di Guido Salvetti

(Pubblicato sul n. 10 di Amadeus, settembre 1990)

Dal ricco epistolario del musicista tedesco emergono le fasi più creative del soggiorno italiano,
durante il quale,
tra l’autunno del 1830 e l’estate del 1831, furono composte le Sinfonie «Italiana»
e «Scozzese», l’Ouverture «Le Ebridi» e la «Erste Walpurgisnacht».

            Esigentissimo nei confronti della forma sinfonica, Mendelssohn rimandò di anni il completamento della «Scozzese» e dell’«Italiana». Ma ad entrambe aveva dedicato le prime entusiastiche cure durante il soggiorno italiano, tra l’autunno del 1830 e l’estate del 1831: si vennero ad incontrare, cioè, nella stessa fase creativa, sia le suggestioni «nordiche» del viaggio in Scozia del 1829, sia le impressioni dirette di un’Italia amata-odiata. E il termine di mediazione tra i «poetici squallori» della Scozia e il vitalismo dissipatore dell’Italia fu rappresentato, per lui, dalla profonda coscienza morale della germanità: il che significava – in una luce di «Serietà morale» – un uso rigoroso inattaccabile, della forma sinfonica ereditata dai classici, e sovraimposta a sensazioni e profumi, a luci e palpiti, a diari personali e paesaggi. Credo utile, allora, per afferrare meglio il momento umano e culturale delle nostre due Sinfonie, risfogliare l’epistolario di quel magico anno italiano

Amalfi in un dipinto di Felix Mendelssohn.

Da Klagenfurt a Napoli
            È un epistolario ricco e sostanzialmente veritiero, disponibile oggi anche nella nostra lingua: le Lettere dall’Italia sono state infatti egregiamente pubblicate da Fogara, Firenze, a cura di Raoul Meloncelli, a cui si devono un’introduzione, la traduzione e le note.
Sul viaggio domina un duplice soggiorno a Roma (di 5 mesi complessivi) e uno a Napoli (di due mesi). Ma come trascorsero quei mesi? A differenza di Schumann e di Brahms, che furono davvero «in vacanza», Mendelssohn utilizzò i suoi mesi italiani per comporre: oltre alle due Sinfonie («se almeno potessi portare a compimento qui una delle mie due sinfonie!»), portò a termine l’Ouverture Le Ebridi e la Erste Walpurgisnacht; progettò, inoltre, e in parte compose elaborazioni di Corali luterani. Poté esibirsi più volte come pianista di fronte a pubblici di intenditori (stranieri residenti, naturalmente), suonando soprattutto Beethoven e Weber. Intense furono le letture, tra cui, in italiano, tutta la Gerusalemme liberata. È costante l’attività come disegnatore, a livelli confrontabili con quelli di Goethe («vorrei anche disegnare ogni giorno per portare con me i miei ricordi di qui») con particolare attenzione a paesaggi e monumenti. Furono quindi mesi attivi e fervidi, anche se singolarmente inclini alla mondanità: nel ventunenne Felix c’era uno scoperto compiacimento nel sentirsi ben accetto negli ambienti più eleganti. È letteralmente felice quando può raccontare che i Torlonia hanno organizzato nel proprio palazzo romano, in occasione del suo compleanno, una festa con ben ottocento invitati.
Si veda anche questo passaggio di una sua lettera del 20 dicembre 1830: «Ma oggi voglio lasciarmi andare alle frivolezze e così vi informerò, care sorelle, sui particolari di un gran ballo al quale ho partecipato, e durante il quale ho ballato come mai in vita mia. Avevo detto una buona parola al maitre de danse (che qui deve stare in mezzo alla sala e dirigere tutto), e così il buon uomo lasciò che il galop continuasse per una buona mezz’ora. Là mi trovavo nel mio elemento ed ero perfettamente consapevole che stavo ballando nel palazzo Albani a Roma e con le più belle ragazze della città…».

Felix Mendelssohn in un acquerello di James Warren Childe del 1829.

Laboriosità e dissipazione, ben equilibrate, sono parti complementari di una personalità che vuol essere – che è – goethianamente armonica. E la «dissipazione» era, in Italia, ovunque nell’aria. Eppure l’insieme delle osservazioni sulla realtà italiana costituisce un corpus solidissimo, che non risente affatto né della laboriosità, né dell’apparente dissipazione mondana. Mendelssohn è veramente immerso nel1’esperienza avvincente che sta vivendo.
Un primo ordine di osservazioni riguarda le bellezze monumentali e naturali dell’Italia: «L’arte, in Italia, ora è soltanto nella natura e nei monumenti; in questi, essa rimane anche eterna, e la gente come noi potrà imparare e ammirare finché esisterà il Vesuvio e finché l’aria mite e il mare e gli alberi non passeranno». Non è soltanto una petizione di principio. È un entusiasmo che traspare, caldissimo, in indimenticabili descrizioni di marine e di luoghi montuosi, di villaggi e di città. Il 23 ottobre 1830, a proposito dei dintorni di Firenze scriveva: «Il bel paese d’Italia ha inizio proprio qua. Vi sono ville su tutte le alture, vecchie mura decorate, e sopra le mura rose e olivi, sopra i fiori grappoli d’uva, sopra i rampicanti foglie d’olivo o punto di cipresso o di pini; il tutto nettamente stagliato contro il cielo. Oltre a ciò visi leggiadri e angolosi, dappertutto vita nelle strade e nella valle, in lontananza, l’azzurra città».
Il 13 aprile 1831 descrive così il suo primo avvicinarsi a Napoli: «Giungemmo poi a uno stretto passaggio roccioso, alla fine del quale si scende nella vallata della Campania: è la vallata più affascinante che abbia mai visto; come un immenso giardino, ricoperto in lungo e in largo di piante e d’erba; da un lato, l’azzurra linea del mare, dall’altro l’ondulata successione dei monti, sulle cui cime fa capolino la neve; a grande distanza il Vesuvio e le isole che emergono sulla distesa della nebbia azzurra».
In queste, come in altre cento occasioni, non si tratta mai di annotazioni banali. L’occhio è esercitato dalla pratica della pittura; la sensibilità è accesa più di quanto il cliché aristocratico del viaggiatore lasci supporre. E di questa natura le folle festanti o, comunque, la gente gaia è parte integrante. Di scene di massa, infatti, pullulano le pagine del1’epistolario italiano: il fin troppo noto Carnevale romano, naturalmente, ma anche la festa religiosa a Velletri; tutto l’accorrere di popolo alle cerimonie in S. Pietro; o la grande quantità di fraticelli che contrappunta, con le cappe scure, gli sgargianti colori dei castelli romani.

Lettere al maestro Zelter
            Al caro maestro Zelter, a Berlino, egli invia minuziosissime relazioni sui riti cattolici nella Cappella Sistina e in S. Pietro, trascrivendo anche, sulla carta da lettere, i passaggi musicali più significativi. Ma non è la «Musica» il vero interesse, poiché Mendelssohn non ha dubbi sulla povertà musicale dei canti, sulla cattiva intonazione dei cantori, sulla mancanza di gusto dei maestri. Il vero interesse riguarda l’insieme «scenografico» di questi riti, che sono quindi un’ulteriore nota di colore locale, come si può ben capire da una lettera del 18 dicembre 1830: «Non cantavano bene, le composizioni non valevano nulla, nemmeno la gente era devota, eppure tutto l’insieme faceva un effetto divino».

Carl Friedrich Zelter.

Anche in questo ambito di osservazioni sulle ricchezze monumentali e naturali dell’Italia, che coinvolge direttamente la folla dei vivi, si insinuano alcuni aspetti decisamente negativi, non foss’altro per l’incuria con cui gli italiani dimostrano la propria indifferenza verso le testimonianze di un grande passato, a cominciare dalla deturpazione di monumenti e splendide sale con firme e scritte. In generale, comunque, la «plebaglia» lo ossessiona. I mendicanti di Napoli, con la loro insistente sfrontatezza, arrivano persino a togliergli il piacere della «ridente bellezza della natura». Ossessiva è anche la contesa con i vetturini, di cui vengono minutamente elencate le nefandezze. Profondo disgusto è quello che egli prova di fronte all’usanza popolare, in Roma, di costringere gli ebrei, all’inizio del Carnevale, ad invocare la clemenza dei cristiani, i quali, con magnanimità, danno loro la concessione di rimanere nel ghetto. Totale è poi la diffidenza per il commercio: «Non c’è negozio dove non si venga imbrogliati. Gli indigeni, che da molti anni ne sono avventori, debbono contrattare e stare sulla difensiva come i forestieri».
Ed è proprio in questa stessa lettera, del 6 giugno 1831, che la connessione tra decadenza civile dell’Italia e decadenza artistica viene enunciata al limite del paradosso logico: «Proprio per questo c’è così poca industria e concorrenza; per questa stessa ragione Donizetti finisce un’opera in dieci giorni; essa viene fischiata, ma ciò non ha importanza dal momento che lo pagano, e può tornare a spassarsela. Se, alla fine, la sua reputazione dovesse essere compromessa, sarebbe costretto a mettersi a lavorare con impegno e questo gli tornerebbe scomodo. E allora, scrive un’opera in tre settimane, s’impegna su un paio di pezzi che possano piacere al pubblico, e così può tornare a spassarsela per un altro po’ di tempo, continuando a scrivere male! Così i loro pittori dipingono quadri incredibilmente brutti, che stanno ad un livello ancora più basso della musica. E allo stesso modo, gli architetti costruiscono edifici di gusto orribile (tra gli altri un’imitazione in piccolo di S. Pietro, in stile cinese). Ma tanto, che fa? I quadri sono dipinti, la musica fa rumore, gli edifici fanno ombra e i grandi di Napoli non chiedono di più».

Una prima a Roma
            La critica sulla musica e sull’arte in genere ha, come si vede. un fondamento morale. Ed è questa forse la più amara conclusione, enunciata già il 7 dicembre 1830: «il popolo è intellettualmente insignificante e alquanto smarrito. Essi hanno una religione in cui non credono, hanno un papa, dei governanti, e se ne ridono; hanno uno splendido luminoso passato che non tengono in nessun conto». Il cinismo, osservato da Mendelssohn, non riguarda soltanto il popolino. La lettera, infatti, continua: «L’indifferenza per la morte del papa, la sconveniente allegria durante le cerimonie è veramente orribile. Ho visto la salma sul catafalco e i sacerdoti che vi stavano intorno bisbigliavano di continuo fra loro e se la ridevano». L’assenza di ogni rispetto verso le cose belle e grandi, l’assenza di idealità, e il cinismo che ne deriva sono considerati da Mendelssohn la vera ragione anche della decadenza musicale. Strumentisti e cantanti, cori e orchestre non hanno – ai suoi occhi – alcuna tensione verso il bello; tutto è pressappoco, dall’intonazione alla tecnica dell’arco, dalla pronuncia delle parole ai valori ritmici delle note.

Il Foro Traiano in un dipinto di Charles Lock Eastlake, negli anni in cui Mendelssohn visitò Roma.

È questa l’altra grande categoria di osservazioni sull’Italia: ne risaltano, nella ripetitività del giudizio artistico-morale sopra riportato, alcune vivide descrizioni, tra cui mi sembra di dover segnalare quella dell’inaugurazione del teatro Torlonia (lettera del 17 gennaio 1831): «L’altro ieri sera, venne aperto con una nuova opera di Pacini un teatro di cui Torlonia ha assunto l ‘impresa e che ha riordinato. Vi fu una gran folla; in tutti i palchi, la gente più bella ed elegante; il giovane Torlonia comparve nel palco di proscenio e fu molto applaudito insieme alla vecchia duchessa sua madre: Si gridò: “Bravo Torlonia, grazie, grazie”. Poi comparve Pacini al pianoforte e fu accolto festosamente. Non aveva fatto ouvertures; l’opera cominciò con un coro nel quale si batte il tempo su una incudine intonata. Venne fuori il Corsaro, cantò la sua aria e fu applaudito; dopo di che il Corsaro sopra, e il maestro sotto, si unirono nell’inchino (il Corsaro del resto canta da contralto e si chiama M.me Mariani). Poi, vennero ancora molti pezzi, e la cosa diventò noiosa. Così la trovò anche il pubblico e quando ebbe inizio il gran finale di Pacini, tutti in platea si alzarono in piedi e cominciarono a parlare a voce alta e a ridere voltando le spalle al palcoscenico. M.me Samoilov nel suo palco cadde in deliquio e si dovette portarla fuori. Pacini fuggì dal pianoforte, e il sipario cadde alla fine dell’atto in mezzo a un vero tumulto. Poi, venne il gran ballo Barbebleu, e poi l’ultimo atto dell’opera. Ma ormai avevano preso il via, fischiarono l’intero ballo dall’inizio e accompagnarono il secondo atto dell’opera ugualmente con e risate. Alla fine chiamarono Torlonia, che tuttavia non si presentò. Questo è il racconto nudo e crudo di una prima rappresentazione e dell’apertura di un teatro a Roma».
Potremmo forse concludere osservando che, per Mendelssohn, l’Italia rappresentò una magnifica, splendente, vigorosissima … tentazione. Come altrimenti si potrebbe definire il quadro che lui stesso (6 giugno 1831) ce ne dipinge? «Siccome mi sentivo incoraggiato a vivere nello stesso modo, e tutto m’ispirava ad essere pigro, ad andare a spasso e a dormire, e tuttavia dentro di me ero costretto ad ammettere che ciò era male, e cercavo di occuparmi e di lavorare senza tuttavia riuscire a farlo, nacque in me quel senso di fastidio …». Pensa allora a Goethe (il cui Viaggio in Italia lo accompagna per tutti questi mesi): «Goethe dice che la disgrazia del Nord è quella di voler fare sempre qualcosa, e di aspirare sempre a qualcosa».
E la tentazione è vinta, appunto con il ritorno al Nord; l’uscita dall’Italia è la condizione per reincontrarsi con una visione religiosa della vita che, nel clima culturale di quel momento storico, equivaleva esattamente ad un reincontro con l’arte. Il ricordo dell’Italia rimarrà per lui legato alla natura, ai fasti della romanità, agli splendori dell’arte rinascimentale: e, soprattutto, ad una possibile – e allettante – scelta di vita. Ma aveva già padroneggiato – in quello stesso anno – i languori accidiosi del mare del Nord, come gli splendori solari dell’Italia e degli italiani: con la forma sinfonica che gli dovrà costare tanta altra fatica. Dodici anni ancora, per la «Scozze­ se». L’«Italiana», addirittura, apparirà postuma, quasi a testimoniare la difficoltà di imbrigliare nella limpidezza della forma il disordine dionisiaco di Roma o di Napoli.