di Gian Paolo Minardi

(Pubblicato sul n. 8 di Amadeus, luglio 1990)

Nell’opera di Luigi Magnani la musica è guida ai significati più segreti.
Dalla vastissima e complessa critica dello studioso emiliano affiora
la nozione di scambio e di reciproco trasformarsi tra i linguaggi diversi del cosmo artistico.

Affidata ad una consistente testimonianza saggistica, tra cui si insinua talora, con il nipote di Beethoven ad esempio, una non gratuita vocazione narrativa, l’immagine di Luigi Magnani è parsa ritrovare , attraverso la fondazione che, a quasi sei anni dalla scomparsa dell’insigne studioso, ha aperto le porte al pubblico nelle passate settimane, una nitidezza acutissima; quasi che la preziosa collana di dipinti e oggetti d’arte riunita da Magnani lungo la sua vita e ora lasciata per sua precisa volontà al godimento di chi sappia coglierne l’intimo messaggio, ricomponesse le motivazioni sottese a quelle sue scelte: per nulla confondibili col più corrente meccanismo collezionistico.

Luigi Magnani (a destra) ritratto insieme a Giorgio Morandi. Al pittore bolognese, suo intimo amico, Magnani, grande collezionista, dedicò un significativo volume: «Il mio Morandi”.

Perché a guidarle era una particolare attrazione verso la bellezza, verso un determinato momento di bellezza condensato in una tela o in una tavola, condizione quasi occasionale quest’ultima nel porre l’oggetto artistico come puro veicolo di una mozione interiore che per Magnani poteva avere tante altre sollecitazioni, e ancor più stringenti correspondances, da quelle della pagina di Proust o di Stendhal a quelle degli ultimi Quartetti di Beethoven. Si definisce, infatti, in termini di complessa circolarità la fisionomia di Gino Magnani che diversamente si rischierebbe di delimitare troppo riduttivamente accogliendola entro categorie più scandite.

Mistero e razionalità
Se mai il limite va inteso per lui come superamento che sembra costituire quasi un programmatico viatico a quella prima raccolta di saggi musicali pubblicata da Ricciardi nel 1957, che Magnani aveva riunito sotto il titolo di Le frontiere della musica; dove appunto è la nozione di scambio ad affiorare, di reciproco trasformarsi tra linguaggi diversi in un’osmosi misteriosa in cui l’idea del tempo sembra operare il segreto trapasso tra la realtà e l’illusione dell’eterno. E non è senza significato che Thomas Mann, dopo aver letto con ammirazione il saggio sul Doctor Faustus compreso in quel volume, chiedesse incuriosito ad Emilio Cecchi se l’autore fosse un musicista. Perché in effetti in quel saggio, come del resto in altri scritti musicali di Magnani – il quale musicista era, formatosi attraverso il prezioso tirocinio di Casella – la musica era tutta riassorbita nei suoi dati puramente specifici, per farsi invece rivelatrice di significati più ramificati. E lo stesso interrogativo del resto lo si sarebbe potuto porre per gli altri fronti attinti dallo studioso, seguendo nella sua circolarità tutto l’arco di una vastissima osservazione critica e soffermandosi così su alcune delle interferenze nodali: Goethe e Mozart, esplorati nel segreto della loro contemporaneità ed uniti nel superiore dominio di quell’inquietante irrazionalità che stava tentando il loro tempo.

«Strumenti musicali», l’unico quadro nel quale Morandi deviò dai soggetti consueti delle sue nature morte e, soprattutto, il solo che eseguì su committenza, proprio per Luigi Magnani.

Un terreno sul quale la ricerca di Magnani scorre ininterrotta per alcuni decenni; la musica riflette le tante risposte possibili che la stessa idea della forma condensa in una sintesi rivelatrice ed è proprio in questa intrecciata, oscura confluenza di mistero e razionalità che affondano le loro radici le ansie dello studioso. La storia critica di Magnani può infatti essere osservata come un’instancabile variazione sul tema, sviluppata nello sforzo di riuscire a saldare il rapporto tra la musica come fatto sonoro ed il significato superiore racchiuso entro l’idea formale. Si dipanano da qui le sollecitazioni più sottili, la fuga stendhaliana verso la «musica della felicità» come la ricerca dell’assoluto dal travaglio di Mallarmé sulla parola, teso a liberare nella musica le più segrete virtualità ed ancora la musica come filo di rivelazione metafisica della Recherche proustiana.

Magnani e Beethoven
Ma dal concentrarsi di questi motivi verso un centro ideale trova una sua più rilevata necessità la presenza beethoveniana, una costanza che è andata assumendo un’inevitabile priorità, traendo forza dalla qualità stessa dell’esplorazione che ha portato Magnani sempre più a diretto contatto con l’uomo.
La lettura dei Quaderni di conversazione diventa così una fonte di inattesa quanto struggente fecondità: da questo straordinario humus, pagine che «serbano la visibile traccia, l’ustione si direbbe, dell’improvviso balenare dell’idea …». Magnani ha tratto la consapevolezza delle grandi tematiche beethoveniane: le suggestioni per gli ideali della Grecia antica in cui sembra reincarnarsi il presente vissuto non sul filo dell’utopistico e sognante punto di fuga dei «romantici», ma sotto la spinta di più pressanti ed assoluti imperativi, un presente che doveva trovare risposta da un’arte non tanto votata alla novità quanto alla verità. Una frequentazione di tale intensità da suggerire al nostro studioso persino uno stacco immaginativo come quello del Nipote di Beethoven dove però nulla della ricostruzione si allontana dalla rassicurazione documentaria: non un decollo evasivo, dunque, ma una più variata riflessione, richiamata ancor più doverosamente verso quel centro assoluto che costituiva per Magnani il polo centrale della sua ansia conoscitiva: «quell’Idea che – come indicava di fronte allo scorrere del grande fiume proustiano – pur nelle sue frammentarie espressioni nella musica (di Vinteuil), nella pittura (di Elstir), nella letteratura (di Bergotte), rivela una sola unica essenza spirituale di natura metafisica».