di Gaetano Santangelo

        L’assonanza tra le parole reflex e riflettere giustifica la scelta del nome di questa rubrica che ho tenuto su Amadeus dal febbraio 2015 al dicembre 2019 quando il mensile, nato nel dicembre 1989, compiva trent’anni.

    La rubrica “Note d’arte” e vari articoli, che hanno come oggetto le complesse relazioni che intercorrono fra musica e arti figurative (pittura, scultura, architettura), inducono a qualche riflessione. Se il pittore ha sempre come fonte d’ispirazione la realtà che lo circonda (anche quando il risultato finale è lontanissimo dal modello: figure umane, animali, paesaggi, oggetti), quali sono le fonti di ispirazione di chi compone musica?
Secondo le convenzioni della cultura occidentale il compositore dispone di una gamma di dodici suoni che sono la materia prima della sua tavolozza. Mescolandoli sapientemente (armonia), mettendoli uno accanto all’altro (melodia), indicandone l’intensità (dinamica) e la velocità d’esecuzione (agogica), scrive la sua opera, fornendo una gamma di ulteriori informazioni (strumentazione, ritmo, accenti, pause) che ne consentono la lettura. Il pittore, con i colori della sua tavolozza, fa altrettanto e, completato il dipinto, mette la parola fine con la firma.
La differenza è evidente: il quadro è lì, pronto per essere ammirato, incorniciato, a disposizione di chiunque voglia ammirarlo o criticarlo; la musica necessita di un ulteriore non trascurabile momento: l’esecuzione. Tra il compositore e l’ascoltatore si pone una terza figura: l’interprete. Ma non finisce qui, oggi c’è un ulteriore ineludibile passaggio: la registrazione, che con il disco in vinile, il cd o qualsiasi altra memoria digitale diventa un multiplo dell’opera. È a questo punto che possiamo mettere la parola fine alla composizione? Possiamo ritenere che il disco (con il continuo perfezionarsi della tecnologia) sia diventato il traguardo che equivale, in un certo senso, al quadro finito? Per l’interprete è un modo di consegnare ai posteri la sua visione della musica che esegue. Ma quanti e quali dubbi ancora ci assalgono se lo stesso interprete ricomincerebbe tutto daccapo? È comunque certo che all’interprete attribuiamo oneri e onori perché egli può finalmente porre la parola fine (provvisoria finché si vuole) alla composizione, leggendo quei segni che in tempi magari lontanissimi sono stati messi sulla carta e che tutti noi chiamiamo musica, ma musica ancora non sono.

(Amadeus n. 326–gennaio 2017)