di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Non c’è matrimonio di rispetto, o, per meglio dire, rispettoso della tradizione, che non sia introdotto, e concluso, dalle note di una marcia nuziale. Se l’organista è in forma, ce ne propone due: quella di Wagner, più compassata e aulica, all’inizio della cerimonia, e quella di Mendelssohn, più esuberante e festosa, alla fine. Si sa che entrambe le marce non furono composte con destinazione propriamente religiosa: la prima appartiene infatti al secondo atto dell’opera Lohengrin, e accompagna le nozze del mitico cavaliere del Graal, figlio di Parsifal, con Elsa, in una cornice di eroi superumani (e questo spiega il suo andamento solenne); la seconda appartiene alle musiche di scena per la commedia shakespeariana Sogno di una notte di mezza estate: a sposarsi sono creature fantastiche, in un mondo popolato di spiritelli (e questo spiega la sua maggior vivacità). Musiche teatrali dunque, e non liturgiche. In fondo, non ha il rito del matrimonio, come tutti i riti, una componente squisitamente teatrale? E come in ogni pièce teatrale, anche nel rito matrimoniale abbiamo i colpi di scena, come quello cruciale trepidamente atteso al cuore della cerimonia, fazzoletto alla mano, dai     genitori dei protagonisti: il momento che prelude al «SÌ», immancabilmente cullato dalle terzine del1′Ave Maria di Schubert. Sorpresa: anche la più famosa delle avemarie è un pezzo teatrale, non liturgico. Schubert l’aveva scritta sui testi del dramma La donna del lago di Walter Scott. E già che ci siamo, ricordiamo che le parole non sono quelle della preghiera («Ave Maria gratia plena…»).
È la protagonista femminile del dramma a rivolgersi alla Madonna: «Ave Maria, dolce vergine, ascolta questa supplica d’una vergine, da queste rocce aspre e selvagge…». Ecco, alle innumerevoli definizioni di matrimonio potremmo aggiungere quest’altra, un po’ più atipica: «Una sintesi di marcia nuziale e di Ave Maria». Nel senso elementare che nel matrimonio, in quanto istituzione, convivono due dimensioni, una privata, intima, e una pubblica, sociale. C’è l’amore della coppia, ma c’è anche il bisogno della comunità di sottrarre il matrimonio alla sfera esclusiva del privato e dargli una identità sociale, di controllarlo e di governarlo. Abbiamo visto nei numeri scorsi come dietro ogni marcia, quindi dietro ogni musica che l’accompagna, ci sia un aspetto di «disciplina», di «autorità» di «Consenso a un ordine». Dunque la marcia dei coniugi può essere letta come un simbolo d’inserimento sociale. L’intera cerimonia è il segno del1’assenso della comunità. La pompa cerimoniale di cui la marcia è parte necessaria mostra l’importanza che la società annette al rito. Qui troviamo una differenza funzionale rispetto alla marcia funebre: in quella marciano gli astanti, nella marcia nuziale marciano i protagonisti, la sposa che sale all’altare (o all’aula municipale, dove il cerimoniale pubblico del matrimonio è simboleggiato dalla fascia tricolore del sindaco; e dove la marcia nuziale giunge ancora magari gracchiante dal giradischi), marciano gli sposi all’uscire dalla cerimonia. Sono i coniugi che mostrano in tal modo di assolvere a un obbligo sociale … La loro unione fisica, affettiva, morale non basta: la società, che per l’occasione arriva ad ammantarsi di parati religiosi, sacralizzando il rito esige di entrare nel rapporto, come terzo componente. Diritti, privilegi, sanzioni accompagnano il suo ingresso. Il matrimonio, come tutti i riti sociali, non è dunque un «passo a due» ma «passo a tre». La marcia nuziale, col suo fardello di simboli stratificati dal tempo e dagli usi, lascia affiorare, del matrimonio, significati forse inattesi, latenti. Giustamente gli studiosi negano a questo genere musicale una rubrica speciale. Solenne e pomposa nel carattere, ben scandita nei suoi ritmi, squadrata nella struttura melodica e armonica, la musica nuziale si confonde con quella di ogni altra marcia cerimoniale. Quella di Mendelssohn è addirittura introdotta da uno squillo di trombe, come si addice alla celebrazione di un grande evento. Il suo modo è naturalmente il maggiore, così come è invece immancabilmente minore il modo delle marce funebri. E come al centro delle marce funebri troviamo un episodio, più o meno lungo, in maggiore, così al centro delle marce nuziali troviamo un breve episodio in minore. Questo mutamento assolve essenzialmente a un compito di contrasto strutturale: è un artificio retorico, di maggior solennizzazione. Il musicista introduce un momento di compunzione, di smorzamento, che renderà più perentorio il ritorno del modo maggiore. (Sull’onda della nostra in­ chiesta minisociologica, qualcuno potrebbe anche cercare nel passaggio in minore significati meno … innocenti).
Dal secolo scorso le due pagine di Wagner e di Mendelssohn sono diventate le musiche ufficiali delle nostre cerimonie nuziali. Nessun’altra marcia composta dopo d’allora ha goduto una fortuna simile. A meno che non si decida per la nuova pratica del «matrimonio personalizzato». E allora le vecchie marce finiscono in soffitta sostituite dal pezzo prediletto, l’aria d’opera o la zingaresca per violino, il Tema di Lara o la canzone del primo giorno d’amore. Ma questa è tutta un ‘altra storia…

(Amadeus n. 69 agosto 1995)