repertorio sinfonico, il balletto ha conosciuto alterne fortune: l’edizione originale, ripresa recentemente dall’americano Joffrey Ballet non ha più significato artistico, ma altri coreografi, come Béjart, hanno ridato al Sacre il posto che merita nel mondo della danza. Momento di rottura col passato, nel 1913; oggi esaltazione della vitalità della terra e dell’amore che si identifica con l’arrivo della primavera e che assicura la continuità della vita.

****************

Il cinema e Igor Stravinsky

di Callisto Cosulich

Walt Disney e Igor Stravinsky durante la lavorazione di “Fantasia”.

«Il solo interesse della musica per film è quello di nutrire il suo compositore», avrebbe detto Stravinsky, esprimendo così il suo disprezzo verso un’attività da lui considerata puramente alimentare. Ma è probabile che questa dichiarazione senza data segua anziché precedere i suoi approcci al cinema che dal 1939, l’anno in cui egli si trasferì dalla Francia negli Stati Uniti, al 1946, furono frequenti, anche se non soddisfacenti.
Il 4 gennaio 1939 Stravinsky firmò senza battere ciglio un sostanzioso contratto con la Walt Disney, dopo che il «padre di Topolino» gli aveva mostrato l’impiego del suo popolarissimo figlio ne L’apprendista stregone, il film di animazione che aveva creato sullo scherzo sinfonico di Paul Dukas, coll’intenzione d’inserirlo nel lungometraggio Fantasia in corso di realizzazione. Con quel contratto il musicista consentiva a Disney l’impiego di La sagra della primavera per un altro episodio di Fantasia e firmava una opzione per l’utilizzo di altre sue composizioni nei successivi film di animazione che lo stesso Disney si proponeva di realizzare. Tre composizioni, precisamente: Renard, Fuochi d’artificio e L’uccello di fuoco. E tutto questo dopo avere visto i bozzetti dei dinosauri e degli altri animali preistorici, coi quali Disney aveva intenzione di animare la Sagra.
Più o meno nello stesso periodo di tempo Stravinsky aveva espresso a Chaplin il desiderio di fare un film insieme. Il dato emerge dall’autobiografia di Charlot, il quale scrive che, alla richiesta del compositore, inventò lì per lì una pantomima surrealista sulla Passione, ambientandola in un night club gremito di frequentatori indifferenti, il tutto per «mostrare com’era diventato cinico e convenzionale il mondo nella sua professione di cristianesimo». Ma Stravinsky vi vide una versione sacrilega del sacrificio divino e il rapporto si esaurì in quello scambio di pareri discordi espressi durante un pranzo in casa Chaplin.

Una immagine dell’episodio dedicato a “Le Sacre du printemps” nel film “Fantasia”.

Nel 1942 Stravinsky fu incaricato dalla Columbia di comporre le musiche per un film di guerra, Uragano all’alba, diretto da John Farrow, il padre di Mia, attuale moglie di Woody Allen. Ma i produttori lo liquidarono, non appena intesero il musicista suonare i motivi che aveva a tale scopo composti, evidentemente terrorizzati dalla loro «modernità». E a Stravinsky non rimase che rielaborarli per un lavoro concertistico che egli chiamerà Four Norv egian Moods.
Insomma, se si eccettuano alcuni film-balletto, la musica di Stravinsky fu utilizzata, lui vivo, in un solo film: Il balcone, che nel 1963 Joseph Strick girò, ispirandosi alla commedia omonima di Jean Genet. E nemmeno quel film fu un successo. Dopo la sua morte, invece, ne fece un impiego esemplare Ermanno Olmi ne La leggenda del santo bevitore, il film che il regista bergamasco ha tratto dal racconto omonimo di Joseph Roth. I brani scelti da Olmi sono tratti da Le baiser de la fée, dalla Symphony in C e dalla Sinfonia dei Salmi, che alla fine del film commenta colle sue note la morte «lieve e bella» del bevitore. Ma l’omaggio più bello che il cinema ha dedicato al compositore è silenzioso: in Bird di Clint Eastwood, quando Charlie Parker, una notte, si avvicina alla villa di Stravinsky e suona al cancello. Stravinsky si affaccia e domanda chi è. Charlie Parker, intimidito, non ha coraggio di rispondergli. Rimane qualche istante a fissarlo nell’ombra, devotamente. Poi se ne va.

 

Amadeus n.18 – maggio 1991