di Callisto Cosulich

(Pubblicato sul n. 2 di Amadeus,gennaio 1990)

L’Adagetto della Quinta Sinfonia nel film «Morte a Venezia» di Visconti.
Si è scritto e fantasticato molto attorno alla scelta del motivo musicale
per la colonna sonora del film tratto dalla novella di Thomas Mann: è certo che non fu premeditata.
Si trattò comunque
di un risultato felice per il film, ormai inconcepibile
senza quell’accompagnamento, che portò il suo autore, poco dopo l’uscita della pellicola,
in testa alla classifica delle vendite
dei dischi di «classica».

«Mare aperto. Esterno giorno. Un vecchio trabiccolo di nazionalità italiana, nero, antiquato, fuligginoso, naviga da Pola a Venezia. Il cielo è coperto, l’aria umida. Ogni traccia di terra è già scomparsa all ‘orizzonte nebbioso. Il mare è stagnante e grigio come un lago. Piove».
È la prima scena di Morte a Venezia, descritta nella sceneggiatura letteraria di Luchino Visconti e Nicola Badalucco.
Vedendo il film, si constata che la cinepresa l’ha rispettata. Vi sono stati inclusi i titoli di testa e aggiunte le note dell’Adagetto della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler, che si risentiranno in altri quattro momenti a guisa di Leitmotiv. Si è scritto molto su questa scelta, risulta felice sia per il film, ormai inconcepibile senza quell’accompagnamento musicale, che per l’Adagetto stesso, visto che Mahler, per circa un mese dopo l’uscita della pellicola, è rimasto in testa alla hit parade della musica sinfonica.
La domanda fu, perché Visconti avesse scelto proprio l’Adagetto della Quinta di µahler e non altri temi del vasto repertorio sinfonico del musicista o, meglio ancora, uno dei Kindertotenlieder, per quel tanto di ferale premonizione che essi contengono. Come se la musica di Mahler – e, in particolare, l’Adagetto – potesse venire confusa con una qualsiasi musica «a soggetto»; come se l’Adagetto potesse essere scambiato per l’Ouverture 1812 di Ciaikovskij. In realtà collages del genere fra musica e cinema sono presso ché impossibili, poiché la musica «a soggetto» è già di per sé una prefigurazione della musica per film, il commento musicale per un film ipotetico, nel caso dell’Ouverture 1812 immaginato prim’ ancora della invenzione dei fratelli Lumière.
Vittorio Gelrnetti, in un colloquio presso l’Istituto di Storia del Cinema e dello Spettacolo dell’Università di Torino (riportato nel n. 234 della rivista Cinema Nuovo), indicava appunto nel «Ciaikovskij minore», quello delle ouvertures e del Capriccio italiano, uno dei padri virtuali della musica per film e citava ad esempio l’Ouverture 1812 con i suoi elementi extramusicali, quali la Marsigliese, le cannonate riprodotte dagli strumenti a percussione, la danza popolare russa inserita per il suo contenuto culturale intrinseco, senz’alcuna mediazione da parte del compositore.

Da sinistra a destra: Thomas Mann, Luchino Visconti e Gustav Mahler.

Del resto, la mancata premeditazione della scelta è stata affermata dallo stesso Luchino in una intervista apparsa nel volume su Morte a Venezia edito da Cappelli. «In partenza avevo molte idee e ipotesi – rivela il   regista –  e ho riesaminato molti ‘pezzi’ mahleriani. Anzi avevo già preparato altri brani e li avevo predisposti per un montaggio di prova sul visivo, per verificare come funzionassero. Ebbene il giorno in cui ho provato l ‘Adagetto della Quinta è stato subito evidente che combaciava a perfezione, come se fosse stato predisposto ad hoc, coincidendo con immagini, tagli, movimenti, ritmi interni. Anche il primo tempo della Decima… avrebbe funzionato in certi punti, ma l’Adagetto della Quinta è quello che ha funzionato meglio. Discorso non dissimile vale per i Kindertotenlieder che avevo in mente fin da prima delle riprese. Non si adattavano al visivo…».
Proprio l’avere scartato i Kindertotenlieder , che il  regista, come afferma, aveva in mente fin dalle riprese, taglia la testa al toro e, per giunta, ci dice che Visconti tendeva a separare nettamente il momento delle scelte musicali da quello della lavorazione sul set. In altri termini, egli preferiva subordinare il ritmo delle musiche a quello delle immagini e non viceversa, come hanno fatto, altri registi, anche fra i maggiori, sia nell’impiego di musiche preesistenti che in quello di partiture composte per l’occasione.

Un continuo inserirsi di fantasie
Valgano per tutti gli esempi dei western di Sergio Leone, dove gli attori erano obbligati a muoversi secondo i ritmi delle partiture precomposte da Ennio Morricone e dell’inizio di I sequestrati di Altana di Vittorio De Sica, montato seguendo il ritmo del terzo tempo della Undecima Sinfonia di Dimitri Sciostakòvic.
Tuttavia, se la scelta dell’Adagetto non è stata premeditata, l’utilizzazione delle musiche di Mahler apparteneva a un disegno da tempo covato, sempre rimandato, talvolta per motivi indipendenti dalla volontà del regista. «Io stesso sono dell’epoca di Mann, Proust, Mahler», aveva detto Visconti in una intervista rilasciata nel ’71 a Il Mondo, «Sono nato nel 1906 e il mondo che mi ha circondato, il mondo artistico, letterario, musicale, è quel mondo lì… non è un caso che mi ci senta accanto. Probabilmente ho anche dei ricordi visivi, figurativi, una specie di memoria involontaria che mi aiuta a ricostruire l’atmosfera di quell’epoca …».

Una scena del film con Silvana Mangano, Björn Andrésen e Dirk Bogarde.

Il fascino di Morte a Venezia consiste anche in questo: nell’inserirsi continuo di fantasie personali in un contesto rigorosamente oggettivo come quello del racconto di Thomas Mann; dove l’autore si era preoccupato di prendere tutte le distanze possibili dai suoi personaggi, usando quasi come pretesto per una drammatica interrogazione sul destino dell’arte.
Luchino, invece, finiva per identificarsi sia nel giovane Tadzio (mentre la madre del nordico efebo, impersonata da Silvana Mangano, gli sembrava una copia di donna Carla, la sua), che nel vecchio Aschenbach, la cui omosessualità si risolve anche in una implicita sfida alla cosiddetta morale borghese.
Si potrebbe ricostruire la parabola del cinema visconteo attraverso le sue successive scelte musicali. Vi troveremmo il filo rosso del melodramma presente dalle prime immagini di Ossessione (la romanza Di Provenza il mar, il suol… da La Traviata) alle ultime di L’innocente (Che farò senza Euridice di Gluck); l’uso saltuario, ma pertinente, della musica popolare; la musica tedesca, soprattutto del tardo postromanticismo (il Bruckner di Senso; il Mahler di Morte a Venezia).
L’approdo a questi musicisti era inevitabile e, in un certo senso, fa giustizia delle spiegazioni filologiche o semplicemente tecniche addotte dallo stesso Visconti: la figura di Mahler che avrebbe avuto una decisiva influenza sulla ispirazione della novella di Thomas Mann; l’avere sostituito lo scrittore della novella con un musicista, a evitare il fastidio della voce in off, espediente poco espressivo cui si ricorre per rappresentare il lavoro di un letterato. La ossessione che ha guidato tutta l’opera di Luchino, da Senso in poi, è quella che è stata definita lo «Spettacolo della morte»; morte come «fine di una cultura»: la sua e, di rimando, quella di Mann, Proust e Mahler, il mondo artistico che lo aveva formato.