di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Dal punto di vista fisico, il fenomeno dell’eco non è che un risultato della riflessione del suono, poste certe condizioni d’intensità e di distanza della fonte dalla superficie riflettente. Ma i compositori dell’età barocca, su su fino a Gluck e oltre, si sentivano molto più interessati all’interpretazione patetica che dell’eco aveva dato Ovidio, nelle sue Metamorfosi, tanto che ne faranno la trama di numerosi melodrammi: Eco si chiamava la ninfa del bosco di cui Narciso non poteva ricambiare l’amore, condannato com’era ad adorare la propria stessa immagine. Il dolore finisce per pietrificare la ninfa, di cui solo la voce rimane viva, attenta a ripetere le parole che dalle selve giungono alle sue orecchie.
Non è solo la vicenda in sé ad affascinare i musicisti: è anche l’espediente musicale che ne può nascere. Già nel tardo Cinquecento, nel suo madrigale O tu che fra le selve, Luca Marenzio ci fa sentire la voce della ninfa Eco, che di volta in volta ripete le ultime parole di chi la interroga; e così facendo, esprime anche il proprio verdetto. Domanda: «Mi rispondi, non son d’amanti esempio?”. Eco risponde ripetendo le ultime due sillabe: «Empio!”. Tutto il madrigale è costruito così. Il trucco piacerà molto. Lo ritroviamo per esempio pochi anni dopo nell’oratorio Rappresentazione di Anima e di Corpo, di Emilio de Cavalieri.
Non mancano naturalmente applicazioni umoristiche. Il caso più famoso è offerto da Orlando di Lasso, nella sua villanella Olà o che bon’eco! – Qui però il sistema è diverso. Un buontempone invita i compagni a far festa, e gli altri gli «fanno il verso»: ogni frammento cantato dal primo coro è immediatamente ripetuto dal secondo coro, tale e quale. Il risultato è un vero e proprio canone tra due gruppi corali. In tutti questi casi, la voce che risponde canta sempre pianissimo: anche in natura infatti l’intensità di un’eco è parecchio inferiore a quella del suono originario. Ecco un espediente che avrà grande fortuna nell’età barocca: la ripetizione, piano, di un motivo forte. Da allora in poi, questi giochi d’eco diventano un mezzo elementare per evocare le distanze. Nel secondo atto del Lohengrin, Richard Wagner ricostruisce una scena castellana: dagli spalti la tromba manda il segnale, ripreso in lontananza, da altri castelli: a Wagner basta chiedere alla seconda tromba di ripetere piano il segnale, forte, della prima. Come si vede, i musicisti non si lasciano scappare l’opportunità di trasferire gli effetti d’eco dalla musica vocale a quella strumentale. Addirittura si escogitarono meccanismi per permettere agli strumenti di rendere con maggior efficacia l’«effetto­lontananza», per esempio, negli ottoni si applica allo scopo una campana dall’apertura più piccola; nell’organo si usano particolari registri dal suono più delicato; e così via. Il passaggio degli effetti d’eco, dall’ambito vocale a quello strumentale, avvenne subito. Suppergiù negli anni stessi in cui Marenzio scriveva il suo madrigale O tu che fra le selve, il fiammingo Jan Sweelinck scriveva pezzi per organo in cui ogni inciso musicale è immediatamente replicato: Fantasie con l’eco chiamerà l’autore questi pezzi, che mostrano come l’estro barocco che investiva la poesia e le arti visuali del tempo sapesse coinvolgere anche gli «architetti del suono». Ma l’esempio strumentale forse più estroso ce lo offre non un autore barocco, ma il più «classico» dei compositori: Mozart. C’è un’intera sua opera, il Notturno K. 286, affidata, in eco, a ben quattro orchestre (ciascuna costituita da primo e secondo violino, viola, violoncello, corno). Il gioco è più rigoroso nel minuetto: la prima espone una frase; le altre tre, a turno, la ripetono, ma omettendo una parte sempre più lunga dell’inizio. (Il disegno a lato sintetizza il risultato). Il cambiamento d’intensità è solo uno dei mezzi che il compositore può usare per creare effetti d’eco. L’altro è il cambiamento d’ottava. Lo proporremo una prossima volta.

(Amadeus n. 39 febbraio 1993)