di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Un nome sinistro per chiunque abbia cominciato seriamente a praticare uno strumento; quasi altrettanto sinistro che il suo parente povero, l’esercizio. Nomi che evocano ore e ore trascorse a ripetere un gioco di note caratteristico e ricorrente, una formula musicale. Lo scopo di studi ed esercizi è quello di isolare un particolare aspetto della tecnica strumentale e di farci insistere l’allievo fino al completo padroneggiamento. Questi aspetti sono per esempio, nel caso del pianoforte, che ha visto fiorire la più consistente letteratura di studi, il passaggio del pollice (sotto le altre dita), le scale, gli arpeggi, le terze o le ottave parallele, e così via fino agli aspetti tecnici più complessi. La differenza fra studio ed esercizio può essere illustrata con l’opera 3 di Schumann: che, s’intitola Studi, ognuno dei quali è preceduto da «esercizi», ossia dalla proposta di affrontare separatamente le difficoltà tecniche presenti nel brano; un metodo questo che aveva molta fortuna nella letteratura scolastica del tempo. Gradus ad Parnassum intitolò Muzio Clementi quella che è forse la più celebre raccolta di studi per pianoforte.
«Gradini per salire al Parnaso»: il titolo compendia il senso delle innumerevoli raccolte che in quegli anni venivano prodotte per graduare meticolosamente il cammino dell’allievo pianista. Queste raccolte, opera di autori come Cramer, Moscheles e Czerny, sono ancor oggi in uso nei nostri istituti. Per gli altri strumenti si formava un repertorio analogo.
Mentre dunque l’esercizio si riduce solitamente a un pur formulario, privo di ogni interesse musicale (e in questo senso lo chiamiamo parente povero), lo studio si fa nel tempo sempre più ambizioso. Non è semplicemente il gioco di note ripetuto fino ai limiti della sopportazione (di chi suona e, beninteso, di chi ascolta). Arriva a complicarsi musicalmente fino a diventare una sfida alle stesse possibilità esecutive dello strumentista: un gioco di acrobazie virtuosistiche sempre più spericolate. Ne sono un esempio i Grandi studi per pianoforte che Muzio Clementi licenziò nel 1839, eseguibili solo da mani straordinariamente allenate. La ragione di tanta letteratura «acrobatica» sta nel gusto romantico per il «demoniaco musicale», che spingeva alla ricerca degli effetti più impensati, capaci di sbalordire il pubblico dei salotti-bene. La composizione di raccolte di studi o esercizi «mirati» a un particolare aspetto tecnico è invece più coerente con la mentalità meccanicistica e positivistica propria dell’epoca. Prima di allora lo stile degli studi era molto diverso, e difficilmente potremmo trovare qualcosa di analogo alle raccolte ottocentesche. Per esempio i Trenta esercizi per gravicembalo di Domenico Scarlatti sono altrettanti gioielli musicali, che raggiungono il loro obiettivo didattico attraverso il contatto dell’allievo con un materiale musicale di prim’ordine. In altre parole, l’allievo supera i problemi tecnici non isolandoli come in un laboratorio ma vivendoli all’interno di un’opera musicale significativa: e gli esercizi di Scarlatti non sono certo meno pregevoli di quei capolavori che sono le sue sonate. Anche qui, il nome di Johann Sebastian Bach è inevitabile, con la quantità di studi scritti per i non meno numerosi componenti della sua famiglia. Oggi questi studi bachiani sono offerti allo studente come veicolo per acquisire certe abilità tecniche: invece che proporsi come la meta a cui la conoscenza tecnica dello strumento deve servire. Curioso capovolgimento di prospettiva, di cui è responsabile proprio la didattica ottocentesca.
Naturalmente anche i musicisti dell’Ottocento, come i loro augusti predecessori, erano consapevoli dell’importanza di far studiare l’allievo su materiali di prim’ordine invece che su formulari tecnici. Un’ambizione più sana spingeva perciò lo studio a superare le sue ragioni immediate (l’addestramento delle dita) e a proporsi come opera d’arte. Lo stesso terribile Clementi dei Grandi studi ci lasciava pezzi musicalmente ben più interessanti nell’ultima parte del suo Gradus ad Parnassum. E così nascevano gli studi capolavoro di Paganini per il violino (che l’autore intitolò Capricci invece che studi), di Chopin, di Schumann, di Liszt per pianoforte, su su fino a quelli di Rachmaninov, di Debussy, di Bartók. Da eserciziario tecnico per lo studente, lo studio tende a trasformarsi in ricerca personale dell’autore intorno a particolari problemi espressi.
È così che nel nostro tempo nascono lavori come Quattro studi di ritmo di Olivier Messiaen o addirittura «Studi per orchestra», come quelli di Frank Martin o Stravinskij.

(Amadeus n. 27 febbraio 1992)