di Gian Paolo Minardi

(Pubblicato sul n. 9 di Amadeus, agosto 1990)

Oltre la perfezione, alla ricerca dell’assoluto.
I nuovi sorprendenti traguardi del sommo interprete italiano in occasione dei concerti londinesi.
La tensione di una più essenziale necessità espressiva.

          Che l’interesse dei giornali per i fatti dell’arte vada sempre più vistosamente spostandosi verso gli aspetti riguardanti «l’evento» in sé, nella sua implicazione più esterna (poco importa che poi si tenda a qualificare tutto ciò come fatto di costume) lasciando così margini via via più ristretti e sfuggenti alla sostanza, è una constatazione da tempo abbastanza scontata, che viviamo un po’ tutti sulla nostra pelle. Ciò nonostante non cessiamo di stupirci di fronte alla banalità con cui ogni apparizione di Arturo Benedetti Michelangeli viene registrata. Ne abbiamo avuta una riprova in occasione dei concerti tenuti a Londra nel maggio scorso, un avvenimento senza dubbio di particolarissimo interesse, pensando al percorso che il grande interprete ha intrapreso negli ultimi anni e che la breve, forzata interruzione della sua attività, in seguito al grave malore che lo ha colpito durante un concerto a Bordeaux nell’ottobre dell’88, non ha minimamente deviato né rallentato: ma, al contrario, sembra aver quasi intensificato nella determinazione degli obiettivi, resi ogni volta più pregnanti, come appunto si è potuto constatare ancora in occasione di quest’ultima offerta londinese in cui, rivisitando opere che hanno costituito per anni oggetto della sua accuratissima riflessione, Benedetti Michelangeli è sembrato svelarcene un volto nuovo; con una vividezza e talora con una radicalità addirittura sconvolgente.
E sconvolta è stata in generale la critica inglese, anche se non si può dire in termini di una coinvolgente tensione partecipativa, quanto piuttosto con la stupefazione di chi si sentisse di colpo privato di una pregustata oasi di piacere quale il nome insigne poteva indurre a pensare: insomma un’offerta troppo impegnativa rispetto a quel preconfezionato standard che oggi domina, anche ai livelli più alti talora, il discorso concertistico. Di questi sussulti, risultati per lo più dalla inattesa rottura di un quieto vivere (come se il Beethoven della Sonata op. 111 o quello dell’op. 22 che Michelangeli ha opportunamente richiamato all’attenzione fosse confacente al quieto vivere!) il lettore italiano è venuto peraltro a conoscenza attraverso cronache giornalistiche – prevalentemente dovute ad «Osservatrici di costume» guarda caso – che, dopo aver rimbalzato qualche frammento della critica inglese, hanno invece dedicato largo spazio «all’uomo», al personaggio, riprendendo per l ‘ennesima volta tutta la tematica di circostanza ormai vincolata al «mito» Benedetti Michelangeli: il pallore del volto, l’impassibilità dell’espressione, più o meno screziata da un’ombra di sorriso (malinconico per alcune, malizioso per altre), il maglioncino dolce vita, nero come il fazzoletto appoggiato con nonchalance dentro il pianoforte. Aspetti che per la verità hanno occupato – come sostitutivi, è probabile, di un approfondimento critico bloccato dalla stupefazione – anche l’attenzione della critica inglese, non meno di quella parigina, in occasione del concerto che Benedetti Michelangeli ha tenuto alla Salle Pleyel di ritorno da Londra: ma che poi nelle «Cronache italiane» si mescolavano alla descrizione di un clima tra il nostalgico ed il patriottico, dove «gruppi» di italiani figuravano essersi spostati in massa per riascoltare il Maestro in esilio, solo nell’immaginazione giornalistica, in realtà, ché di fatto si trattava di qualche isolato devoto.

Tensione innovativa
          Francamente ci risulta difficile capacitarci di come possa esaurirsi in uno scontato cerimoniale cronistico un fatto tanto provocante, proprio per la tensione innovativa e la qualità rivelatrice che queste nuove proposte di Benedetti Michelangeli hanno innescato. La cui misura poteva tangibilmente definirla chi con la memoria, e neppure andando troppo indietro, riuscisse a ricreare le emozioni che l’interprete ci aveva dato cinque, dieci, vent’anni fa; perché, a pensar bene, proprio questo continuo riferimento a modelli ideali che ognuno di noi si è portati con sé, ogni volta con l’illusione di sentirli affidati all’eternità, è servito ora a farci capire il senso del cammino che ha condotto Michelangeli ai risultati di oggi. I quali discendono, naturalmente, da quelle premesse insite nell’unicità stessa del nostro interprete, vale a dire in un possesso assoluto del fatto strumentale, quindi nella raggiunta perfezione, consolidatasi come fermamente oggi, soltanto un tramite, per pervenire ad altri esiti ancor più intimi, essenziali. L’ascolto dei due recitals londinesi, centrati sulle due ricordate sonate di Beethoven e su un gruppo di composizioni di Chopin (Mazurca op. 33 n. 4, Primo Scherzo, Andante spianato e grande polacca brillante) ci ha infatti offerto in maniera ancor più netta la sensazione della essenzialità cui sta tendendo l’interprete: non in termini di semplificazione, ma di eliminazione, si sarebbe tentati di dire, del tramite strumentale o meglio ancora di sovrapposizione fino alla totale identificazione con l’oggetto, per riplasmare direttamente l ‘idea musicale.

Straordinaria attualità
          Certamente impressionante ci è parso questo processo di svelamento e di appropriazione in Beethoven (pensando alla «marcia di avvicinamento» fissata nelle tante esecuzioni beethoveniane di Michelangeli che conserviamo nella memoria); ed in questo senso l’accostamento di una sonata così singolare, per certi aspetti premonitrice, come l’op. 22 con l’estrema testimonianza della 111 è risultato illuminante proprio nel mostrare la crescita di quel linguaggio così «primario» nella sonata giovanile ma già innervato dalla stessa qualità incisiva e radicale di cui si nutrirà l’espressione più travagliata dell’estrema maturità. Nel farci quindi arrivare come per una fulminea scorciatoia al doloroso arcuarsi dell’ ultima sonata, di cui Michelangeli ha scatenato con impressionante perentorietà, già dal prepotente alternarsi delle due mani nello scabro attacco, la virulenza della lotta che si accende e si dirama concisa e febbrile insieme, verso le regioni ideali; prefigurate nella semplicità dell’ Arietta dal cui svolgimento è andato via via traendo nuove ragioni luminose, non senza rammemorare la pressione ancora non sopita di quella lotta, con quegli accenti così stringenti che serravano il discorso nella terza variazione, per allentarsi poi di fronte alla crescente vividezza, come un salire al centro di una cupola correggesca, della luce sprigionata dalle ultime variazioni.
È chiaro che a questo grado di trasfigurazione il discorso della perfezione entro cui pigrizia e snobismo hanno sovente indotto a conchiudere l’immagine di Benedetti Michelangeli, non senza bagnarla di un velo crepuscolare, appare completamente trasceso, se non, appunto, come basamento di coerenza musicale da cui far decollare un’interrogazione ben più ardimentosa, quale sola può dar eco agli intimi travagli dell’ultimo Beethoven. Ma che pure si adegua ad atteggiamenti meno vibrati, senza per questo smorzare l’acutezza e l’essenzialità del segno, come quelli offerti dalla pagina chopiniana; anche se la dilaniante apertura del Primo Scherzo sembrava riaccendere la lotta, condotta da Michelangeli in maniera serrata, tutta calata sull’asperità della scrittura; al tempo stesso esplorata nell’immanenza della virtualità melodica, un tratto questo che sembra assumere un’aderenza sempre più avvolgente, a ricordare soltanto il rarefatto episodio centrale dello Scherzo, sospeso in una cullante ipnosi eppure irrorato dalla forza del canto. Per dire poi delle vie magicamente erratiche disegnate entro il raccolto spazio della Mazurca e ripercorrere la sognante fantasia sonora, tutta librata in uno spazio dorato di luce (ancora Correggio!) dell’Andante spianato, a stagliare ancor più netta la dimensione della Polacca, che tuttavia questa volta appariva lontana dal modulo che Michelangeli ci aveva affidato nel passato, perché la sua vita così intimamente pulsante ci è apparsa ora come intensificata da un’attenzione affettuosa che pareva ravvivare ogni ritmo, delibare ogni trapasso armonico, un fantasticare insomma che, se da un lato sembrava ogni volta spiazzarti per la libertà, risultava pur sempre determinato da una tale essenzialità strumentale da porsi come l’unico possibile.
Ed è proprio tale sensazione di unicità, credo, ad imprimere a queste ultime proposte di Benedetti Michelangeli un segno di straordinaria attualità: nel senso di una lingua che dalla sua stessa impareggiabile organicità trae ragioni per mirare direttamente verso il cuore emozionale di ogni opera, senza sfridi né ambivalenti indugi. Si era già avuta una simile rivelazione qualche anno fa ascoltando il secondo volume dei Preludi di Debussy, in una interpretazione che, oltrepassando l’ampio margine di seduzione sonora entro cui stagnano tante letture debussyane, puntava decisamente alla individuazione di quella forma evocativa che il compositore struttura mediante piccole cellule, carica certo di allusioni e di gesti sfuggenti, di sorrisi enigmatici spesso, ma sempre stagliata con una sua necessità.

Una forza nuova
          Che è appunto la direzione perseguita dal nostro interprete, il tratto che affiora via via con più scoperta evidenza dalle proposte seguite a questa debussyana, se si consideri la forte tensione colloquiale che innerva i concerti mozartiani, due dei quali, il K.466 e K.503, hanno trovato una esemplare fissazione nel disco, ed ora la perentoria immersione nell’universo beethoveniano, con il Terzo Concerto eseguito a Londra e a Parigi, direttore Michel Tilson-Thomas a capo della London Symphony Orchestra, e con le due Sonate op. 22 e op. 111.
Risulta chiara di fronte a tali raggiungimenti, senza dubbio sorprendenti, la forza nuova che guida Benedetti Michelangeli verso una meta di assolutezza individuata nelle ragioni stesse della creazione, perseguita quindi con una determinazione che tende a scavalcare molto spesso quei tracciati ideali che egli ci aveva indicati con la sua cifra sublimata. Una scelta quella assunta oggi da Michelangeli, tanto ardua quanto coraggiosa, perché proprio dalla certezza sedimentata lungo anni di assiduo lavoro sulla pagina e sulla tastiera egli trae ora impensate prospettive, nonché la forza intrinseca, sul piano strettamente musicale, per recuperare e consolidare con la essenzialità della forma quell’illusione di assoluto che ogni grande opera d’arte cela nel suo oscuro grembo.