Intervista di Duilio Courir
(Pubblicato sul n. 4 di Amadeus, marzo 1990)
Fu secondo violino nel leggendario e ammirato «Quartetto Italiano» e la sua eccezionale personalità
musicale si è sempre espressa non soltanto attraverso il concreto lavoro interpretativo,
bensì anche negli incontri e nei colloqui sempre sostenuti con vivacità ed intelligenza.
Il carattere travolgente e sensibile e la rigorosa perfezione stilistica hanno fatto
della violinista un’ideale componente per quell’intesa e quell’equilibrio
che ha accompagnato la prestigiosa carriera musicale del «Quartetto Italiano».
Per quanti hanno frequentato e amano la musica da camera non occorrono certo lunghe presentazioni di Elisa Pegreffi Borciani, secondo violino del leggendario e ammiratissimo «Quartetto Italiano». Quella straordinaria inventiva di una personalità musicale d’eccezione non resta consegnata però solamente al piano di lavoro interpretativo, ma si prolunga negli incontri e nei colloqui, sostenuti sempre da una vivacità e intelligenza di singolare evidenza. Una esperienza decisiva e grande.
La perfezione stilistica rigorosa delle sue lezioni interpretative, che poi è stata la cifra del «Quartetto Italiano», lascia il posto nel rapporto ravvicinato ad una mobilissima, sensibile fantasia e ad una travolgente capacità di conversazione. La disciplina della vita artistica convive in lei con l’estro di una psicologia acutissima nel cogliere i caratteri dell’umano. Con Elisa Pegreffi abbiamo avuto una conversazione sul «Quartetto Italiano» e in particolare sulla sua primissima fase.
Il «Quartetto Italiano» ha portato fin dagli esordi il discorso su Beethoven. Come si è sviluppata questa esperienza tanto decisiva e grande?
«Noi abbiamo messo molto tempo – dice Elisa Pegreffi – a mettere a fuoco tutti i quartetti di Beethoven e penso che così si dovesse fare, perché occorre molta maturità per arrivare in fondo a quest’opera. Il nostro lavoro avveniva prima con una lettura, dopo aver discusso sulle scelte per misurare la conoscenza. Ricordo che quando leggemmo il Quartetto op. 18 n. 3, al momento della coda dell’andante con moto, che inizia con il violoncello, Rossi ha suonato questo tema prendendolo più lento del solito, ma eseguito in una maniera tale che Paolo si è messo a ridere dall’emozione e a me sono venute le lacrime agli occhi, lasciandoci tutti turbati. Una cosa che non dimenticherò mai. Del resto, io ho sempre avuto una grande ammirazione per i miei colleghi perché mi hanno insegnato moltissimo. Noi avevamo delle abitudini un poco dispendiose, perché, molte volte, su due battute restavamo discutere per delle ore. Qualche volta ci sembrava di perdere del tempo, ma poi ritrovavamo questa tensione intellettuale nelle nostre esecuzioni: forse, era proprio questo segreto di certe profondità interpretative».
Degli ultimi quartetti di Beethoven hai dei ricordi di studio particolari?
«L’opera 131 – spiega Elisa Pegreffi – è una delle ultime che noi abbiamo studiato e ricordo che fu a Genova, con un grande caldo. Il Quartetto op. 130 lo affrontammo già nel 1949, anche se adesso non ricordo esattamente da chi partì l’iniziativa. Ricordo che lo studiavamo a Castelnuovo Monti, sulla montagna di Reggio Emilia, d’estate. Tecnicamente venne quasi subito perché avevamo una grande tecnica tutti e quattro, una tecnica che non ci dava problemi.
Ma la prima esecuzione avvenne a Roma per la Filarmonica romana all’Eliseo e in diretta per la radio. In sala c’erano tutti i musicisti che abitavano a Roma e c’era anche Klemperer che in quel periodo dirigeva a Santa Cecilia. Attaccammo il primo tempo e poi il secondo movimento che è uno ‘scherzo‘ molto vivace. Ne uscì una magnificenza, tanto che alla fine di questo ‘scherzo‘ scoppiò in sala un enorme applauso che ci rinfrancò. E ricordo che Klemperer dopo due giorni era andato a dirigere a Genova, dove mio padre suonava in orchestra. Ad un certo punto ferma l’orchestra e dice: ‘non così gli sforzati’. ‘Gli sforzati vanno fatti come quelli che fa il Quartetto Italiano, dicendo di noi delle cose bellissime. L’op. 131 abbiamo deciso di studiarla quando eravamo già molto avanti nella nostra carriera e quindi c’era fra noi una maturità di unione ed una maturità di interpretazione tali che non ci sono stati dei grandi problemi. La prova più difficile è venuta dallo studio dell’op. 132, una prova quartettistica tremenda da definire, soprattutto nell’Adagio che ci portò anche ad una discussione con Ghedini».
Come si genera in quattro giovani strumentisti, con degli studi che li indirizzano al lavoro solistico, l’amore per la musica d’insieme fino quasi a prendere i voti per una vita cameristica?
«Penso – è la risposta di Elisa – che qualunque giovane e in qualsiasi tempo, abbia studiato da solista e (forse nessuno di noi ha pensato di studiare da solista) che abbia studiato bene, è difficile che non ami la musica da camera, soprattutto se è uno strumentista ad arco. Alla fine uno strumentista ad arco è un povero disgraziato che se non ha compagnia può fare molto poco. Io per esempio, fin da bambina ho fatto della musica d’assieme: in casa, con mio padre che suonava la viola. Paolo con suo fratello, che suonava il pianoforte, e con il padre, che suonava il violino, facevano sempre della musica da camera. So che sia Franco Rossi, sia Piero Farulli hanno sempre suonato quintetti, trii, duo, insomma tutto presso delle famiglie fiorentine come quella dell’editore Olscki. «Adesso, queste abitudini si sono un poco perdute, ma una volta questo rapporto di colloquio musicale era abbastanza naturale. Ovviamente, crescendo con questa impostazione resta il desiderio di continuare e quando si arriva, per dire, a Santa Cecilia a Roma o a Siena alla ‘Chigiana’, in una scuola di perfezionamento, e sai che esiste una classe di musica da camera, cerchi in qualunque modo di entrare».
Resta il fatto che si tratta di annullare la vita solistica per uno scopo comune e più allargato del raggiungimento musicale. I viennesi lo apprendono sui banchi della scuola, con una travolgente disinvoltura, e quindi sentono, con maggiore spontaneità, la colloquialità delle voci e delle parti.
«Questa è una scelta che dipende da tante cose. Per quello che mi riguarda ha contato una sorta di mano del destino che mi ha guidato verso il ‘Quartetto’. Infatti a Siena mi fu chiesto da Bonucci: ‘Vuoi fare il secondo violino nel quartetto di Debussy? E da questo incontro è nato il Quartetto Italiano. È difficile spiegare questo groviglio di situazioni e di esitazioni che ad un certo momento si coagulano in un fatto, in una decisione. Però quando ci siamo dovuti lasciare perché c’era la guerra (era il 1942) è rimasto sempre questo ricordo che, probabilmente come tutti i ricordi, diventava sempre più bello. Ho un’immagine molto precisa di quel momento iniziale. Siccome noi durante il giorno studiavamo il nostro strumento, la sera dopo cena ci trovavamo in una camera un poco più spaziosa della ‘Casa dello Studente’ a Siena ed i nostri compagni arrivavano con le sedie per ascoltarci studiare Debussy fino a notte».
Forse anche i vostri amici avvertivano che si trattava della nascita di un fenomeno non comune, che voi compivate un atto di apparente rinuncia alla causa dell’imperativo del suono e della perfezione strumentale per votarvi alla devozione della gioia della musica fatta insieme.
«Nel quartetto – chiarisce Elisa Pegreffi – certo ognuno si mette al servizio dell’altro, però arriva sempre il momento che puoi venire fuori, che senti la soddisfazione di una frase. E poi non solamente la frase, perché per me le cose più belle erano gli accompagnamenti dei quartetti di Haydn. Il divertimento era per me riuscire a fare questo accompagnamento e seguire tutti. Tutto diventava una sorta di grande gioco ad incastro ed uno dei pochi che ha capito queste cose è stato Principe, che senza dubbio è stato un grandissimo insegnante. Il quartetto è il quartetto e sta in piedi perché sono in quattro che suonano. Per noi qualcuno è arrivato a dire “Dio li ha messi insieme”. In realtà, quello che si può dire è che noi non abbiamo mai studiato il suono, mai studiato il vibrato ed invece abbiamo studiato moltissimo l ‘intonazione ed è naturale, suonando, parlando, l’interpretazione».
Ma voi avevate la consapevolezza di una differenza di pensare la musica che si realizzava nella vostra stilistica con dei risultati precisi.
«Io credo che il nostro modo di presentare un quartetto è stato diverso da tutto quello che era avvenuto prima della guerra, perché ci sentivamo enormemente responsabili rispetto ai nostri colleghi delle generazioni precedenti. Prima della guerra ci sono stati dei quartetti italiani, il “Quartetto di Roma”, il “Quartetto Poltronieri” e altri. Era della gente che sapeva ottenere dei buoni risultati. Ma quando noi ci siamo seduti su quelle quattro sedie ci siamo messi a studiare profondamente. Questo nel 1942 e sarebbe interessante ascoltare quella registrazione, se non è andata perduta. Ma quando abbiamo ripreso questo sogno comune interrotto, era rimasto il discorso di quella preparazione e tutto quindi doveva essere fatto con quello stesso spirito e anche meglio.
Per noi, l’idea del ‘Quartetto’ era diventata, dopo il Debussy di Siena, un’idea fissa. Del resto se pensi che nel 1945 un nostro messo va a Venezia da Rossi e Forzanti e gli dice: ‘Sapete, c’è da cominciare il Quartetto’; questi due, che suonavano e guadagnavano, piantano tutti e vengono da noi. Eppure un segno di qualcosa di irresistibile, che si può chiamare come si vuole ma che certo esisteva».
Se dovessi fare un bilancio della vostra attività di quarant’anni che cosa diresti?
«La nostra gioia – conclude Elisa Pegreffi – è stata prima quella di attirare un pubblico che non era mai andato a sentire il quartetto e che poi ha cominciato ad amarlo. Infatti le nostre prime sale erano composte da venti, trenta persone: e alla fine il pubblico era composto da duemilacinquecento, tremila spettatori. Poi la gioia di vedere i giovani che volevano fare quartetto, anche se è un’impresa ardua… perché ci vogliono certe qualità che non si possono ignorare. Delle qualità non solo musicali, ma soprattutto, direi, di carattere, di pazienza, di sacrificio, che costituiscono il fondamento morale, la prova del fuoco delle riuscite che contano».