di Callisto Cosulich*
(Pubblicato sul n. 90 e 91 di Amadeus, maggio e giugno 1997)
Pubblicato nel 1997, questo Dizionarietto illustra in forma quanto mai sintetica i gusti,le manie,
i percorsi culturali, talvolta visionari che hanno condizionato i grandi registi (da Altman a Wood)
nella scelta delle musiche per le colonne sonore che spesso hanno contribuito a render popolari i film.
REITZ EDGAR
(Morbach, Stoccarda, 1.11.1932)
«La musica è l’unica arte imparentata col cinema, l’unica che, come il cinema, si ponga il problema del fluire del tempo. Perciò che riguarda la pratica artistica e tecnica, tra uno studio cinematografico e uno stabilimento di registrazione del sound non c’è una grande differenza. In entrambi il materiale lavorato viene tagliato e rimontato. Ed è il ritmo a dare la misura della fantasia».
Autodidatta, Reitz, che ancora adolescente fuggì dal suo borgo natio per tentare l’avventura metropolitana a Monaco, fu in un primo tempo incerto sulla carriera da intraprendere: la letteratura, la musica o il cinema. Optò per il cinema, esplorandolo in tutti i suoi settori, compreso quello pubblicitario. Ciò non gli impedì di partecipare, oltre alle battaglie per l’affermazione del Junger Deutsche Film, lanciato nel ’62 con lo «Storico» manifesto di Oberhausen, al dibattito sulla Neue Musik, a sostegno di compositori quali John Cage, Maurice Kagel, Karl Heinz Stockhausen e Nikos Mamangakis, che diverrà il suo collaboratore stabile a partire da Stunde Null (1976). Le battaglie culturali degli anni Sessanta (che, secondo Reitz, sono state importanti in senso positivo per la Germania, quanto in senso negativo lo furono gli anni Trenta), rivivono per interposte persone in Die Zweite Heimat – Chronik einer Jugend (Heimat 2, 1992), il chilometrico film di 26 ore, diviso in tredici episodi di due ore ciascuno, ove la musica entra per almeno due motivi come protagonista del la vicenda: perché in parecchi capitoli assume una funzione drammaturgica essenziale e perché gli attori principali sono musicisti (compositori e/o esecutori) prestati per l’occasione al cinema C’è in questo film, unico nella storia del cinema, un continuo scambio di ruolo tra musica e cinema nel supportare la drammaturgia della vicenda. S’instaura così un rapporto dialettico, tra un mezzo di comunicazione simbolico, qual è la musica, e un mezzo che, come il cinema, usa per alfabeto la realtà stessa. Ne nasce una meditazione sulle due arti, una meditazione che si risolve sempre in racconto, portandolo in alcuni momenti al limite estremo della drammaticità: là dove la storia diviene impossibile a filmarsi, pena la violenza sui suoi protagonisti.
RESNAIS ALAIN
(Vannes, Bretagna, 3.6.1922 – Neuilly-sur-Seine, 1.3.2014)
«Un critico, di cui ho scordato il nome, si era un po’ scandalizzato, leggendo un anno fa la traduzione degli articoli di Kurt Weill dal 1925 al 1945. In un’intervista al compositore gli era stato chiesto quale fosse la funzione della musica nel film. Kurt Weill aveva risposto che la musica metteva in risalto la struttura del film. Il critico aveva trovato siffatta risposta priva d’interesse. Io penso che Kirt Weill avesse compreso perfettamente la cosa. Se la si prevede in partenza la musica al cinema aiuta a comunicare la costruzione del film. Permette di accentuare i mutamenti d’atmosfera e di situare il presente, il futuro, o il passato, ciò che è molto importante».
In controtendenza con tanti autorevoli cineasti di ieri e di oggi Resnais rifiuta di usare musica preesistente. Forse l’allergia nei confronti di questo metodo, che pure in certi casi ha dato luogo a ottimi risultati, dipende dall’uso intensivo che egli ne fece da ragazzo, quando organizzava delle proiezioni per i suoi coetanei. Erano copie di film formato 8 mm, generalmente muti, che egli soleva integrare con dischi. Lo sforzo di riuscire a sincronizzare le immagini con la musica era tale che alla fine della proiezione rimaneva completamente spossato. A questo si aggiunga che Resnais sin dalla infanzia è stato un appassionato ascoltatore di musica. Ed essendo nel contempo un cinéphile arrabbiato, egli non può durante la proiezione dividersi in due, ascoltare e vedere insieme. Ragione per cui, ad esempio, non ama Morte a Venezia di Visconti, perché viene distratto dall’Adagietto della Quinta Sinfonia di Mahler e perde così il filo del racconto. Ma Resnais è altrettanto contrario a fare a meno della musica. Senza la musica il film gli parrebbe incompiuto, ha dichiarato. L’ha sempre considerata facente parte di un tutto, insieme al suono e all’immagine. E proprio per questo la vuole composta espressamente da un musicista che sia coevo al regista, agli attori e ai tecnici. Ma quali musicisti? Sulla scelta Resnais appare assai esigente. La qualità del musicista, a suo avviso, è così importante da rendere ininfluente il fatto di non avere dimestichezza con le colonne sonore. Per Hiroshima mon amour (1959), ad esempio, avrebbe voluto Luigi Dallapiccola. Ma Dallapiccola, che non aveva mai musicato un film, chiedeva troppi mesi per scrivere la partitura, così che il regista dovette ricorrere a Giovanni Fusco, il musicista di Antonioni, che non fu affatto un ripiego.
Se Dallapiccola mancò all’appello di Resnais, altri grandi musicisti contemporanei hanno scritto partiture originali per i suoi film: Hanns Eisler, Hans Werner Henze, Krzysztof Penderecki. Cosa che non ha impedito talvolta al regista di ricorrere a musicisti specializzati nel settore, come Arié Dzierlatka e Miklos Rozsa, nonché a compositori di minor fama, come Francis Seyrig, allievo di Olivier Messiaen, che sostituì il maestro in L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, 1961), come l’americano John Kander, autore del musical Cabaret, e il suo collega Stephen Sondheim. Resnais non fa distinzione fra popular music e musique savante: importante è che la musica collimi con le immagini, che contribuisca a creare l’armonia del tutto.
RUSSELL KEN
(Southampton, 3.7.1927 – Lymington, Regno Unito, 27.11.2011)
«Una volta, al Royal Festival Hall di Londra, a un concerto di Khacaturjan con la partecipazione del coro e del balletto dell’Armata Rossa, avevo voglia di alzarmi dalla poltrona e di mettermi a ballare, ma se lo avessi fatto mi avrebbero arrestato. Bisogna smetterla con la pedanteria, imparare a godere l’arte come se si trattasse di un pop song».
Questa confessione, dettata a Stefano Socci nel 1982 per la rivista Cinema & Cinema, non precisa la data in cui Russell s’innervosì, assistendo al concerto di Khacaturjan. Comunque sia, prima o dopo non importa, il regista inglese ha avuto modo di farsi beffe del perbenismo sovietico, realizzando la sua celebre, trasgressiva biografia di Cajkovskij, The Music Lovers (L’altra faccia dell’amore, 1971), che suscitò l’indignata reazione dell’apparato culturale dell’Urss, dove – quasi contemporaneamente – si promuoveva un analogo film biografico sul compositore russo, reticente e rispettoso, diretto da Igor Talankin, passato sugli schermi italiani in una edizione molto ridotta, sotto il titolo Una pioggia di stelle. I sovietici se l’erano presa per via dell’insistenza con cui Russell aveva sottolineato la natura omosessuale di Cajkovskij, fatto privato – a loro avviso – e ininfluente sulla grandezza del compositore. Ma abbiamo motivo di ritenere che l’omosessualità fosse il falso bersaglio della loro polemica. In realtà, la «sconvenienza» di Russell non stava tanto nel contenuto quanto nella forma adottata per esprimerlo.
Russell negli anni Sessanta aveva diretto una ventina di commercial, di messaggi pubblicitari, cioccolata Black Magie e Galaxy, fagioli al forno Horlicks ecc.; si era così impossessato del linguaggio televisivo, per poi adottarlo senza remore di alcun genere in The Music Lovers. Vale per tutte le sequenze, quella relativa alla esecuzione del Primo Concerto per pianoforte e orchestra, dove la ripresa oggettiva del compositore che suona viene spesso intercalata da immagini riproducenti i pensieri e i ricordi che nel contempo invadono Cajkovskij, immagini che Russell volle «false e ultraromantiche » e per le quali usò deliberatamente i cliché dei film pubblicitari: controluce, sfocature, alonature, movimenti lenti e così via, tutti accorgimenti oggi divenuti luogo comune (e anche indigesto) ma che allora fecero una notevole impressione. Russell, per la prima volta nella storia del cinema, cercava di «far vedere la musica», e ci riusciva. In seguito il regista inglese esasperò questa tendenza. In Mahler is Still Alive (Perdizione, 1974), realizzato in istintiva opposizione al viscontiano Morte a Venezia, egli rifece il verso ai comici del cinema muto e ai fratelli Marx («Io penso che la famiglia Mahler non fosse molto diversa dalla famiglia Marx: erano bravi ragazzi ebrei, dei quali uno divenne cattolico e un altro si recò in America…»). In Lisztomania (1975) i temi delle rapsodie sono tradotti in rock da Rick Wakermann, mentre Wagner è rappresentato come un incrocio tra Dracula e Hitler. In Salome’s Last Dance (L’ultima Salomé, 1988), la musica è fornita da non meglio identificati «classical extracts», mentre la Salomé di Richard Strauss e la sua celebre Danza dei sette veli sono bandite, poiché Russell odia il compositore tedesco in quanto compromesso con il nazismo. Russell non ha mai fatto distinzione fra stile alto e stile basso, ha adottato il kitsch come emblema del proprio talento visionario, un talento che nel corso degli anni ha perduto la sua grinta iniziale e oggi si rivolge preferibilmente alla messinscena teatrale di opere liriche (hanno destato scalpore le regie di La carriera del libertino al Maggio Fiorentino e di Madama Butterfly allo Sferisterio di Macerata).
SAUTET CLAUDE
(Montrouge, Parigi, 23.2.1924 -Parigi, 22.7.2000)
«Io tento di costruire i miei film secondo ritmi musicali. Mi trovo a disagio quando mi chiedono di parlare dei contenuti dei miei film: non so bene come si svolgono le cose quando realizzo un film; preferisco parlare di ritmi».
Chi ha visto e apprezzato l’ultimo film di Sautet, Nelly et Mr. Arnaud (Nelly e Mr. Arnaud, 1995), avrà notato l’assenza totale dei cosiddetti «tempi morti», particolare piuttosto eccezionale in un film incentrato come pochi altri sullo scavo psicologico dei personaggi. Tanto che il definirlo un film psicologico d’azione non ha avuto la parvenza di una battuta. A ripensarci, ciò si spiega con la volontà espressa da Claude Sautet di costruire i propri film secondo ritmi musicali. Del resto, tale volontà collima con i precedenti del regista, il quale, prima di intraprendere la carriera cinematografica, fu critico musicale del quotidiano Combat. Dopo due esperienze nel polar (il termine francese che sta a indicare i film polizieschi),
Sautet col terzo film, Les choses de la vie (L’amante, 1969), trovò finalmente un contenuto in sintonia coi propri effettivi interessi e i suoi collaboratori ideali: lo sceneggiatore Jean-Loup Dabadie e il musicista Philippe Sarde, il cui nome ricomparirà nei titoli di tutti i film successivi. Intesa perfetta che applica fedelmente la teoria di Hanns Eisler, secondo il quale il numero degli strumenti va diminuito quanto più aumenta la temperatura patetica del film.
I film di Sautet non sono patetici, ma davvero non li sapremmo immaginare con un commento musicale a grande orchestra. Tra i più significativi sotto l’aspetto musicale, ricorderemo Vincent, François, Paul et les autres (Tre amici, le mogli e affettuosamente le altre, 1974) e Un coeur en hiver (Un cuore in inverno, 1992).
Nel primo la partitura di Sarde segue meticolosamente gli stati d’animo dei numerosi personaggi, sia quando sono soli, sia quando si ritrovano in compagnia, evitando ogni riferimento sociale e/o speciale. Nel secondo Sarde lascia il posto alla musica preesistente di Ravel, che entra come protagonista nel tessuto drammaturgico della vicenda: funzione di commento e oggetto di riflessione, insieme.
SCORSESE MARTIN
(New York, 17.11.1942)
«Io so che, senza la musica, sarei perduto. Molto spesso, solo sentendo la musica adatta ai miei film, comincio a visualizzarli».
Lì per lì quello di Scorsese parrebbe un omaggio occasionale alla musica richiesto non si sa da chi: un po’ come si usa nei volumi dedicati a un personaggio che si vuole celebrare e, per farlo, si ricorre a colleghi disposti a unirsi al coro. Ma quando Scorsese accenna alla importanza che la musica assume nel processo di visualizzazione preventiva del film, sottolinea un processo creativo che per certi cineasti è fondamentale. La musica perde in questa sua funzione ogni proposito decorativo e/o didascalico. Sembrerebbe un caso, ma non lo è: in nessun film di Scorsese, ad esempio, la musica è chiamata a restituire lo spirito del suo tempo. In Mean Streets (1973), ad esempio, la cui colonna sonora contiene solo la cosiddetta «music on the air», cioè musica che può giungere da ovunque, non composta espressamente per il film, in Mean Streets – si diceva – la musica così registrata (e pescata tra il folklore italo-americano) è di molto anteriore ai primi anni Settanta, epoca in cui si svolge la vicenda. Lo stesso dicasi per Raging Bull (Toro scatenato, 1980), mentre per The Last Temptation of Christ (L’ultima tentazione di Cristo, 1988) Scorsese chiama la rockstar Peter Gabriel, perché gli componga delle melodie orientaleggianti, assolutamente inedite per un cinema che, sia pure con intenti antitradizionali e che qualcuno ha giudicato blasfemi), si riferisce alla Passione. Scorsese che, prima di essere un grande regista, vanta una lunga militanza cinéphile, quando pone mano a un crime movie, tiene come punto di riferimento la colonna musicale di ThePublic Enemy (Nemico pubblico, 1931) di William Wellman, il cui Leitmotiv, ripetuto ossessivamente, è dato dal refrain di I’m Forever Blowing Bubbles. Il dinamismo che questo motivo riesce a imprimere alle immagini è – secondo lui – ineguagliabile. Il dinamismo nei suoi ultimi film del genere, da Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990) a Casinò (1995), tende a trasformarsi in moto perpetuo, in sintonia con l’incontrollabile movimento in avanti che segna il destino dei rispettivi protagonisti.
STRAUB JEAN-MARIE
(Metz, 8.1.1933)
& HUILLET DANIELE
(Parigi, 1.5.1936 – Cholet, 9.10.2006)
«Il primo lavoro, quando si fa un film desunto da una partitura musicale, consiste nel cercare le nervature della partitura, per sapere dov’è che si può intervenire, cambiare inquadratura, cominciare una registrazione, e arrestarla. E questo in genere non lo fa nessuno. Il secondo lavoro sta nel trovare delle immagini che non blocchino l’immaginazione degli spettatori». (J.M. Straub)
«Ciò che non sopporto è quando ci si serve della musica, per far dire al paesaggio qualcosa che il paesaggio non dice». (D. Huillet)
Non è il rigore che guida il modo di trattare la musica nei film della coppia Straub & Huillet, bensì il rispetto: un rispetto che non ammette scorciatoie Bach, tanto per fare l’esempio illustre dei loro interessi cinemusicali, va riesumato con gli strumenti della sua epoca. I cantanti nel film-opera vanno registrati in diretta, non in playback, anche a costo di limitarne la mobilità, come accade in Moses und Aron (1974), dove l’opera di Schönberg è ripresa all’aperto, in un anfiteatro romano sito sulle montagne d’Abruzzo, senza che il sublime paesaggio interponga mai il proprio fascino tra lo schermo e le note. Il rispetto del reale viene portato alle estreme conseguenze in Von Heute auf Morgen, (1977) opera buffa di Schönberg, dove l’apologia della fedeltà coniugale diviene gesto di anticonformismo in una modernità quanto mai tollerante invece verso l’adulterio.
Il loro film-manifesto resta comunque Chronik der Anna Magdalena Bach (Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967), un film in cui la vita, ma soprattutto la musica di Johann Sebastian, viene raccontata attraverso il diario immaginario di una delle sue mogli.
Film che spiazzò i critici all’epoca della sua uscita (ed era un periodo nel quale tutti cercavano disperatamente il cinema alternativo da contrapporre ai film prodotti sull’asse Hollywood-Cinecittà). In realtà molti non compresero che l’eroe, la star della pellicola, non era il compositore, ma la sua musica. Bach era semplicemente un operaio al lavoro, come nei documentari britannici che registrano l’attività intorno a uno degli innumerevoli cantieri navali dell’isola. Straub e Huillet, per la prima volta nella storia del cinema, resero la musica un fatto vivo e soprattutto concreto, in armonia con la loro estetica materialista.
SYBERBERG HANS-JÜRGEN
(Nossendorf, Pomerania, 8.12.1935)
«Il film nasce dal montaggio, montaggio delle immagini e dei suoni, come nel teatro delle marionette, dove la voce, che viene da dietro o dall’alto, accompagna in una certa maniera il movimento dei personaggi e dell’immagine».
«Non amo molto Syberberg. Anzi; a essere onesti, dovrei togliere il “molto”… I suoi film fanno torto all’autore in particolare e, in generale, al cinema, alla stessa opera…». Il giudizio, quanto mai drastico, appartiene a Jean Marie Straub, né poteva essere diverso. Il suo, e quello di Syberberg, sono due modi antitetici di usare la musica nel cinema, in modo specifico nel film-opera. La musica e le voci nei film di Syberberg, da Ludwig II (1972) a Parsifal (1982), passando per l’interminabile Hitler – Ein Film aus Deutschland (1977), della durata di 7 ore, obbediscono al suo concetto di cinema totale, in cui il fatto tecnico, nella fattispecie il playback, non solo viene usato, ma addirittura esposto senz’alcuna dissimulazione, mentre i personaggi spesso si muovono dinanzi a uno schermo, sul quale un proiettore fa scorrere altre immagini.
Hans-Jürgen Syberberg, chiuso aristocraticamente nell’ambito della sua visione teorica, né più né meno di Straub, vagheggia un cinema che, attraverso l’uso di tutti gli strumenti dello spettacolo e dell’audiovisivo, raggiunga effetti analoghi ai Leitmotiv musicali e agli universi pittorici e spirituali delle iconografie storiche: un cinema nei confronti del quale l’offerta e la domanda attuale di film si dichiarano totalmente impreparati. Cosa che non turba gli olimpici sonni di questo altero prussiano.
TAVIANI PAOLO
(San Miniato, Pisa, 8.11.1931)
& TAVIANI VITTORIO
(San Miniato, Pisa, 20.9.1929 – Roma, 15.4.2018)
«Per noi la musica è fondamentale, non come commento, al contrario di come si è soliti intenderla per il cinema. Per noi la musica ha lo stesso peso di un’immagine, di un personaggio».
La migliore esemplificazione di questo atteggiamento la troviamo in Padre padrone (il film del 1977 ispirato al romanzo di Gavino Ledda): la musica entra di prepotenza nel contesto drammaturgico del film, quando Gavino scambia due agnelli per una vecchia fisarmonica, con la quale imparerà a suonare nientemeno che An der schonen blauen Donau (Il bel Danubio blu, 1867) di Johann Strauss, riempiendo di note viennesi il rude, arcaico paesaggio sardo. Oppure quando il padre di Gavino, che tenta in tutti i modi di ostacolare l’acculturazione del figlio, immerge nel bagno la radio, mentre sta trasmettendo il Concerto per clarinetto k 622 di Mozart. Qui la musica diventa realmente un personaggio: un personaggio che viene brutalmente ucciso. Infatti, la radio immersa nell’acqua ammutolisce; il concerto s’interrompe bruscamente; è come se il padre di Gavino avesse preso per il collo un suo nemico, immergendone la testa nell’acqua. Classica scena da crime movie.
Ma, al di là di questo coinvolgimento della musica nella vicenda, vale la pena di notare come i fratelli Taviani abbiano mutato i propri collaboratori musicali di pari passo con la loro evoluzione. Da Giovanni Fusco e Vittorio Gelmetti, sono man mano passati ai motivi maggiormente orecchiabili di Ennio Morricone e Nicola Piovani, in sintonia col progressivo abbandono degli «astratti furori» che marcavano i loro film degli anni Sessanta (la Sicilia «metaforica», ambientata nei dintorni di Roma, in cui si svolgeva Un uomo da bruciare, datato 1962, così come il «preistorico» Sotto il segno dello scorpione del 1969, hanno molti punti in comune con la prosa del Vittorini meridionalista). Cerniera tra i due periodi: San Michele aveva un gallo (1971), musiche di Benedetto Ghiglia, il cui titolo si riferisce a una cantilena infantile, scelta per Leitmotiv del film.
Oggi, come ha confessato Piovani, registi e musicisti si abbandonano volentieri «al gusto artigianale di alternare piccole convenzionalità a piccole sorprese, sempre facendosi guidare dalla storia che si sta narrando, e non seguendo gli astratti giochetti del formalismo stilistico».
VECCHIALI PAUL
(Ajaccio, 28.4.1930)
«In vita mia non ho mai girato qualcosa, senza sapere prima che musica avrei impiegato e senza averla ascoltata per giorni interi».
Vecchiali ha dedicato Corps à coeur (Corpo a cuore, 1979), uno dei suoi film più belli, a Jean Grémillon, figura molto discussa del cinema francese degli anni Trenta e Quaranta, divenuto regista quasi per caso, dopo avere studiato musica alla Schola Cantorum di Parigi nel corso diretto da Vincent d’Indy. In linea con tale dedica si pone anche l’uso della musica di Gabriel Fauré, in particolare della splendida Messe de requiem op. 48 (1886-87), che il musicista compose in seguito alla morte del padre. Fauré, come Grémillon, è una figura di transizione fra due epoche, fra la tradizione romantica e l’emergente impressionismo. E lo stesso Vecchiali è un cineasta difficilmente collocabile. Proveniente dalla critica, ha ereditato da tale professione l’amore per il vecchio cinema, che egli cita senza mai ricalcarlo. Anche quello che a tutt’oggi è il suo ultimo film mostra un aspetto rétro: il suo titolo, Wonder Boy (1994), parafrasa quello di un film di Rouben Mamoulian, Golden Boy (Passione, 1939), tratto da un lavoro teatrale di Clifford Odets. In entrambi è questione di un giovane combattuto fra il talento musicale (è un promettente violinista) e le qualità pugilistiche (sulle quali puntano coloro che lo attorniano). Invano si cercherebbe nel suo cinema una componente naturalistica. Vecchiali ama l’artificio: nell’uso dello studio e che esclude il più possibile gli esterni naturali), nella scelta della musica, degli attori e anche quando sono presi dalla strada), delle storie. Un’opzione, la sua, che rivela la ricerca di una superiore armonia.
WENDERS WIM
(Düsseldorf, 14.8.1945)
«Il rock’n’roll mi ha spinto incontro a tutto: mi ha spinto a fare del cinema».
Anche Wenders, come Vecchiali, proviene dall’esercizio della critica. E, come Vecchiali, come tutti i critici che scrivono di cinema perché amano il cinema, non riesce a dominare la nostalgia che lo invade di fronte alla progressiva mancanza di memoria degli spettatori e di parecchi addetti ai lavori. «Mi manca la gentilezza, la minuziosità, l’andamento disteso, la sicurezza, la calma, l’umanità dei film di John Ford», scriveva nel maggio del 1970 sulla rivista Filmkritik in un articolo intitolato «Emotion Pictures»; «mi mancano i volti che non assumono mai espressioni forzate, paesaggi che non sono mai degli scenari, i sentimenti che non appaiono mai fastidiosi o ridicoli; mi mancano gli avvenimenti che anche quando sono divertenti non si burlano mai di nessuno e gli attori che variano sempre in modo convincente i loro ruoli». Non desta meraviglia se Wenders ha odiato un film come C’era una volta il West (1968) di Sergio Leone, l’esatto opposto di tutto ciò che egli ama e di cui prova nostalgia. La sua stroncatura è paradossalmente il più bell’omaggio che mai sia stato scritto alla straripante, irrispettosa personalità del regista italiano. In soccorso di Wenders, per surrogare i vuoti del nuovo cinema, è intervenuto il rock’n’roll: «Lamusica americana viene sostituendo sempre più la produzione di senso che man mano il cinema perde: dalla concentrazione di blues, rock e country scaturisce qualcosa che deve venir colto non solo a livello auditivo ma anche visivo in immagini come spazio e tempo». Quando Wenders ha abbandonato la macchina da scrivere per usare la macchina da presa, è rimasto fedele ai suoi principi. Il suo cinema ripropone da un lato l’andamento disteso, la calma, l’umanità dei film di John Ford e dall’altro usa la musica come produttrice di senso. Naturalmente, il cinema amato da Wenders è soprattutto quello americano. Se Vecchiali dedica Corps à coeur a Grémillon, Wenders chiude Alice in den Städten (Alice nelle città, 1973), prima parte della sua «trilogia della strada», con l’immagine emblematica di un quotidiano che annuncia la scomparsa di John Ford. Ambiziosamente Wenders cerca di divenirne l’erede, anche se i suoi tre road movie, dopo Alice, Falsche Bewegung (Falso movimento, 1975) e Im Lauf der Zeit (Nel corso del tempo, 1975-76), si sviluppano su strade tedesche. Verrebbe da applicare in versione tedesca la celebre frase di Cesare Pavese relativa alla letteratura italiana del ventennio fascista in istintivo dissenso nei confronti del regime: Wenders cerca la Germania ispirandosi a modelli americani.
Poi Wenders, a furia di «Palme» e di «Leoni» d’oro, è divenuto un monumento del cinema internazionale, ha pendolato tra l’Europa e l’America, senza mai smarrire però i suoi principi di partenza. La musica dei suoi film è rimasta una ineguagliabile produttrice di senso: la chitarra di Ry Cooder in Paris, Texas (1984); lo Sprechgesang di Der Himmel uber Berlin (Il cielo sopra Berlino, 1987), che unisce in maniera armoniosa il testo di Peter Handke alle note di Jürgen Knieper; da ultimo il gruppo Madredeus che illumina le immagini di Lisbon Story (1995), un film in cui la nostalgia di Wenders cerca di recuperare l’innocenza del cinema primitivo.
WOO JOHN nato Wu Yu-sen
(Canton, Cina, 1.5.1946)
Non abbiamo sottomano dichiarazioni del regista di Hong Kong sulla parte che la musica riveste nei suoi film, né sappiamo se lui ne ha mai parlato.
Tuttavia non possiamo non aprire una finestrella su questo esimio rappresentante di una cinematografia pressoché sconosciuta in Italia, se non attraverso l’ondata di film sulle arti marziali che imperversò sui nostri schermi all’inizio degli anni Settanta. Il titolo di riferimento resta al momento quello di Dae Shir Sheung Hsiung (The Killer), film-culto del 1989, reperibile da noi solo in video cassetta Mondadori. Ebbene, vedendo questo film che fonde mirabilmente il mélo e il noir, si comprenderà perché ne sia rimasto folgorato un cineasta come Martin Scorsese.
Il «moto perpetuo» che contraddistingue il musical score degli ultimi film del regista italoamericano ha un immediato precedente in The Killer, dove la partitura di certo Lowell Lowe (poco o nulla si sa ancora sui collaboratori artistici e tecnici del cinema di Hong Kong, di solito celati dietro pseudonimi anglosassoni) si diffonde lungo tutto l’arco delle sequenze, dettando loro ritmo e senso. Scorsese si è adoperato perché Woo si trasferisse in America, dove Hollywood gli sta facendo ponti d’oro, mentre lui, pur mantenendo il proprio virtuosismo tecnico, perde a poco a poco la propria identità culturale. Il suo cinema, infatti, era «impuro», ma quanto mai legato al proprio ambiente.
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*Callisto Cosulich (Trieste, 7 luglio 1922 – Roma, 6 giugno 2015)
È stato uno dei più attenti osservatori del cinema mondiale. Nel corso della sua vita di critico cinematografico (come dimostra la sua pluriennale collaborazione alla rivista Amadeus) ha posto particolare attenzione alle colonne sonore dei film.