di Carlo Delfrati
Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.
L’ascoltatore ai suoi primi passi si stupisce, quando legge nel programma di sala che la Quinta Sinfonia di Beethoven inizia con un Allegro con brio. La Quinta è il prototipo stesso della drammaticità in musica, che la didascalia del programma si affretta a corroborare; «il messaggero del Destino bussa alla nostra porta …». Definirla allegra? E con brio, poi! Eppure avremmo potuto trovare scritto addirittura Vivace. All’opposto, sullo spartito di una musica dolce e sorridente potremmo trovare scritto Grave. E che dire di termini come Largo o Innocente, anche questi messi in testa a uno spartito? L’ascoltatore solo po’ smaliziato conosce già la risposta: nessuno di questi termini indica il sentimento che anima il pezzo, e nemmeno il sentimento con cui l’esecutore dovrà cercare di renderlo; semplicemente, indica la velocità a cui il pezzo andrà eseguito: il tempo, per usare la parola ormai consunta dai tanti usi diversi che nei numeri precedenti ne abbiamo visto fare. Ma perché proprio Allegro o Grave? Non si potrebbero usare termini un po’ meno equivoci? La risposta ce la dà la tradizione. Quando un termine come Allegro cominciò ad essere usato, nel tardo Rinascimento, i compositori intendevano riferirsi proprio al complessivo carattere del pezzo. E un carattere allegro va di pari passo con un moto spedito. La corrispondenza semantica tra allegria (o brio, o vivacità), e la velocità elevata ha fatto sì che si usasse un termine per l’altro. In fondo, non capita anche a noi di dire che Tizio camminava con andatura briosa? Lo spiegava bene Carlo Filippo Emanuele Bach, nel suo importante libro del 1753 sull’arte di suonare le tastiere: «il tempo di un pezzo, che è solitamente indicato con una varietà di termini italiani familiari, è derivato dal suo tono emotivo generale…». Da Bach apprendiamo così che i termini italiani erano ormai diventati un vocabolario universale per i musicisti. E tali sono rimasti tutt’oggi, anche se i compositori del Novecento d’altri paesi hanno occasionalmente usato parole della propria lingua.
Prima del Seicento non era necessario precisare la velocità. I suoni erano trascritti secondo un criterio più rigoroso del nostro: la forma della nota ne indicava anche la durata e quindi la velocità. Pian piano il sistema si trasformò. Dal Seicento a oggi la forma della nota ci rivela solo il suo «rapporto di durata» con le altre: vedendo una semiminima il musicista sa che dura «metà della minima» e viceversa; ma quanto esattamente debba durare l’una o l’altra, oggi lo può dire solo un’indicazione aggiuntiva: un termine come Allegro, per l’appunto. All’inizio del secolo scorso si tentò di rendere più rigorosa la definizione della velocità d’un brano, utilizzando una misura aritmetica: più esattamente, il numero di pulsazioni scandite in un minuto primo. Leopold Nepomuk Mülzel inventò un apparecchio capace di questa misura: il metronomo, che brevettò nel 1816.La tabella a lato elenca orientativamente la misura metronomica corrispondente a ogni termine. È una corrispondenza riferita mediamente agli usi di quest’ultimo secolo. Per la musica fino all’Ottocento, la corrispondenza non è così pacifica. Per esempio Presto scritto su una musica di Bach vale come un Allegretto in Chopin. Un avverbio come Assai aggiunto nel Settecento a un termine non significa molto ma abbastanza. Poco vale un po’. In un trattato del 1706 Andante era considerato molto lento; in un altro del 1724 Vivace è posto a metà strada fra Largo e Allegro. Croci e delizie degli interpreti seri, che devono fare i conti con una rigorosa riflessione filologica! Le cose si complicano con l’uso dei suffissi, specialmente «-ino., «-etto», «-issimo». Sentiamo co sa scriveva Beethoven nel 1813 a un editore: «In futuro, se c’è qualche altro Andantino fra le melodie che mi mandate da armonizzare, vi prego di indicare se questo termine lo intendete più veloce o meno veloce che Andante, perché è una parola così imprecisa, questa come tante altre in musica, che in qualche caso può valere quasi come Allegro, in qualche altro come Adagio!».
Un’ultima curiosità. I termini relativi alla velocità (i termini agogici si scrivono in testa alla partitura. Così han finito per venir considerati come dei titoli. E come tali li vediamo impiegati normalmente. L’equivoco è in sé innocente. Ma c’è almeno un caso in cui finisce col diventare grottesco: quando il compositore, dimenticatosi di indicare la velocità di un brano, lascia il produttore discografico davanti a un’unica alternativa: cadere in preda alla disperazione, o intitolare salomonicamente il pezzo Senza tempo. Di tutti gli usi della parola: tempo, questo è il più monello: perché per quanti sforzi compositore possa compiere, ebbene, una «musica senza tempo» proprio non la potrà mai scrivere.
(Amadeus n. 14, gennaio 1991)