di Rubens Tedeschi
(Pubblicato sul n. 125 di Amadeus, aprile 2000)
Con Stravinskij, inimmaginabile fuori del Novecento, e con Prokof’ev,
precoce e inattuale, la corrente del teatro musicale
travolge tutti gli argini, storici o fittizi
Nel 1882 nasce Igor Stravinskij, nel 1891 Sergej Prokof ‘ev. Passati dall’insegnamento di Rimskij-Korsakov alla tutela di Djagilev, danno al teatro del Novecento alcuni tra i più originali capolavori. Nuovi i frutti e nuovi i tempi. Sul terreno accidentato del nostro secolo, il fiume dell’opera russa si trasforma – al pari della poesia o della pittura – in un torrente che travolge gli argini, storici o fittizi. Nell’epocale rinnovamento, i Dioscuri dell’Est, eredi di «un’arte libera da convenzioni e da aridi schemi» (individuata da Debussy in Musorgskij), approdano come moderni Sadko a lontane spiagge. Uno solo tornerà in patria, attratto dal miraggio di un mondo ormai scomparso. Stravinskij non cede alla nostalgia: porta la Russia con sé per imporla all’Occidente dove sbarca nel 1909 obbedendo al richiamo di Djagilev.
Nella borsa ha il primo atto dell’Usignolo. Iniziata l’anno precedente a Ustilug, l’opera verrà completata nel 1914 in Svizzera, per venir rappresentata, il 26 maggio, all’Opera di Parigi assieme al Gallo d’ Oro di Rimskij. L’accoppiamento, ideato dal fantasioso impresario, sottolinea le affinità tra i due lavori: la fiaba ambientata alla corte di un mitico imperatore, l’uccello meccanico come simbolo negativo e, soprattutto, il prezioso decorativismo musicale. I legami sono palesi, ma non è meno significativo lo stacco: in Stravinskij, geniale allievo, la tagliente luminosità dell’ultimo Rimskij viene immersa in un bagno corrosivo. Il procedimento, condotto con intellettuale rigore, porta a fondo la crudele lacerazione del secolo e annuncia il prossimo «obiettivismo».
I parigini che, dopo il Sacre, attendevano un rumoroso scandalo, rimangono sconcertati. Stravinskij li precede dichiarando (in un’intervista londinese) la sua sfiducia nel teatro lirico che, accoppiando la musica al gesto e alla parola, si renderebbe colpevole di bigamia. Spiazzare gli spettatori fa parte della sua tecnica di autopromozione, ma è significativo che, accogliendo il suggerimento di Djagilev, si affretti a travasare la musica dell’Usignolo in un balletto. È lecito chiedersi fino a che punto Stravinskij subisca l’influenza di Djagilev, convinto che il balletto sia lo spettacolo del futuro e l’opera un genere morto. La risposta viene da Renard e da Mavra: opere (o antiopere) concentrate in una ventina di minuti ciascuna, nate da opposte provocazioni: mentre scuoia il melodramma assieme alla volpe, l’artista iconoclasta incontra ufficialmente il tardoromantico Cajkovskij nella casetta di Kolomna! Più tardi Stravinskij confermerà che la dedica a Cajkovskij, Glinka e Puskin era «anche un gesto propagandistico» diretto a svelare «i piccoli trucchi del pittoresco». Con questa mezza verità il prestigiatore rimescola le carte: rifiuta il pittoresco esotico a cui il pubblico, sedotto da Petruska e dal Sacre, vorrebbe inchiodarlo, e, con la stessa mano, dissacra ilgigantismo wagneriano e gli abbandoni lirici italiani (ma anche eajkovskiani). Secondo i dettami dell’oggi scarnifica e macina i residui del passato, collocandosi però sempre un passo avanti sulla strada del domani.
Contro il verismo
Su questa via, lo schermo linguistico del latino, lingua morta, corrisponde alla cecità di Edipo, in capace di vedere ciò che sta sotto i suoi occhi. Ancora un simbolo della guerra ininterrotta contro la menzogna artistica culminante nella volgarità del verismo musicale. «J’abhor verismo», proclama e, opponendo all’agitazione melodrammatica l’immobilità dell’opera-oratorio, seppellisce l’enfasi retorica sotto la parodia barocca. Offerto a Djagilev per i vent’anni della sua attività teatrale, l’Oedipus Rex parve un «cadeau très macabre» al festeggiato che si limitò a presentarlo (il 30 maggio 1927) in forma di concerto. Restarono delusi i parigini, incapaci di cogliere nel sontuoso pastiche l’incisività della sostanza musicale. Sette anni dopo, la reazione antiromantica del russo, approdata alla scarnificazione di Perséphone, si affloscerà nell’indifferenza degli spettatori.
Soltanto nel 1951, a Venezia, il musicista tornerà al teatro con La Carriera del Libertino. Passato dall’idioma natio al latino e al francese, trasferisce nella lingua di Purcell la pessimistica morale delle opere precedenti. L’antieroe Tom Rakewell e il malefico Shadow, l’Ombra, ritrovano i ruoli della vittima e del suo Demone. Come sempre, nel mondo stravinskiano imbevuto di umori moscoviti, il debole è votato alla sconfitta. Trent’anni dopo l’Histoire, Tom ripercorre puntualmente la parabola del soldato: consegna l’anima al diavolo, cede alla tentazione dell’oro, si riscatta nella partita a carte perdendo però ragione e libertà. Con lui Stravinskij, il libertino nostro contemporaneo, ripercorre le tappe della propria vita artistica. Ponendosi sotto il segno di Mozart, vuole restituire alla musica la funzione teorizzata nelle Cronache: «stabilire un ordine alle cose, ivi compreso e soprattutto, un ordine tra l’uomo e il tempo». Il proprio tempo votato al caos, che il gran russo, alle soglie degli ottant’anni, si prova a organizzare nell’ordine dodecafonico del Diluvio: ultima opera, destinata nel 1961 alla televisione, strumento nuovo per un’arte costantemente impegnata a rinnovarsi. Creatore di mode, pronto ad abbandonarle appena si diffondono, Stravinskij come Picasso, è inimmaginabile fuori del nostro secolo.
Al contrario, il più giovane Prokof ‘ev è l’inattuale: un musicista pure che, in un’epoca di battaglie teoriche, di schieramenti contrapposti, non appartiene ad alcuna scuola. Non pubblica manifesti né aderisce a conventicole. La musica è il suo naturale linguaggio: la sua forza, mutata in debolezza ogniqualvolta si troverà a parlare ai sordi. Non è un piccolo svantaggio per un musicista votato al teatro sin dall’infanzia. A nove anni si cimenta già ne tre atti del Gigante: storia infantile di un orco famelico, di una bella bambina e un eroe liberatore (Sergej in persona), intrisa di episodi lirici, arie «terrificanti» ed esplosioni in fortissimo con quattro effe.
La mamma, sua prima insegnante, vorrebbe ridurle a due; l’autore in lacrime strappa il primo compromesso della vita: tre effe.
Dopo la puerizia, l’adolescenza: L‘Ondina, composto tra il 1905 e il 1907, entra nel bagaglio con cui il candidato si presenta all’ammissione nel Conservatorio. Il felice inizio è seguito da una delusione: la bocciatura della veneziana Maddalena (amore rinascimentale a tre, con morte in duello dei due rivali), presentata come saggio di studio nel 1911, e offerta tre anni dopo a Djagilev che dirotta il promettente apprendista sulla strada del balletto. Lungimirante direttiva: sarà la danza ad assicurare le maggiori soddisfazioni al musicista, sebbene questi – come l’ammirato Cajkovskij -continui a riporre le sue speranze nell ‘opera.
Da Djagilev, però, non si può sfuggire: il suo avanguardismo influenza, oltre al balletto Il buffone, la partitura del Giocatore, dominata dalla corsa vertiginosa della roulette. Troppo veloce per i cantanti e gli strumentisti del Mariinskij, bloccata assieme allo Zar dalla rivoluzione, l’opera andrà in scena soltanto dodici anni dopo, nel 1929, a Bruxelles. Lasciata la Russia in preda al caos, Prokof’ev cerca fortuna all’estero. Dal pellegrinaggio, iniziato nel maggio del 1918, ricaverà controversa fama, soprattutto come «pianista dalle dita d’ acciaio» e compositore di balletti, ma non la pace che, una quindicina d ‘anni dopo, tornerà a cercare in patria. Sin dall’inizio, l’inattuale si accorge che «la giovane America non è abbastanza matura per apprezzare la mia musica giovane». Al contrario, la vecchia Europa, dilaniata da ismi di segno opposto, trova sin troppo matura la sua giovanile indipendenza. Ancor più illusorio si rivelerà il miraggio di una Russia dove l’unità rivoluzionaria della vita e dell’arte, promossa da Lunacarskij, è stata cancellata dall’involuzione del regime
Prokof’ev tra alti e bassi
È fatale che il musicista, tra gli alti e bassi della ricca produzione, incontri i maggiori ostacoli sul terreno dell’opera, dominato in ogni tempo e luogo dalle consorterie più viziate. In Occidente, dopo L’Amore delle tre melarance, applaudite il 30 dicembre 1921 a Chicago, fischiate a New York ma destinate a una popolarità mondiale, Prokof’ev non trova un teatro disposto a rappresentare L’Angelo di fuoco. Il capolavoro del simbolismo russo, venato di sottile ironia, dovrà attendere sino al 1955 la postuma rivelazione alla Fenice di Venezia.
Possiamo chiedere sino a qual punto la delusione abbia determinato il suo ritorno nell’Unione Sovietica dove cerca la rivincita con quattro opere: soltanto due arriveranno, lui vivente, in scena e una sola con successo. Nel 1940, il patriottismo del Semën Kotko, il bravo soldato che, nei giorni della rivoluzione, sconfigge gli invasori tedeschi e i traditori locali, arriva nel momento meno propizio, quello del patto con Hitler e dell’arresto di Mejerhol’d che avrebbe dovuto curare la regia. Il giudizio è senza appello: inopportuno (per quanto manipolato) il libretto, e non abbastanza «eroica» la musica nonostante gli innesti folkloristici e l’abbondanza melodica. Il compromesso col «realismo socialista» fallisce, sia perché le concessioni stilistiche non sono mai sufficienti, sia perché il criterio «estetico» è sottomesso all’imprevedibile arbitrio politico. Col risultato, paradossale, che l’autore si trova tanto più esposto quando più si avvicina all’attualità. La rivincita, infatti, arriverà col ritorno, nel 1946, alla classica leggerezza del Matrimonio al Convento, accolto come una felice evasione dai lutti della guerra.
L’artista e il regime
Lo spiraglio si richiude tosto. Con la vittoria finisce l’illusoria comunione tra popolo e governanti. Abrogate le licenze concesse negli anni del pericolo, gli artisti sono richiamati all’ordine. Il grande affresco di Guerra e pace è stroncato dal nuovo giro di vite. Solo la prima parte viene presentata al pubblico (il 12 giugno 1946). La seconda, bocciata dagli invidiosi burocrati dell’Unione dei Compositori, resta inedita, nonostante gli umilianti aggiustamenti effettuati dall’autore. Il medesimo destino tocca alla Storia di un vero uomo con cui Prokof ‘ev, prossimo alla fine, tenterà ancora di emendarsi dai peccati di formalismo e modernismo. Cancellati dalle postume riabilitazioni, dimostrano, una volta di più, che il ragazzo delle tre effe, inattuale sempre, perde quando, a differenza di Stravinskij, cede alla tentazione di patteggiare.