In occasione dl decennale della morte di Claudio Abbado, avvenuta a Bologna il 20 gennaio del 2014, iniziamo la pubblicazione di tutti gli articoli dedicati da Amadeus al grande direttore d’orchestra, protagonista della vita musicale del Novecento e di questo primo scorcio del nuovo secolo.
È stato inevitabile che, fin dal primo numero, la nostra attenzione fosse rivolta al Maestro da poco eletto a una delle cariche più prestigiose: quella di direttore dei Berliner Philharmoniker.
A parlarcene è un testimone di prestigio come Klaus Geitel, che racconta i retroscena dell’elezione di Abbado a capo dei Berliner.

(dicembre 1989 – Amadeus n. 1)

Claudio Abbado ha raccolto l’eredità di Karajan

La nomina del direttore italiano ha sovvertito tutte le previsioni della vigilia,
in quanto si pensava che i professori berlinesi avrebbero 
preferito una collaborazione
senza grossi vincoli e con un numero
possibilmente alto di esibizioni di grande spicco.
Così non è stato e la fragorosa ovazione che ha salutato la nuova elezione è stata
come un applauso che l’orchestra
 ha voluto rivolgere a se stessa.
Questa volta non si è verificata
alcuna imposizione esterna.

di Kluas Geitel

        A Berlino, in un luogo e ad un’ora tenuti segreti – come i congiurati di un’opera verdiana, i «Berliner Philharmoniker» hanno eletto il loro nuovo capo, il successore di Herbert von Karajan. Non vi era nulla di prestabilito, ad eccezione del fatto che l’homo novus non avrebbe ricevuto un contratto pari a quello di Karajan: ovvero un contratto a vita. Si parlava dai cinque ai sette anni.
Per i candidati, nessuno dei quali si era presentato ufficialmente, in via confidenziale, si facevano i nomi di Lorin Maazel e Daniel Barenboim, di Riccardo Muti e Christoph von Dohnànyi, di Seiji Ozawa, e di Bernard Haitink, Carlos Kleiber e Claudio Abbado. Quattro giorni prima della nomina, il settimanale «Der Stern», con una penna autorevole, secondo quel che si dice, presentava nuovamente ai lettori tutta la rosa dei candidati, eccezion fatta per Abbado: senza tanti complimenti questi era stato dimenticato.
Ma proprio Abbado, proprio l’outsider che, al contrario di altri direttori, non si era spinto per niente verso il crogiolo filarmonico di Berlino, è emerso vincitore, tra l’esultanza dei membri dell’orchestra. Dopo un dibattito di sei ore ed il conteggio dei voti, veniva reso noto il suo nome e l’orchestra esplodeva in un’ovazione unanime: applaudiva se stessa. Era consapevole di avere scelto l’uomo giusto nel momento giusto.

Un secolare diritto
            Il diritto a nominare il proprio direttore appartiene all’orchestra sin dalla fondazione, che risale a 107 anni fa, ma mai fino ad oggi era stato esercitato in maniera democratica, sotto la propria responsabilità. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che nella lunga storia dell’orchestra berlinese solo quattro furono i direttori stabili e che tutti furono imposti all’orchestra dall’esterno.
Con loro l’orchestra ha navigato in ottime acque, come del resto è assai facile da dimostrare: il primo e il secondo, Hans von Bülow e Arthur Nikisch, erano stati trovati per l’orchestra da Hermann Wolff, il campione mondiale degli impresari. La vedova di questi, detta «regina» Louise, aveva messo a disposizione dei «Berliner» Wilhelm Furtwängler. Alla morte di Furtwängler, Karajan fece sapere – quasi come un angelo salvatore per l’orchestra – che avrebbe accettato la prima consistente tournée americana, che era già stata pianificata per Furtwängler, ma ad una condizione: diventare il successore a vita di Furtwängler. Ci si piegò a questa pressione. Karajan salì sul trono dei «Philharmoniker» e lo tenne occupato per quasi trentaquattro anni: un vanto per Berlino.

Forte riserva di spontaneità
             A lungo si temeva che i «Philharmoniker», che da un lato si autogestiscono e dall’altro sono totalmente sovvenzionati dalla città, non si sarebbero dati molto da fare per andare sotto la dura disciplina di un nuovo direttore stabile. Si pensava che l’orchestra avrebbe preferito una collaborazione senza grossi vincoli, con un numero possibilmente alto di direttori di prestigio e, di pari passo, una produzione discografica con ognuno di essi.
Del resto, con Karajan avevano raggiunto un primato mondiale tra le orchestre «discografiche»; ne conseguiva un’aggiunta solida alle entrate mensili: nessuno sarebbe stato disposto a una rinuncia. Quindi, non è stato neanche tanto il prestigio discografico che ha portato alla nomina a sorpresa di Abbado, bensì il concerto di apertura delle Berliner Festwochen, con la sua direzione il 5 di settembre.
Il motivo che fino ad allora aveva attenuato l’entusiasmo dei «Berliner Philharmoniker» nei confronti di Abbado consisteva, secondo talune voci, nelle prove poco limpide e noiose. Evidentemente, Abbado non era interessato a presentare quelli che sarebbero stati i concerti serali in un’esecuzione musicalmente trascinante, già nell’occasione delle prove antimeridiane, di fronte a una platea vuota.
Egli si conservava una forte riserva di spontaneità per la serata e durante questo concerto delle Festwochen – con la prima sinfonia di Johannes Brahms e il concerto per pianoforte di Schumann (solista Maurizio Pollini) – la differenza tra il peso delle prove e il successo nell’esecuzione si era rivelata di tale esemplarità che Abbado evidentemente ha conquistato tutta l’orchestra dalla sua parte.
Venne dimenticato che Barenboim, Maazel, Levine e Ozawa avevano ripetutamente salvato l’orchestra dalle difficoltà verificatesi negli ultimi tempi, allorché Karajan, per ragioni di salute, doveva disdire concerti e tournée, oppure quando, in segreto, si erano tenuti a disposizione per poter prendere in mano la bacchetta direttoriale, nei casi di emergenza.
Un’ora dopo la votazione, l’orchestra ha accolto con entusiasmo la stampa per render noto, tra grandi applausi, il risultato del voto. Un’ora più tardi si alzava il sipario della «Deutsche Oper Berlin» per la prima di Arabella di Richard Strauss, sotto la direzione di Giuseppe Sinopoli.

Come una vera bomba
            Come una miccia, scorreva nel­ la platea e nei palchi la voce della nomina di Abbado nella Berlino musicale. A fatica, i membri della «Deutsche Grammophon Gesellschaft» nascondevano sentimenti di gioia e di soddisfazione per tale scelta. Del resto, da ben due decenni Abbado è nella loro «scuderia».
Averlo ora alla guida dell’orchestra dei «Berliner Philharmoniker», almeno in un primo momento, ha fatto quasi arrossire di vergogna l’etichetta gialla della casa discografica. A così tanta fortuna nessuno al1’interno della società, infatti, aveva pensato.
Durante il ricevimento, dopo l’opera, gli ospiti acclamavano Sinopoli e Abbado con un evviva congiunto. Due italiani alla guida di due delle più importanti istituzioni culturali berlinesi: qualcuno, forse, potrà aver avuto l’impressione che Dante avesse detronizzato Goethe.

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Il gusto per la novità

di Mario Pasi

            Claudio Abbado ha 56 anni, è milanese (il suo riserbo gli verrebbe, comunque, da parziali ascendenze siciliane), è nato in una famiglia di musicisti: la sua biografia è ricca di date, avvenimenti, progetti, la sua vita è un modello di operosità. Ovvero, incarichi, dischi, concerti, opere, viaggi. Tutto questo è normale, quando si è fra i «primi nel mondo».
Abbado, come del resto il suo collega e amico Pollini, ha una dote in più rispetto ai Maestri del podio più amati: quella del coraggio e dello spirito avventuroso. Egli non ha mai esitato ad assumersi i rischi delle novità, delle collaborazioni più ardite. Dirige i contemporanei, lavora con i registi più avanzati, a Vienna ha dato anche spazio ai «moderni».
È anche un lettore attento della musica. La Scala di Milano gli deve alcuni anni imperiosamente belli. La musica italiana, viva nelle idee e così maltrattata dall’alto, è premiata da questa ascesa all’Olimpo dei «Berliner».