(Pubblicato sul n. 11 di Amadeus, ottobre 1990)

Nel corso di una conferenza-stampa e di un seminario il compositore-direttore francese
ha parlato del proprio lavoro e della propria concezione della musica:
un’arte costantemente protesa verso nuove dimensioni espressive.

Oltre ai concerti e alle proiezioni di film e documentari, la settimana Boulez a Milano ha offerto la possibilità di un incontro con il grande musicista francese.
Come di consueto affabile e disponibile, durante la conferenza-stampa e nel seminario dedicato a Répons Boulez ha parlato del proprio lavoro: fra l’altro, delle esperienze compositive e direttoriali, di estetica, di una scrittura connessa alla più aggiornata tecnologia elettronica.

La ricerca dellIRCAM
Ovvero, Institut de Recherche et de Coordination Acoustique Musique: la sezione musicale del Centre Pompidou parigino, che Pierre Boulez dirige dal 1976. È il tempio per eccellenza della musica contemporanea, il laboratorio privilegiato di una sperimentazione che mira a coordinare organicamente la ricerca compositiva ai mezzi messi a disposizione dal progresso tecnologico.

Pierre Boulez presso l’IRCAM di Parigi.

La concezione che Boulez ha della musica è quella di un’arte insofferente di limiti e confini, protesa in una continua esplorazione e conquista di dimensioni espressive.
«I compositori hanno un’idea della tecnologia posta a servizio della musica, ma non possiedono, è ovvio, una competenza tecnica specifica. Ora, il rischio è che ci si ritiri a lavorare in un angolo, che ci si isoli. Il mio scopo all’IRCAM è di riunire alcuni compositori in un gruppo di scrittura, assicurando loro uno spazio di libertà; di raggiungere insomma una cooperazione, pur nella salvaguardia delle individualità. Dunque, formare un “gruppo di scrittura”: per comporre un’opera si deve pensare al modo di formularla, cioè alla scrittura. Cinque, sei autori discutono dapprima fra di loro, si confrontano sui problemi della scrittura per definire un progetto comune di collaborazione, non certo estetico, poiché ognuno ha la propria personalità artistica da rivendicare ciascuno però può portare un diverso punto di vista su un determinato aspetto e farne partecipi gli altri. Il gruppo distilla così una sintesi, che condurrà alla realizzazione di un vocabolario tecnologico. Per colmare il vuoto che separa la riflessione dalla tecnica, i compositori si incontrano quindi con i responsabili della ricerca, per uno scambio di idee che possa produrre risultati utilizzabili, ossia delineare il nutrimento musicale della tecnologia. Il dialogo fra i compositori -tra i quali, naturalmente, ci sono anch’io- e la comunità scientifica è perciò un dialogo di gruppi, commentato e preparato da indispensabili contatti individuali».

L’evoluzione del pensiero
Dagli esordi nell’immediato dopoguerra, sotto il segno della dodecafonia weberniana e degli insegnamenti di Messiaen, alla fase della serialità integrale, all’accostamento alle pratiche aleatorie, sino alla decantazione di un maturo e raffinato linguaggio personale: i primi quarantacinque anni di un percorso esaltante.

Pierre Boulez

«Il mio pensiero si è evoluto moltissimo. Dalla spontanea effervescenza degli anni giovanili sono passato all’esigenza di ricercare le basi di un lessico che fosse davvero personale, e di cercarle lontano. Per la mia scrittura, fu questo il momento che ho chiamato “grado zero”: ridimensionai il linguaggio, il vocabolario che avevo utilizzato fino ad allora, e composi opere concentrate, austere, imponendomi una disciplina tanto ferrea che non poté durare a lungo. Mi sentivo prigioniero della tecnica che andavo cercando; in simili condizioni non ci si può esprimere.
In seguito, la mia evoluzione è consistita nel trovare, attraverso una tecnica solida e sicura, la maggiore libertà possibile di espressione e di forma. E per ampliare il campo dei suoni, per trascenderne le frontiere stabilite, mi sono rivolto alle nuove tecnologie. Certo, ho continuato a scrivere musica puramente strumentale e vocale, ma conoscendone i limiti fisici e fisiologici, e sapendo – per averlo provato io stesso – che nell’uomo la percezione si spinge là dove l’azione, la manualità non possono arrivare. Il suono degli strumenti, ad esempio: nel registro acuto del violino non è possibile intonare micro-intervalli precisi; oppure, non è immaginabile un’arpa accordata per intervalli liberi, al di fuori del sistema temperato. Il limite fisico degli strumenti implica delle frontiere; la tecnologia consente di varcarle. Di uscire, poniamo, dal sistema temperato con mezzi semplici, rapidi, efficaci.

Pierre Boulez attorniato dalle apparecchiature dell’IRCAM di Parigi.

Per spiegare l ‘importanza del supporto tecnologico, vorrei soffermarmi su una distinzione che ritengo assai significativa. Una composizione puramente strumentale traccia uno schema formale – supponiamo da A a Z – che permette di seguire la musica dall’inizio alla fine; è una creazione soggettiva, concepita per essere compresa soggettivamente. Una partitura del genere, anche la più accurata e minuziosa, deve subire le deformazioni e l’arricchimento dell’interprete – o degli interpreti – La scrittura musicale è quantitativa (altezze, durate etc.); a essa l’esecutore- aggiunge il gesto, che vi è sì incluso, ma che non è esprimibile in termini quantitativi. I simboli della scrittura musicale rimangono così relativi, subordinati all’interpretazione; e questo è lo splendido lato soggettivo dell’evento musicale. Con la tecnologia, al contrario, si creano degli oggetti, dotati di automatismi e di una vita propria. Essi non sono costruiti per essere compresi punto per punto, in una continuità dall’inizio alla fine, ma per così dire, sporadicamente, di superficie in superficie; la dimensione di continuità si coglie in trasparenza, in una sorta di puntinismo. Le sovrapposizioni di periodi di varia lunghezza che agiscono e si trasformano sono come le nuvole che vediamo rincorrersi nel cielo. Le osserviamo con piacere, però, se non si è meteorologi, dopo un po’ ci annoiamo; guardiamo allora un’automobile che passa per la strada o qualcos’altro. Quando torniamo alle nuvole, esse hanno mutato conformazione, non senso; la loro forma ci è familiare, la percepiamo consequenziale rispetto alle precedenti. Credo che sia straordinaria questa opportunità che la musica contemporanea ha di associare e contrapporre, all’interno di una medesima opera – accade per esempio in Répons – la soggettività tradizionale implicita nell’atto compositivo – e percettivo – e l’oggettiva obiettività garantita dal mezzo tecnologico. Insomma, negli ultimi anni sono pervenuto a una visione quanto mai aperta, flessibile dell’opera d’arte, che abbracci differenti livelli di ascolto e dove si integrino tutti gli elementi: scrittura, spazio, percezione etc. Da qui l’urgenza di progettare strutture architettoniche adeguate, modulabili, affinché i compositori e le loro opere siano con la sala da concerto e non costretti dentro di essa».

L’opera musicale
Boulez interpreta l’opera musicale come sintesi fra una gestualità ampia, complessiva e una ricerca del particolare; un’interpretazione già introdotta dalla poetica, bellissima metafora delle nuvole.

Pierre Boulez al tavolo di composizione

«L’opera deve essere portata da un gesto musicale, comprensibile nella ripetizione, che coesiste accanto ad altri gesti. Quando Nietzsche criticava Wagner di essere un “maestro della miniatura”, ne tesseva, per me, un elogio. Il magistero di Wagner risiede proprio nella capacità di scendere ai più minuti dettagli in un gesto musicale e drammaturgico così largo.
E questo resta, a mio parere, la grande difficoltà e insieme lo scopo della composizione. Si parte da un presupposto che, nel corso del lavoro, si arricchisce e si modifica, talvolta sino a deviare lo stesso contesto in cui è nato; ecco il perché di una disciplina morbida, plasmabile, che eviti di irrigidirsi.
Mi capita spesso di ritornare sulle mie opere, di realizzarne più versioni; se nella bilancia del processo compositivo la conclusione non corrisponde più all’inizio, sento il bisogno di riprendere il gesto originario per conferirgli un’unità che non ha ricevuto. Del resto, è noto come nel XX secolo l ‘opera d’arte – non soltanto quella musicale – miri all’unicità; è un qualcosa di idiosincratico, inimitabile, che reca in sé le ragioni della propria fisionomia, e che dalle opere successive può essere sfruttata, tutt’al più, quale detonatore».

Elogio dell’amnesia
Prevedibilità, metamorfosi, giochi di illusionismo: la memoria nella creazione e nella percezione dellopera musicale.
«Per parafrasare René Char, la nostra biblioteca personale deve essere sempre in fiamme, bruciare come quella di Alessandria. Io aggiungo: deve anche rinascere dalle proprie ceneri. È una biblioteca-Fenice, che voglio: la memoria è in fiamme, ma non distrugge, assimila ciò che brucia. Mi fa paura l’accumulo di memoria che si risolve in mentalità archivistica, museale – una mentalità, purtroppo, piuttosto diffusa oggigiorno – la storia deve essere un trampolino, non un peso castrante. La scienza, per la quale gli archivi sono importanti ma non vitali, avanza inesorabilmente. Viceversa, nel campo delle arti non c’è un progresso intrinseco…
Il ruolo della memoria nell’opera d’arte è appassionante e complesso. Nella composizione come nell’ascolto, se ci si ricorda troppo facilmente ciò che è avvenuto prima, il prosieguo dell’opera sarà del tutto prevedibile, noioso. Se invece la memoria viene tempestata di stimoli sempre nuovi, dopo qualche tempo si stanca; e si verifica comunque una perdita d’interesse. L’autore deve trovare una soluzione fra questi due estremi, preoccuparsi di gettare, nel presente, un ponte fra passato e futuro: per esempio, ricorrendo di tanto in tanto alla categoria della prevedibilità in una tensione di sviluppo che obbliga la memoria a uno sforzo incessante. In una soluzione ottimale la memoria può prevedere qualcosa, ma mai a sufficienza; si ricorda le cose, non il loro nome esatto.

Pierre Boulez sul podio

Nella grande forma musicale, una dominante, ossia un gesto fortemente caratterizzato – un colore strumentale, un tempo, un registro etc. – deve amalgamare e guidare gli altri elementi; l’opera si organizza così secondo una traiettoria, più o meno modificabile, punteggiata da quelli che chiamerei gli involucri, i profili sonori del gesto. Generalizzando, c’è dunque un involucro che contraddistingue un momento – o più momenti – dell’opera. In Répons, allorché si ascolta una sezione costruita sull‘effetto di durata di figurazioni molto veloci, ci si accorge a posteriori di averne udita l’anticipazione nel ribattuto di un’unica nota; introducendo gradatamente nella stesura uniforme di sedicesimi delle irregolarità ritmiche, queste non alterano dapprincipio l’intensità agogica. Ma la loro frequenza costringe poi il tempo a rallentare, e non si percepisce più un’indistinta velocità, ma l’irregolarità nel dettaglio: la significazione e il senso di ascolto hanno mutato indirizzo. Ecco come concepisco la memoria nella composizione: accompagnare la metamorfosi che conduce da un punto di vista a quello successivo.

Sul podio del teatro d’opera
Boulez e il repertorio operistico: nel presente, un rapporto conflittuale.
«Oggi non dirigo più opere, e me ne dispiace. Ma è un impegno troppo gravoso, in termini di energie e di tempo. Desidero infatti raggiungere un affiatamento e un’omogeneità di intenti assoluta col regista che ho scelto, con lo scenografo e con quanti contribuiscono all’allestimento dell’opera; amo dirigere tutte le repliche dello spettacolo, dalla prima rappresentazione all’ultima. E questo costa ogni volta almeno tre, quattro mesi di salute… Però ho promesso a Peter Stein di realizzare insieme Pélleas et Mélisande di Debussy, in Inghilterra e quindi a Parigi, all’Opéra Bastille. Devo confessare che il progetto mi affascina molto. E mi piacerebbe anche comporne una, di opera…».

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Testimonianza raccolta da Cesare Fertonani nel corso della conferenza stampa presso gli Amici della Scala e all’Ansaldo di Milano