di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Il nome ha origine greca, ed è perciò normale trovarlo negli antichi testi greci che parlano di musica. Qualche storico ne ha dedotto che i Greci conoscessero l’armonia così come la concepiamo e la pratichiamo noi oggi: come il sistema che regola l’esecuzione simultanea di suoni diversi. D’altra parte, il mito classico dava Armonia figlia di Ares e di Afrodite, il dio della guerra e la dea dell’amore. Non è questa una suggestiva metafora della «Coincidenza degli opposti», come veniva definita l’armonia, anche quella musicale? «L’armonia nasce solo coi contrari; perché l’armonia, è l’unificazione di molti termini mescolati, è l’accordo di elementi discordanti, scriveva Filolao, filosofo pitagorico: quasi la descrizione di un’opera di Schonberg.
Ma quella interpretazione del termine non teneva conto di quanto il suo significato sia mutato nei secoli, Armonia viene dalla radice har (ocp) che indicava l’azione di unire, collegare cose diverse; quindi anche suoni diversi; ma suoni offerti insuccessione, non in simultaneità. Insomma, indicava quella che noi oggi chiameremmo piuttosto melodia. Per i musicisti greci, studiare l’armonia significava studiare la conformazione delle scale musicali, cioè il modo in cui i suoni e i loro intervalli si dispongono l’uno dopo l’altro. Quest’uso del termine continua anche nel Medioevo: Marchetto da Padova riprende un’antica definizione di armonia come «diversarum vocum apta coadunatio(adeguato collegamento di suoni diversi), mentre sta parlando di canto monodico, a una voce sola! È soltanto a partire dalla fine del Quattrocento che il termine comincia ad acquistare il senso moderno: Franchino Gaffurio scrive che l’armonia si ottiene facendo risuonare insieme una nota grave, una media, una acuta.
A dire il vero, questa pratica aveva già almeno seicento anni di vita, in Occidente, se prendiamo come punto di partenza l’ organum polifonico delle origini, quale ci è tramandato dal trattato Musica Enchiriadis del IX secolo. Ma solo ora vi si applicherà il termine armonia.
Lasciamo allora per un momento la parola, e rivolgiamoci alla cosa: alla pratica di far risuonare simultaneamente note diverse. È una pratica conosciuta in tutto il mondo, dall’Africa Nera all’Estremo Oriente, probabilmente da sempre; anzi è da credere che nel far musica collettivo essa abbia addirittura preceduto il canto a voce unica, l’omofonia. Naturalmente in questi casi le voci non si sovrappongono secondo regole pur lontanamente simili a quelle della moderna armonia occidentale; vien da dire che nemmeno si danno regole. Il risultato sonoro – basta sentire qualche canto tribale congolese o certi responsori de1 culto buddhista – è quello  che noi potremmo chiamare «dissonanza», o addirittura «Cluster» (vedremo questi termini nel prossimo numero, parlando di accordo). Addirittura saremo portati a bollare questa pratica come «Cacofonica»: un po’ come quando ci tocca ascoltare il coretto degli amici, dove ognuno… se ne va per la sua strada tonale, «Stona» appunto. Ma mentre i frastornanti amici violano delle regole stabilite, ben precise (le regole dell’armonia tonale), i cori «esotici» non violano nessuna regola, perché regola non hanno. O meglio: le loro regole stabiliscono non quali note deve usare un secondo cantore quando si aggiunge polifonicamente al primo, ma qualcosa di più generale: i suoni aggiunti devono conferire maggior potenza alla parola, la parola mistica rivolta alla divinità, o agli spiriti degli antenati. E nessun accordo della nostra musica tonale potrebbe raggiungere tale risultato, quanto un conglomerato di suoni di quel tipo. È la spiegazione rituale che gli studiosi di antropologia danno delle pratiche polifoniche, delle popolazioni da noi remote. Non solo remote nello spazio; anche nel tempo. Alle origini della nostra polifonia troviamo lo stesso comportamento, le stesse aspre dissonanze. Quando alla melodia della tradizione i cantori cominciano ad aggiungere altre voci, la loro sensazione doveva forse essere quella di star praticando una semplice variante dell’unica melodia, una variante capace di magnificare la parola divina, l’intoccabile professione di fede. Si aggiunga che questa «rozza» polifonia dei primi organa esigeva un rallentamento e una maggiore uniformità ritmica, e il canto che ne risulta ci apparirà in tutta la sua solennità sacrale. L’armonia moderna nasce (concluderemo prossimamente) proprio quando questa motivazione spirituale è completamente superata, quando l’attenzione si porta sulla qualità dei suoni che devono, o possono, risuonare insieme.
L’armonia moderna, con la sua ricerca di equilibrio e di eufonia, non è allora un semplice omaggio che i musicisti avrebbero recato allo spirito del Rinascimento. È una delle dimensioni essenziali di questo stesso spirito, è un contributo decisivo al tramonto del Medioevo.

(Amadeus n. 50 gennaio 1994)