di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

«Non dico che non si debba, scrivere musica a programma» pare si sia lasciato sfuggire un giorno Edward Elgar «Dico solo che è una forma artistica inferiore alla musica assoluta». E sentiamo invece l’opinione di Richard Strauss: «Non esiste una cosa come la musica assoluta. Esiste solo buona o cattiva musica. Se è buona, significa qualcosa; e allora è musica a programma». Da un secolo e mezzo, ogni musicista cerca una sua collocazione fra i poli di questo campo magnetico. Musica a programma, definiscono i manuali, è quella che s’ispira a «Un’idea extra-musicale»: tale sarebbe il sorgere del sole, un messaggio amoroso, la corsa di un treno. Se le parole di Elgar sono autentiche, ci sarebbe da attribuirgli un’intenzione addirittura autolesionista: alcune delle sue più belle composizioni, come le Variazfoni Enigma o Falstaff, rientrano nella categoria condannata. Non solo, ma da condannare sarebbe più della metà della sua produzione: quella che contempla l’uso della voce. Perché per definizione tutta la musica cantata, operistica o da camera, profana o sacra, colta o popolare, s’ispira alle idee extra-musicali fornite dai testi; e dunque è inevitabilmente, in senso lato, musica a programma. Altrettanto lo sono le musiche di scena, da balletto, da film… In un senso più ristretto, il concetto di musica a programma vien fatto coincidere con quello di musica descrittiva. Già, ma descrittiva di cosa? Può per esempio una musica descriverci com’è fatto un ombrello, o il sorriso dell’innamorata? Sembrerebbe proprio di no. E invece c’è stato chi ha saputo dimostrare il contrario.
Nel 1817 il francese François Soudre metteva a punto un singolare sistema di traduzione musicale del linguaggio, il Sol-re-sol, in base al quale ogni concetto poteva trovare un equivalente tonale. Per esempio, suonando la fa la mi dico «geometria». In questo modo, anche la nota della spesa, o un proclama politico, o l’intera Divina commedia, potrebbero essere tradotti sul pentagramma. Il progetto di Soudre non va inteso come un modo peregrino di sostituire un sistema di segni grafici con un altro (l’alfabeto con le note). Un principio analogo sarà messo in pratica, ben più efficacemente, da Samuel Morse, l’inventore dell’alfabeto per il telegrafo. Se l’idea di Soudre avesse preso piede (cosa impensabile), ne sarebbe decollato un linguaggio, un sistema semiotico, autonomo: tanto autonomo quanto lo è la musica rispetto al linguaggio verbale. Soudre probabilmente ignorava che il principio era realmente attualizzato in varie parti del mondo: per esempio in quelle comunità africane che usavano i linguaggi tambureggiati per le comunicazioni a distanza. Basta un tamburo capace di almeno due altezze diverse. Ripetendole e alternandole variamente, il percussionista africano fissa ogni concetto con un particolare giro di suoni.
Queste manifestazioni sono lontane da quello che noi intendiamo per musica a programma. Ma ci aiutano forse a circoscrivere la questione. Se una musica non descrive un ombrello, non è per una sua impotenza originaria, come si sente dire a volte. Nemmeno il potere degli altri linguaggi, verbale, visuale, gestuale, di descrivere le cose, è un potere immanente ai linguaggi stessi. È piuttosto il risultato di un uso, di una convenzione e di una pratica sociale. E la pratica sociale della musica l’ha sempre spinta a disinteressarsi dell’ombrello. Nemmeno il più appassionato amante della musica a programma sarebbe disposto a ritrovare in una composizione il suo ombrello, così come potrebbe ritrovarlo in una descrizione verbale o in un dipinto. Che cosa potrà invece cercare, in un poema sinfonico o nei Quadri di un’esposizione, ce lo lascia intuire, un poeta americano interessato ai confronti tra i linguaggi, Wallace Stevens. Nel suo Uomo con la chitarra blu s’ispirò al quadro di Pablo Picasso dallo stesso titolo, cercando di tradurne in versi la tecnica cubista. Per Stevens, la chitarra, la musica, è la fantasia stessa dell’uomo. E la fantasia, la musica, è proprio quella che non ci dà le cose, ma dà alle cose il loro senso.

(Amadeus n. 55 giugno 1994)