di Carlo Delfrati
Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.
«Interminabili applausi. Bis, bis, bis! si sentiva da ogni poltrona: nemmeno le signore potevano trattenersi! È la battaglia che avanza; e la marcia dei soldati, il segnale della carica, il fragore dell’assalto, l’impatto delle armi, i lamenti dei feriti, e quello che ben si può chiamare il rombo infernale della guerra raggiunsero un culmine di tremenda sublimità». Sembrerebbe il commento a una sinfonia di Sciostakovic, se non fosse per quello stupito accenno al pubblico femminile, che ci rimanda a un’epoca in cui non si concedeva alle signore la scompostezza dell’applauso e del grido. E infatti la cronaca appartiene a un giornale londinese del 1794. Ma quale sarà lo stupore nostro, quando scopriremo che il critico si riferiva all’Andante della Sinfonia n. 100 di Franz Joseph Haydn. Ascoltiamolo: chi oggi potrebbe mai ritrovare battaglie e rombi infernali, armi e lamenti di feriti in questa pagina così garbatamente innocua, dal fare sorridente e bonario? Che ci sia uno scambio di opere? No: tanto era accettata quella interpretazione, che il pubblico d’allora battezzò la sinfonia intera col titolo di Militare.
Per capire un atteggiamento del genere, occorre cambiare scenario e momento storico: trasferirsi dalla Londra fine ‘700 ai Balcani del secolo precedente, quando l’esercito ottomano s’era spinto fin sotto le mura di Vienna: con i suoi tremendi Giannizzeri, ma anche con le loro curiose (e paurose!) bande militari. Strumenti a fiato, in queste bande, come in quelle europee, ma in più tutta una serie di fragorosi strumenti a percussione, tamburi grandi e piccoli, piatti di bronzo, triangoli e un singolare pezzo di chincaglieria, il «Cappello cinese» o «Jingle Johnny», come lo chiameranno gli inglesi: un’asta con appesi campanelli e sonagli d’ogni foggia e d’ogni crepitio.
Per i musicisti europei, e per i loro committenti, sarà quasi un colpo di fulmine. All’inizio del ‘700 il sultano turco regalerà al re Augusto II di Polonia un’intera banda militare. E i compositori incominciarono a inserire gli strumenti «turchi» nei propri lavori.
Due erano gli orientamenti espressivi, i significati che l’impiego degli strumenti turchi acquistava, alle orecchie dei musicisti e del pubblico: da una parte servivano a ricreare l’ambiente turco nel teatro lirico; basti pensare al Ratto dal serraglio di Mozart; dall’altra servivano a esprimere situazioni bellicose, guerresche. Ed eccoci. Haydn: che aveva intitolato la sua opera Grande sinfonia con la musica turca: musica turca era proprio il nome che si dava all’insieme di tamburo, piatti e triangolo, strumenti ignorati dall’orchestre europee prima d’allora, e introdotti con l’intenzione di evocare le «turcherie» da una parte, la guerra tout-court dall’altra. L’ascoltatore del 1794 ancora associava la sonorità della «musica turca» allo spirito guerresco da cui derivava: e Haydn stesso favorì questa interpretazione, fondando il suo Andante su un pur tranquillo passo di marcia, e interpolandovi un inequivocabile segnale militare alla tromba.
Alla turca finirà con l’indicare sia la musica che utilizza tamburo, piatti, triangolo, sia la musica che cercherà di imitare quelle sonorità su altri strumenti. È il caso del più celebre alla turca: quello della Sonata K. 331 che Mozart scrisse per il pianoforte. Anche qui un andamento di marcia, ma soprattutto una serie di effetti speciali, come acciaccature e arpeggi, intesi a imitare le sonorità crepitanti delle percussioni.
Ma il caso più memorabile di musica turca ce lo offre Beethoven, nell’ultimo movimento della sua Nona sinfonia. Ancora una volta il simbolo è guerresco. Ma di una guerra morale, stavolta: la guerra vittoriosa sul male e sulle sofferenze, grazie alla quale soltanto è possibile per l’uomo realizzare la pienezza del proprio destino. Le parole di Schiller che il tenore canta a questo punto della Sinfonia sono rivelatrici. C’è da credere che siano state la molla che ha spinto Beethoven a usare la musica turca; la traduzione di un simbolo verbale in un simbolo musicale: «Felici, come volano gli astri nella plaga splendente del cielo, correte, fratelli, sul vostro cammino; felici, come un eroe alla vittoria».
(Amadeus n. 30 maggio 1992)