di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

In una trasmissione televisiva degli anni Sessanta, Leonard Bernstein faceva cadere gli ascoltatori in un trabocchetto. Ognuno era invitato a immaginare l’argomento descritto dalla musica ascoltata. Risposte disparatissime ma, com’è facilmente prevedibile, nessuna «centrata». Si trattava della sinfonia dal Guglielmo Tell di Rossini; risposta «corretta»; gli Svizzeri in lotta contro il tiranno Gessner! Dunque: la musica è impotente a descrivere. Leonard Bernstein non faceva che sceneggiare l’argomento forte dei critici della musica a programma: se l’autore non te lo dice preventivamente, come fai a sapere che il brano si riferisce a «Un americano a zonzo per Parigi», o «una scena di mercato nella città di Limoges»? Una prima correzione del tiro la consideravamo già nel numero scorso. La musica, almeno nella nostra tradizione, non è impiegata con lo scopo di «nominare» oggetti. Né quindi di descriverli. Piuttosto ci presenta l’esperienza interiore dell’oggetto. Così suggeriva il poeta Stevens. È così scriverà Ludwig van Beethoven in testa a una delle più universalmente rispettate sinfonie a programma: «Più espressione di sentimenti che descrizione». Dietro la critica al «programma» sta l’opinione, diffusa dal formalismo ottocentesco, che la musica sia la più «astratta», la più «immateria­ le» delle arti. Esteriormente, le sensazioni della vista o del tatto sembrano più «Concrete» di quelle dell’udito. Sull’apparente «immaterialità» del suono i popoli primitivi basavano la convinzione dei suoi poteri soprannaturali: l’idea che la musica sia un’arte astratta può essere vista come una sopravvivenza «laica» della concezione mitico-magica del suono. Basterebbe pensare al suono come entità fisica allo stesso titolo della luce, per ritrovare nella musica la «concretezza» che riconosciamo alle arti visive.
I musicisti hanno continuamente dichiarato la loro intima convinzione che la musica, come ogni altra arte, si fonda sull’esperienza concreta del mondo. La differenza starà semmai negli aspetti particolari che l’udito, quindi la musica, ci presentano della realtà – rispetto alla vista e alla pittura. Sentiamo Debussy: «Chi conoscerà il segreto della composizione musicale? Il rumore del mare, la curva d’un orizzonte, il vento tra le foglie, il grido d’un uccello posano in noi impressioni molteplici. E improvvisamente, senza che lo si cerchi, uno di questi ricordi si riverbera al di fuori di noi e si esprime in linguaggio musicale. Esso porta in se stesso la propria armonia». Quasi un secolo prima, il Conte Bernard de Lacépède sosteneva che la musica poteva imitare «la densità di una foresta, la freschezza di un prato, il declinare della luna… Come? Rintracciando i sentimenti che queste cose ispirano in noi». Hector Berlioz, che nella sua Fantastica ci dà un fortunatissimo prototipo di «Sinfonia a programma», ben più sistematico che non la Pastorale beethoveniana, dichiarerà il suo aperto disaccordo a Lacépède. Ma se lo leggiamo con attenzione, scopriamo che Berlioz non discute la capacità della musica di aver a che fare con una realtà esterna. Berlioz, contesta semmai l’idea che una data realtà debba suscitare, in chiunque l’osservi, la medesima emozione. «Esiste forse un modo unico, fisso, di reagire alla vista di una foresta, di un prato, o della luna in cielo? Certamente no. I boschi, la cui ombra e freschezza leveranno un sospiro di rimembranza nell’amante felic e, faranno digrignare i denti all’innamorato geloso e ingannato, e gli empiranno il cuore di bile al pensiero del fortunato rivale… La musica esprimerà facilmente amor benedetto, gelosia, gioia spensierata, titubante modestia, minacce violente, sofferenza e paura, ma se questi sentimenti siano suscitati dalla vista di una foresta o da qualsiasi altra cosa, la musica non sarà mai in grado di dircelo».
E qui torniamo al punto. Ciò che una musica presenta all’ascoltatore non sono le cose che hanno potuto risvegliare il «paesaggio interiore del musicista, come lo chiama Claude Debussy; è proprio il paesaggio interiore, che le cose risvegliano in lui. E questa non è una prerogativa della musica a programma ma, come leggevamo nell’aforisma di Richard Strauss, di tutta la musica.

(Amadeus n. 56 luglio 1994)