In occasione dl decennale della morte di Claudio Abbado, avvenuta a Bologna il 20 gennaio del 2014, iniziamo la pubblicazione di tutti gli articoli dedicati da Amadeus al grande direttore d’orchestra, protagonista della vita musicale del Novecento e di questo primo scorcio del nuovo secolo.
È stato inevitabile che, fin dal primo numero, la nostra attenzione fosse rivolta al Maestro da poco eletto a una delle cariche più prestigiose: quella di direttore dei Berliner Philharmoniker.

(Giugno 1996 – Amadeus n. 79)

Cittadino della musica

di Kläre Wernecke

Riprendiamo dal giornale amburghese Die Welt e volentieri pubblichiamo per i nostri lettori l’intervista che Kläre Wernecke ha raccolto l’anno scorso in una conversazione avuta con Claudio Abbado. In questo colloquio il direttore dei Berliner Philharmoniker riesamina il significato che ha avuto per lui la sua presenza nella capitale tedesca, la collaborazione intrecciata con i musicisti fin dagli esordi, le grandi prospettive di futuro culturale che si aprono per Berlino e i temi che hanno guidato il suo lavoro in questi sette anni di attività berlinese. Tutto questo si intreccia, nel discorso, con le considerazioni sui grandi direttori che l’hanno preceduto sul podio berlinese e su alcuni aspetti, più personali, della sua formazione musicale.

Il suo contratto con i Berliner Philharmoniker è stato prolungato fino all’anno 2002. Quando a Karajan fu offerto di diventare capo dei Philmoniker, egli insistette per aggiungere la clausola contrattuale «a vita». Anche per lei questo è stato un punto di discussione?
«No davvero. Per me non è affatto una questione di contratti o di anni. Già molto tempo prima di diventare direttore musicale a Berlino per me era sempre una gioia fare musica insieme con i Berliner. E anche negli ultimi cinque anni è stato per me motivo di grande soddisfazione l’avvertire una così bella armonia con i musicisti. Se mai si rendesse necessario lasciare il posto a nuovi direttori, sarei io il primo a dire: adesso basta!».

Ma non accade mai che ci sia dissenso tra lei e i musicisti su questioni interpretative e su programmi?
«Com’è naturale, parliamo tra di noi molto apertamente. Ma per me in primo piano c’è sempre questo: che cosa è meglio per la musica? Ed è perfettamente uguale se la proposta migliorativa proviene dal primo violino, dal primo oboe o dall’ultimo contrabbassista…

Lei ritiene che oggi ci sia davvero ancora molto dell’antico suono dei Berliner di Furtwängler?
«Oh sì, questa tradizione non si estingue. Un’orchestra americana o londinese suona ad esempio sempre direttamente sull’accento metrico. Questo di sicuro va bene per Stravinskij o per la musica moderna. Ma non per Brahms e per Bruckner, e neppure per Beethoven. In questi casi si dovrebbe preparare il suono per dargli un senso più profondo. Pertanto non si può semplicemente “tichettare”, come molte orchestre americane prediligono. Con i Berliner peraltro il bel suono nasce del tutto spontaneamente – non occorre dir nulla. Basta un gesto lento, e il suono viene».

In merito ai celebri «attacchi» imprecisi di Furtwängler circolano dei bellissimi aneddoti. Una volta, dopo la morte di Furtwängler che, com’è noto, non disdegnava l’appellativo di dottore, venne chiesto a uno dei Berliner: «Ma insomma, con lui quando attaccavate?». Il musicista rispose: «Noi attaccavamo quando il Dottore era arrivato con le mani al terzo bottone del gilè del suo frac». Ma proprio l’indeterminatezza del gesto di Furtwängler è sempre stata apprezzata anche come grande atto creativo. Lei cosa ha ammirato più di tutto in lui?
«La grande forza della direzione di Furtwängler per me stava nell’enorme tensione che egli fin dall’inizio riusciva a creare, e quindi a mantenere. Poi nel suo saper dare significato a ogni nota, persino nei passaggi più veloci. Furtwangler aveva della grande musica tedesca una visione incomparabile, che naturalmente era anche profondamente personale. Io ammiro le sue interpretazioni e ne ricevo sempre nuovi insegnamenti».
L’ha sorpresa il fatto che Berlino sia stata prescelta dal Times quale più importante metropoli musicale del mondo, ponendo quindi Londra in subordine?
«Lo trovo giusto. Basti pensare a come l’intera città ha reagito ai grandi cicli ternatici dei Berliner Philharmoniker. Abbiamo cominciato molto modestamente, col ciclo di Prometeo e con quello di Holderlin. Poi è venuto il ciclo di Faust (e ora, nel 1996, quello di Shakespeare n.d.r.). E ogni volta si è venuta a creare una risonanza più forte dai teatri, dagli attori, dall’Opera, dai musei, dai cinema e dalle gallerie. Oggi ricevo da ogni parte lettere con la preghiera: “Vorremmo partecipare anche noi ai prossimi progetti”».

Il suo grande ciclo berlinese sull’antichità classica è stato, da parte sua, un consapevole tentativo di far riaffiorare alla coscienza odierna i miti antichi. In un’epoca che per molti aspetti segue ciecamente la ragione logica lei crede che i miti antichi possano continuare ad avere effetto e a essere fatidici per la nostra vita?
«Ma sì, io credo anche che sia soprattutto importante conoscere il più possibile degli antichi miti. Perché in essi è già racchiuso tutto quello che è stato, quello che accade oggi e che accadrà in futuro. Inoltre non bisogna affatto pensare esclusivamente alla tragedia greca».

A Berlino, per un’intera stagione, lei ha fatto di Hölderlin il tema centrale dei suoi concerti con i Berliner Philharmoniker. Holderlin ha sofferto profondamente la lacerazione del legame mistico tra dei e uomini. Nondimeno, con empito visionario, egli ha creduto in un nuovo avvento della divinità in grado di ripristinare la mitica armonia tra gli dèi e gli uomini. Lei può eseguire Hölderlin in queste visioni?
«Ciò che Hölderlin ha cercato di trovare non era solo un sogno, era bensì la realtà più profonda di ciò in cui credeva. Per questo molti lo hanno dichiarato pazzo. Purtroppo ancora sono in pochi a comprendere quanto sia stato grande e importante Hölderlin in questa sua geniale ricerca di una rigenerazione dell’antica armonia. Per me, quasi tutto quello che Hölderlin ha scritto è come musica. Le sue parole sono musica».
C’è una poesia di Hölderlin che lei ama in modo particolare?
«Difficile dirlo. In questo momento forse la poesia Lebenslauf (Curriculum vitae) che comincia con versi: “Grössers wolltest auch du aber die Liebe zwingt/All uns nieder… ” (Anche tu volevi qualcosa di più grande, ma l’amore soggioga/noi tutti...)».

Per anni lei ha continuato a presentare, nell’ambito del progetto «Wien Modern», anche opere nuove di giovani compositori. È ottimista per quanto concerne il potenziale creativo dei giovani? Molta musica di oggi non fa un effetto alquanto retrospettivo?
«Oggi è esattamente come nel dopoguerra. Come lei sa, allora si scriveva: Bartók è un barbaro che produce solo spaventosi rumori. La maggior parte dei critici rifiutava anche la musica della scuola viennese. Con Prokof’ev e con Hindemith invece si correvano meno rischi. Ma io ricordo bene che dopo la guerra Toscanini non si trovò assolutamente d’accordo col giovane prestigioso direttore Guido Cantelli quando questi eseguì il Concerto per orchestra di Bartók. “Questo non lo capisco, questa non è più la mia musica“, diceva Toscanini. Si era all’inizio degli anni 1950 – oggi Bartók è un classico. Bisogna appunto riconoscere quali sono i grandi compositori. Per me i più importanti sono Ligeti, Kurtag, Boulez e Luigi Nono».

A Milano lei ha cercato di operare anche a livello politico, trasferendosi nelle fabbriche per avvicinare la musica ai lavoratori.
«Era importante, nel 1968, aprire gli studenti e ai lavoratori la Scala, un teatro che sino allora era accessibile solo a una élite, e in quella sede eseguire musica classica per gente che mai aveva opportunità di ascoltare questo genere di musica. Non bisogna dimenticare che in Italia l’educazione musicale non è paragonabile a quella dell’Austria o della Germania. In Germania pressoché tutti i bambini hanno la possibilità, nelle scuole, di fare musica o di entrare in contatto con la musica. In Italia le cose vanno diversamente. Nei paesi latini poi si studia la musica secondo criteri assai diversi. Ognuno studia come se un giorno dovesse essere uno Heifetz. L’idea di fare musica insieme, anche la gioia di suonare in un’orchestra, tutto questo non esiste. Risultato: i giovani, che hanno in mente solo una carriera di solista e a vent’anni concludono i loro studi, devono allora “purtroppo” suonare in un’orchestra per quarant’anni. Mentre a Berlino per un giovane musicista arrivare a suonare coi Berliner Philharmoniker è il più grande degli onori».

Quindi lei ha avuto un’enorme fortuna a nascere in una famiglia così musicale, con un padre violinista di professione e una madre pianista.
«Già, effettivamente è così».

Come abbiamo imparato dal suo video, La casa dei suoni, lei già a sette anni – dopo aver assistito al primo concerto alla Scala – decise di diventare direttore d’orchestra.
«No, non è andata così come si racconta oggi. Io non ho pensato: “Voglio diventare un direttore d’orchestra“. Il mio sogno era di poter un giorno suonare personalmente la musica che avevo ascoltato là. Capisce la differenza? Naturalmente può anche darsi che un ragazzino di sette anni pensi: “Voglio diventare pianista, o violinista, o direttore“. Ma per me decisiva non era la figura del direttore d’orchestra, bensì l’idea di poter un giorno eseguire io stesso quella magica musica di Debussy. Era questo. Quindi ho cominciato a realizzare quell’idea, ho studiato pianoforte, composizione, e in seguito anche direzione d ‘orchestra. Ma sempre tenendo presente quell’idea».

E non le è mai sorto il dubbio se questa fosse anche la cosa più giusta per lei?
«Mi è stato sempre chiaro che questa era la mia strada. Naturalmente, a volte, ci sono stati problemi e crisi. Il problema più difficile è sorto per me quando ero sui vent’anni. Mi sono reso conto allora che, se volevo andare avanti e migliorare senza disperdermi, dovevo assolutamente concentrarmi. Perché, per tutto, io ho bisogno di molto, molto tempo».

I suoi genitori l’hanno sostenuta dall’inizio nella realizzazione del suo sogno di diventare direttore d’orchestra? Oppure la cosa è stata vista come un’eventualità perfettamente naturale?
«Mia madre mi ha aiutato molto. Lei ha sempre creduto in me. Ma un modello carismatico è stato per me anche mio nonno, che era professore di lingue antiche. Lui parlava molte lingue, egiziano, aramaico, greco antico, anche il persiano. Ad esempio, ha tradotto in italiano il poeta persiano Ferdousī. Ogni cinque anni imparava una lingua nuova – ed è arrivato a 96 anni. Ha persino tradotto la Bibbia in italiano, dall’aramaico. Al tempo del fascismo ha scritto libri sul diritto canonico e per questo ha dovuto subire violenti attacchi da parte dei fascisti. Lui, un siciliano di Palermo, aveva studiato a Lipsia».


Dunque è stato il primo della fa­ miglia ad andare in Germania. Ora lei vive da qualche tempo a Berlino. Trova l’ambiente effettivamente molto «prussiano»?
«No, assolutamente no. Del resto credo fermamente che Berlino – per quanto enormi siano tuttora i problemi tra Ovest ed Est – riuscirà veramente a unirsi crescendo. È un processo lento, ma i berlinesi ce la faranno. Trovo che Berlino sia molto aperta, molto internazionale. Questo forse deriva anche dal fatto che già prima della guerra, e ancora molto prima, Berlino possedeva una grande tradizione internazionale. Credo persino che la lunga occupazione di russi, americani, francesi e inglesi abbia in definitiva conseguenze positive, e che gli occupanti con le loro stazioni radiofoniche e i loro istituti culturali abbiano contribuito non poco a creare questa atmosfera internazionale. Anche i Berliner Philharmoniker possiedono questo carattere di internazionalità».

Dunque il prussianesimo, che si collega facilmente al concetto di militaresco, non le risulta sospetto?
«No. Non mi si è mai affacciato il pensiero che uno dei miei amici berlinesi possa essere o no “prussiano”. Ad esempio io ammiro Ulrich Ekkardt. Che cosa non ha fatto Ekkardt per le Berliner Festwochen, nel settore del teatro e della musica , soprattutto nel campo della musica moderna! Tutto questo ha avuto una grande caratura internazionale. O penso a una persona come Wolf­Dieter Dube, il direttore generale degli Staatliche Museen berlinesi che viene da me e dice: “Ho un progetto, collegare tutti i Musei con un motoscafo attraverso i canali e i laghi”. Questo è meraviglioso. Ma soprattutto non è un modo prussianamente intransigente, al contrario attesta una mentalità aperta. Del resto prima di viverci io non avevo mai immaginato che Berlino fosse una città con tanto verde. È come essere ad Amsterdam! Neppure per un istante io mi sono sentito straniero».

L’ha irritata che all’inizio della sua era berlinese si continuasse a dire che il suono degli archi aveva perduto in bellezza e in precisione rispetto ai tempi di Herbert von Karajan?
«All’inizio della mia direzione ci fu il problema che per un anno intero non potemmo disporre della Philharmonie, quella splendida sala, perché doveva essere rinnovato il soffitto. Per l’orchestra fu come per una persona, di punto in bianco, non vivere più tra le pareti domestiche. Nel frattempo arrivarono in orchestra parecchi giovani musicisti e soprattutto due stupendi primi violini, Rainer Kussmaul e Kolja Blacher. Quando si trattò di assegnare il posto, una parte dell’orchestra votò per un candidato, l’altra parte per l ‘altro. Cosa decidere? Allora io dissi: “Siamo fortunati, invece di avere un buon musicista abbiamo due buoni musicisti. Dunque prendiamoli tutti e due!“. Ma ovviamente si dovevano trovare i finanziamenti. “Me ne assumo la responsabilità”, dissi “parlerò con il Senato“. Il giorno dopo era già arrivato il ““. Questo, credo, è possibile solo a Berlino».

Secondo la sua opinione che cosa suscita la musica negli esseri umani? Si tratta di emozioni elementari?
«Penso di sì. Certo, anche la ragione vi ha un suo ruolo, ma la musica attiene prevalentemente alla sfera della sensibilità. Pensi solo a come può essere silenzioso un pubblico! Ad esempio durante una Nona di Mahler, o durante il Requiem di Verdi. Si percepisce nettamente che il pubblico trattiene il respiro. La cosa più bella per me, dopo un’esecuzione del Requiem di Verdi, è stata che delle persone incontrate dopo il concerto, ad esempio Ivan Nagel, mi abbiano detto: “Mi ha commosso fino alle lacrime“. Una cosa simile non si può provocare per imposizione, scaturisce del tutto spontaneamente dalla musica».

Hindemith, a cui lei ha reso omaggio in occasione del centenario della nascita, avanzò la tesi secondo cui nell’ascolto della musica non si tratta di vere e proprie emozioni, bensì di rievocazioni di emozioni. Per questo ognuno ascolta, ad esempio, il secondo movimento, l’«Allegretto», della «Settima sinfonia» di Beethoven, in modo diverso. Gli uni come profondamente malinconico, gli altri come uno «Scherzo» buffonesco, altri ancora come una velata «Pastorale».
«Questo certo dipende anche dal fatto che in epoca post-wagneriana si è cominciato a ritenere che questo secondo movimento debba essere il movimento lento. È anche il movimento lento, ma dopo il romanticismo spesso è stato eseguito come una Marcia funebre, dunque come un Adagio. D’altra parte, se Beethoven scrive Allegretto, dev’essere un Allegretto, non uno Scherzo. Lo Scherzo viene come terzo movimento».

Ma non è anche per lei sorprendente che per uno stesso movimento ci siano possibilità interpretative in così stridente contrasto?
«Questa è la cosa formidabile della musica, che non ci siano confini. Che ognuno, con la sua interpretazione e il suo istinto, intuisca e suoni in modo diverso».

Quindi lei ritiene anche che, in definitiva, non ci sia alcuna verità obiettiva nell’interpretazione, e che la musica abbia una pluralità di significati.
«Sì, ma questo dipende dalla grandezza del compositore. Quanto più grande è il compositore, tante più possibilità di interpretazione egli offre. E poi hanno un loro ruolo anche la provenienza culturale dell’interprete e il gusto imperante del momento. È evidente, ad esempio, l’enorme differenza che intercorre tra le interpretazioni di una Sinfonia beethoveniana di Furtwängler e di Toscanini, di Erich Kleiber o di Bruno Walter. E anche la differenza rispetto a oggi. Ma ci sono delle direttrici: se si osservano attentamente le indicazioni metronomiche di Beethoven, questa è già una logica. Chi dice che le indicazioni metronomiche sono tutte sbagliate ha torto. Bisognerebbe leggere e studiare molto di più quello che Beethoven ha scritto. Naturalmente un numero metronomico è sempre relativo, come anche Arnold Schönberg ha affermato. Alle sue metronomiche disposizioni Schönberg ha sempre aggiunto che avevano un valore semplicemente indicativo. Ma se su due movimenti ci sono il medesimo numero metronomico o la medesima indicazione Allegro vivo, allora si devono prendere anche nel medesimo tempo».


La cosiddetta prassi esecutiva storica ha oggi sviluppato una qualità e un impulso accelerato rispetto ai quali quello che si fa nel campo della musica moderna appare regolarmente vecchio. Si interessa di questioni relative alla prassi musicale autentica?
«Certo. Quello che ha fatto Nikolaus Harnoncourt è sempre interessante. La sua competenza è davvero molto estesa. Lo stesso si può dire di John Eliot Gardiner. Negli ultimi tempi, nell’esecuzione di Bach c’era sempre un problema: quando lo si eseguiva con grandi orchestre e con il cembalo, il cembalo non si sentiva mai. Per trovare il giusto equilibrio sonoro, con i Berliner Philharmoniker abbiamo suonato con organici assai ridotti, dunque invece di quattro contrabbassi solo con un violone, oppure abbiamo suonato con viole da gamba anziché con violoncelli, quindi praticamente con strumenti originali. E per i Concerti Brandeburghesi abbiamo adoperato anche archetti barocchi. Il suono, con un archetto barocco, diventa automaticamente più leggero. Kussmaul, il nostro primo violino, suona anche un violino barocco con corde di budello. E Micala Petri, nel Secondo Concerto brandeburghese, ha suonato il flauto dritto, non il flauto traverso. Nel Quinto Concerto ho fatto di proposito suonare la parte del flauto con uno strumento di legno. Così finalmente si sente anche il cembalo!».

È possibile che tra qualche anno, diciamo verso il 2020, si possa verificare un’inversione di tendenza, e che si favorisca il ritorno di un ideale sonoro più intenso e opulento?
«Ebbene, ci ho pensato. E potrebbe essere interessante eseguire una volta l’aria di Didone dal Dido and Aeneas di Purcell com’è nell’originale, con pochissimi strumenti, e poi, per esempio, contrapporre a questa un ‘interpretazione romantica. Oppure suonare la Nona di Beethoven prima magari con l’“ensemble viva”, secondo le concezioni dell’epoca beethoveniana, poi nella rielaborazione di Mahler. In passato ho diretto talvolta Coriolano nella rielaborazione di Mahler. Perché no? Anche la grande pittura barocca riflette un momento storico molto preciso».

Come mai oggi si giudica Karajan in modo così sprezzante?
«Io credo che Karajan, ai suoi tempi, fosse una personalità assai forte, che ha fatto cose splendidamente positive. Ad esempio, qui a Salisburgo, durante tutto il suo periodo, ha eseguito moltissime opere moderne, Luciano Berio, Krzysztof Penderecki e molti altri. Naturalmente i registi che lavorano oggi a Salisburgo sono più interessanti di quelli che vi lavoravano allora. Se si pensa a Peter Stein, a Klaus Gruber, a Luc Bondy, a Patrice Chéreau e a Herbert Wernicke. Ma parlando di Karajan non si deve pensare solo a quello che è accaduto nei suoi ultimi anni. Bisogna tener presente co­ s’ha fatto nei suoi anni d’oro coi Berliner Philharmoniker. Ad esempio, I’ “Orchesterakademie“, che fu un ‘idea magnifica ».

L’idea di Karajan di collegare mediante coproduzioni non solo i grandi teatri di Vienna, Salisburgo, Berlino, New York, ma anche a Salisburgo il Festival di Pasqua e quello d’estate, dopo la sua morte ha subito un’incrinatura. La lotta di potere tra lei e Gérard Mortier, direttore del Festival, a proposito dell’«Elektra» era proprio inevitabile?
«Per me non era affatto una lotta di potere. Avevamo pro­ gettato una cosa, e quello che si era progettato è rimasto. Infatti noi abbiamo eseguito comunque Elektra a Firenze al “Maggio Musicale fiorentino”. Con l’Otello del Festival di Pasqua di Salisburgo, nel quale hanno cantato Placido Domingo e Ruggero Raimondi, andremo a Torino, e forse anche alla Lindenonoper di Berlino. Trovo una buona cosa che nel 1997 ci sia di nuovo una collaborazione tra noi, con un Wozzeck che sarà messo in scena da Peter Stein. Bisogna essere aperti- Se le cose funzionano, bene, altrimenti per noi non è un problema».

Traduzione di Maria Teresa Giannelli (© Die Welt)