In occasione dl decennale della morte di Claudio Abbado, avvenuta a Bologna il 20 gennaio del 2014, iniziamo la pubblicazione di tutti gli articoli dedicati da Amadeus al grande direttore d’orchestra, protagonista della vita musicale del Novecento e di questo primo scorcio del nuovo secolo.
È stato inevitabile che, fin dal primo numero, la nostra attenzione fosse rivolta al Maestro da poco eletto a una delle cariche più prestigiose: quella di direttore dei Berliner Philharmoniker.

(Speciale Amadeus Rossini: Il viaggio a Reims, marzo 1992)

Un viaggio nel tempo

Claudio Abbado, Luca Ronconi, e Gae Aulenti:un direttore d’orchestra, un regista
e un architetto scenografo che hanno saputo creare uno spettacolo unico
presentato per la prima volta al Rossini Opera Festival nel 1984,
poi a Milano e a Vienna e, quest’anno, in febbraio, a Ferrara e in estate a Pesaro.

di Marina Rovera

Una irriducibile tendenza al riserbo, una predilezione per il fare e il pensare piuttosto che per il parlare, una resistenza cortese, ma non per questo meno categorica, a manifestare emozioni e sentimenti privati fanno di Claudio Abbado un personaggio non facile sul percorso di un intervistatore. Di tempo a disposizione Abbado poi ne ha poco ed è quasi inevitabile inseguirlo in variegati spostamenti.
Eppure è proprio il tempo uno dei materiali su cui egli opera con maggiore intensità: nell’impostazione e nell’evoluzione di un progetto si esprime infatti molta parte della sua filosofia musicale. Da un lato il recupero delle versioni originali e di certi passaggi e battute smarriti nelle esecuzioni tradizionali, dall’altro una determinata proiezione nel futuro. Per esempio, la creazione del Wien Modern, una specie di laboratorio che riguarda non solo la musica, ma la pittura, la scultura, la letteratura, il teatro nelle espressioni più significative del nostro tempo. O ancora l’ideazione di alcuni cicli sinfonici, da realizzare con i Berliner Philharmoniker, che sotto il segno di un mito o di un autore letterario (Prometeo, Faust, Hölderlin) permettono una ampia escursione musicale nel tempo, dalla fine del ‘700 a oggi, sul filo conduttore di uno stesso motivo di ispirazione.
Il ritorno di Abbado in Italia, con le rappresentazioni del Viaggio a Reims, in febbraio e in agosto, rispettivamente a Ferrara e a Pesaro, con la grande festa di canto il 28 febbraio e con una nuova registrazione del Barbiere di Siviglia, ancora a Ferrara, è decisamente rossiniano. Ed è un ritorno che sembra ricondurre a quella tematica del tempo (e della sensibilità ai suoi mutamenti) perché inevitabilmente sollecita una domanda sull’itinerario rossiniano di questo direttore, in più di vent’anni di cristalline ed esaltanti interpretazioni: Barbiere di Siviglia, Cenerentola, Italiana in Algeri.
Dalla prima rappresentazione del Barbiere di Siviglia, nella revisione critica di Alberto Zedda a Salisburgo nel 1969 – che aveva dato un forte impulso alla Rossini Renaissance – molti atteggiamenti nei confronti delle esecuzioni del pesarese sono cambiati. Il mondo musicale di Rossini, dalla fine degli anni Sessanta, è stato sempre più studiato e perlustrato in molti suoi spazi, con un fervore sorretto dal metodo e con un rigore consapevole della geniale libertà del compositore. I risultati raggiunti dalla Fondazione Rossini sono evidenti: non solo revisioni accuratissime di opere conosciute e sconosciute, ma anche scoperte, ritrovamenti talvolta fortunosi, che hanno maggiormente rivelato quanto inquieto, dinamico, imprevedibile, ricco fosse quel mondo.
La ripresa del Viaggio a Reims a Ferrara offre quindi lo spunto per ripercorrere liberamente il viaggio rossiniano di Abbado. Oggi a quasi otto anni dalla clamorosa rivelazione dell’opera a Pesaro, il direttore racconta quell’esperienza come una straordinaria miscela di sensazioni: gusto dell’avventura, scoperta, sorpresa. «Per la prima lettura dell’opera non avevo avuto la partitura completa. I pezzi, nella revisione critica di Janet Johnson, mi arrivavano un po’ per volta e man mano che li leggevo mi sembravano sempre più interessanti. Ma da questo primo frammentario incontro non era facile pensare che quelli fossero i tasselli di un vero capolavoro.
Solo dopo le prime prove si è rivelata la totale felicità dell’opera. Partivamo tutti a occhi chiusi, senza possibilità di rifermenti: non si trattava solo di un’operazione di recupero di un’opera per un’occasione celebrativa, ma di una scoperta con tutte le incognite che si trovano di solito sul percorso delle prime esecuzioni.
     L’esperienza di lavoro con opere di autori contemporanei, dirette in prima esecuzione, è stata per me un sostegno importantissimo. Come altrettanto importante per la riuscita dello spettacolo è stata l’armonia che si era subito instaurata tra coloro che partecipavano al Viaggio, un cast eccezionale con diciotto cantanti di cui dieci protagonisti. Tutti credevamo nell’opera e nella sua genialità. Ma dire armonia forse non basta. Già durante le prove in palcoscenico era scattato un vero e proprio divertimento – artefice Rossini – che poi si era diffuso per contagio nel pubblico»
Dalla partitura dell’esecuzione: il percorso talvolta si è sviluppato in modo particolare?
«Prendiamo come esempio l’aria di Sidney che Rossini ha poi utilizzato nel Conte Ory aggiungendo alcune variazioni sia nella parte del canto sia in quella del flauto. Per il Viaggio ho rireso allora le variazioni che Rossini stesso aveva scritto in seguito. Naturalmente qualcuno potrà obiettare “queste non fanno parte della partitura del Viaggio“. Ma a quei tempi si usava variare le riprese. Quelle aggiunte mi sembrano corrette perché sono opera di Rossini stesso. Non ho fatto quindi che attenermi allo spirito dell’epoca. Poi ci sono dei piccoli divertimenti: quando il barone di Trombonok nomina i grandi compositori tedeschi: La sincope sì, sì fa molto effetto / Mozart, Haydn, Beethoven, Bach ne trassero / Un gran partito mi è sembrato logico, anche per facilitare la comprensione del pubblico, citare dei quattro grandi compositori piccoli esempi che si riferissero a delle sincopi musicali».
E allora d’accordo con le attuali posizioni dei musicologi che chiamano «autentiche», non «arbitrarie», le versioni di mano dell’autore, per distinguerle da quelle che sono andate maturando al di fuori del suo controllo diretto o indiretto? E che inoltre sostengono che l’interprete deve poter scegliere fra le lezioni legittime quella più adatta alle caratteristiche dello spettacolo che intende realizzare?
«Per le prime rappresentazioni con la revisione critica, alla fine degli anni Sessanta, era stato adottato un rigore assoluto perché bisognava riportare le esecuzioni, fino ad allora contaminate da arbitrari cambiamenti, al maggior rispetto possibile della partitura. Operazione difficile perché nella prima parte dell’Ottocento una partitura d’opera lirica non sempre era concepita come documento definitivo. Moltissimi erano i condizionamenti nel lavoro degli operisti italiani».
Quel rigore si è ora attenuato?
«Sì, certo. I tempi sono cambiati. L’approfondimento smussa certi rigori e porta ad avvicinarsi maggiormente allo spirito di un autore e della sua epoca. Un esempio: il Barbiere di Siviglia. Per quest’opera rappresentatissima, quindi forse la più contaminata dalle modifiche introdotte per il capriccio dei cantanti o per il parere degli impresari ottocenteschi, era stata necessaria quella radicale operazione di revisione per togliere incrostazioni arbitrarie di anni e anni.
Alberto Zedda ha fatto un lavoro magnifico. Tutto quello che era stato aggiunto nel periodo romantico, sia nella parte strumentale sia in quella vocale, aveva trasformato il Barbiere in un’opera che ben poco aveva a che fare con il tempo e con lo spirito in cui era stata concepita. Ma all’inizio il rigore era stato persino eccessivo come può succedere all’avvio di un nuovo corso. In seguito, quando ho ripreso il Barbiere ho cercato di avvicinarmi maggiormente alle esecuzioni del tempo di Rossini e sempre nel rispetto della partitura, a quella sua capacità d’invenzione talmente inesauribile da coinvolgere anche i suoi interpreti. Ai suoi tempi, si è detto prima, si facevano con l’intervento dell’autore o con la sua supervisione abbellimenti e fioriture. Aggiunte autentiche. Il ritrovamento di arie aggiunte, apportate da Rossini stesso in occasione di esecuzioni con interpreti a lui contemporanei, mi aveva convinto ad adottarle. Oggi farei anche di più».

Claudio Abbado con Luca Ronconi durante l’allestimento dell’opera.

Quel «farei di più» va inteso come «farò»? La risposta la conosceremo probabilmente nel 1993 quando uscirà la nuova registrazione del Barbiere di Siviglia avvenuta a Ferrara, sempre per la Deutsche Grammophon. La prima, datata 1971, è in ogni modo rimasta un punto di riferimento. Per ora si sa che Figaro sarà Placido Domingo e Rosina Kathleen Battle, ossia un soprano invece di un mezzo soprano, una consuetudine del resto frequente nell’Ottocento (altri interpreti: Basilio Ruggero Raimondi, il Conte d’Almaviva Frank Lopardo, Bartolo Lucio Gallo, Berta Gabriele Sima).
Il ritrovamento di un’aria ha infatti convinto Abbado ad accettare una voce diversa da quella originale. Si tratta dell’aria Ah, se è vero che in tal momento che, pare proprio, Rossini scrisse per assecondare la richiesta di Josephine Fodor Mainvielle un giovane soprano all’inizio di una breve ma gloriosa carriera. L’autografo non è stato ancora trovato ma l’ipotesi di autenticità, avanzata da Philip Gossett, è molto fondata. Le prove? Non mancherebbero: la coincidenza della prima esecuzione dell’aria da parte di Rosina-Fodor a Venezia e del soggiorno di Rossini in quella città per preparare Edoardo e Cristina (1818), l’assoluta pertinenza dell’aria alla situazione drammatica del II atto, inoltre la riconosciuta esistenza di un’amicizia tra Rossini e la cantante.
Non resta che chiedere ad Abbado se dopo Il Barbiere, La Cenerentola, L’Italiana in Algeri – capisaldi della Rossini Renaissance – intende affrontare un altro Rossini buffo come il Turco in Italia. Oppure un Rossini serio come il Guglielmo Tell. «Non credo. Sto pensando alla Messa di Gloria e allo Stabat Mater e noi tutti del “Viaggio” dopo Ferrara ritorneremo al Festival di Pesaro, dove lo spettacolo è nato. Quindi in ottobre a Berlino è in programma una registrazione video del Viaggio. (Per la Sony Classical). In forma di semi stage. Questa volta con i Berliner Philharmoniker».
Così il Viaggio a Reims, che nel libretto è un viaggio vanificato, aggiungerà dopo Pesaro, Milano, Vienna, Tokyo una nuova tappa al suo successo tardivo ma travolgente.