di Patrizia Luppi

(Dalla monografia Civiltà musicali:
Venezia – Realizzata da Paragon s.r.l. per Agfa-Gevaert.)

Dal tempo in cui i legni della Serenissima si spingono per commerci e traffici fino al Corno d’Oro,
nello splendore della Città Dogale qualche cosa muta e il clima diviene più austero;
tuttavia mai viene a mancare una caparbia voglia di vivere in allegria.

E la muisca di quel periodo, con Vivaldi, Galuppi, Albinoni, Tartini, Alessandro e Benedetto Marcello
sottolinea assai chiaramente il gusto e lo stile di un costume di vita che lascia segni del tutto indelebili.

«Non avevo ancora veduto Parigi e giungevo da città dove a sera bisognava circolare nelle tenebre. Ecco che le lampade di Venezia facevano una decorazione utile e piacevole, tanto più che non erano a carico dei privati. Indipendentemente da codesta illuminazione generale c’era quella delle botteghe, la maggior parte delle quali non si chiudeva che a mezzanotte, mentre altre non si chiudevano mai. Si vedevano a mezzanotte come a mezzogiorno tutti i generi commestibili in bella mostra, le trattorie spalancate, pronti ai pranzi gli alberghi e le locande, frequentate la piazza e le vie adiacenti, gremiti i caffè dal bel mondo, uomini e donne d’ogni genere.

Canaletto, Il Campo di Rialto, 1758-63.

«Si cantava nei campi, nelle calli, lungo i canali. I commercianti cantavano anch’essi offrendo le loro merci. Gli operai cantavano lasciando il lavoro. I gondolieri cantavano attendendo i clienti. Il fondo della nazione era la gaiezza, così come il fondo della parlata era l’umorismo». Carlo Goldoni rivede Venezia nel 1737, dopo un periodo trascorso in giro per l’Italia. L’immagine della città, così allegra ed accogliente, risalta nei Mémoires, scritti a Parigi quarant’anni dopo; è forse la testimonianza più affettuosa e consapevole, ma tutt’altro che l’unica, di quale fascino e quale attrattiva dispensasse la Serenissima ancora nel diciottesimo secolo, dopo lo splendore dei tempi precedenti.

Un’immagine felice
Città di grande vivacità culturale, capitale del divertimento e del gioco d’azzardo di tutta l’Europa, governata da un’oligarchia spesso molto tollerante, Venezia per tutto il Settecento offre di sé ancora un’immagine di città felice. Ma i germi della rovina sono ormai molto attivi. Le guerre contro i Turchi, iniziate nella seconda metà del Seicento, durano quasi ininterrottamente fino al 1718, quando la disastrosa pace di Passarowitz sanziona l’inizio della decadenza politica, finanziaria e militare. I commerci, una volta fiorentissimi, continuano a calare per importanza e volume d’affari: Venezia aveva magnificamente prosperato tramite i traffici con l’Oriente, ma ora perde terreno davanti a Francia, Olanda e Inghilterra. Anche nel Mediterraneo la sua influenza si riduce enormemente: ora spadroneggiano altri porti italiani, da Genova a Livorno, da Trieste a Fiume ad Ancona; i loro dazi sono molto bassi rispetto a quelli altissimi imposti dalla Sererenissima per rimpolpare le casse dell’erario, dissanguate dalle guerre di Candia e di Morea.

Libertà e licenza
Almeno in apparenza, però, il clima di spensieratezza non viene turbato. Venezia, da sempre città «turistica» per eccellenza, richiama visitatori da ogni dove (il govrno incoraggia questo afflusso di stranieri, contando di trarne beneficio economico), attratti dalle sue glorie e dalle sue bellezze, dalla ricca vita culturale che vi si dipana, ma soprattutto dall’aria di libertà che vi si respira: “Non c’è luogo al mondo in cui la libertà e la licenza regnino sovranamente come qui. Non impicciatevi degli affari di governo e fate poi tutto quello che vi piacerà», scrive nel 1739 il Presidente De Brosses a un amico. E così vengono attirati, dalla possibilità di giocare d’azzardo con grande facilità e in maniera perfettamente legale, gli avventurieri provenienti da ogni luogo. Venezia è infatti l’unica città d’Europa dove il gioco d’azzardo è ufficialmente permesso, e grandi movimenti di capitali si creano nel Ridotto, il primo Casino di gioco, creato nel 1638 dal patrizio Marco Dandolo nel proprio palazzo a San Moisè. All’inizio del XVIII secolo, la gestione passa a una società e il Consiglio dei Dieci, il massimo organo direttivo della Repubblica, interviene con puntuali regolamentazioni.

Francesco Guardi, Il Ridotto di Palazzo Dandolo a San Moisè.

Dunque, Venezia appare felice: si gioca ovunque; si canta e si balla per le strade in ogni circostanza e in ogni momento; non si piange mai, nemmeno per la morte del Doge: quando capita che muoia, nessun segno di lutto, ma subito il via ai festeggiamenti per chi gli succede. I costumi sono molli, soprattutto nei ceti altolocati: l’adulterio è più che tollerato, i matrimoni non sono quasi mai per amore, ma le autorità compiacenti non pongono troppe difficoltà a concedere separazioni e annullamenti.
Cultura e arti, infatti, nella Venezia del Settecento sono vivaci e ricchissime. Per cominciare, la pittura: dopo i fasti del Cinquecento, e dopo un diciassettesimo secolo trascorso silenziosamente, la voce del la pittura veneziana si fa di nuovo sentire fortissima. Il fenomeno dei «vedutisti», che amorosamente ritraggono appunto le vedute della propria città con risultati di straordinaria qualità artistica, risale proprio al Settecento.
Di non minor valore sono anche le opere di alcuni ritrattisti; segno del ruolo non sempre subordinato che la liberale Repubblica assegna alle donne è il successo di Rosalba Carriera (1675-1757), che dai disegni per i merletti passa all’attività pittorica e diventa ritrattista celebratissima e ricercata presso le maggiori Corti europee. Giambattista Piazzetta (1682-1754) è il primo direttore dell’Accademia di pittori e scultori (poi chiamata di Belle Arti), nata nel 1750 per decisione del Senato scorporando le due categorie dalle consorterie artigiane di cui facevano parte. La presidenza dell’Accademia viene in seguito affidata a Giambattista Tiepolo (1696-1770), allievo del Piazzetta, altra grande gloria della pittura veneziana. Nello stesso periodo lavorano Antonio Canal detto Canaletto (1697-1798), artefice di incantate vedute di Venezia; anche Pietro Longhi (1702-1758), che è attivo in quell’epoca, descrive in piccoli quadri gli aspetti più minuti e particolari della vita in città: è un vero pittore-cronista; Francesco Guardi (1712-1793) e un altro grande numero di altri straordinari artisti seguono quel periodo.

Carlo Goldoni e i Gozzi
Anche l’architettura fiorisce, sebbene durante il Settecento nella città di Venezia si richiedono e si rilasciano pochissime licenze per nuove costruzioni (mentre più numerose sono le richieste di autorizzazioni per restaurare o riattare stabili e botteghe già esistenti): vengono edificati palazzi e chiese di grande interesse.

Alessandro Longhi – Ritratto di Carlo Goldoni (c 1757).

La letteratura ha un maestro assoluto in Carlo Goldoni (1707-1793), avventuriero «positivo» (fra tanti avventurieri «negativi» come Giacomo Casanova, che negli stessi anni impazza tra amori turbolenti, azioni illecite e avventure di ogni tipo), che realizza la fondamentale riforma del teatro comico con i personaggi della vita reale al posto delle maschere. Goldoni scrive sia in lingua italiana sia in dialetto: e quello veneziano è, ancora a quell’epoca, l’unico dialetto italiano non bollato da squalifica culturale: è parlato dal popolo come dalla classe dirigente, viene usato per scrivere di questioni amministrative e giuridiche come per parlare di scienza e di filosofia. Per fatale congiunzione di eventi storici e sociali, però, decade, per rinchiudersi in una dimensione sempre più municipale, proprio quando Goldoni lo consacra nelle sue commedie.
Famosi all’epoca sono anche i fratelli Gozzi: Carlo (1720-1806) feroce avversario di Goldoni e dell’Illuminismo, autore di fiabe teatrali dal fascino ancor oggi immutato (per esempio, L’amore delle tre melarance o Turandot) e Gaspare (1713-1786), prosatore e moralista arguto. Letterati veneziani sono famosi anche all’estero: è il caso di Apostolo Zeno (1668-1750), poeta cesareo a Vienna, tra i maggiori librettisti teatrali del suo tempo. Di buoni e prolifici librettisti c’è gran richiesta nella Venezia di quei tempi: nel corso del Settecento vi viene infatti rappresentato un numero enorme di nuovi melodrammi, su centinaia di libretti diversi.

Carlo Gozzi

Il teatro, d’opera e di prosa, mobilita d’altronde grandi masse di persone, centinaia di compositori, librettisti, direttori d’orchestra, cantanti, ballerini, attori, comparse, mimi; e poi strumentisti, scenografi e tecnici di palcoscenico; una immensa folla di teatranti che fissa in buona parte la propria residenza in città – contribuendo con la propria vita spregiudicata ad alcune variazioni del costume – e in parte si sparge poi per tutta Europa, fornendo la base per la creazione di molti teatri nazionali.
Venezia è stata la prima città ad aprire al pubblico un teatro d’opera: nel 1637 è stato inaugurato il San Cassian, seguito nel giro di pochi anni da parecchi altri; man mano, hanno cominciato ad accedere alle rappresentazioni non solo i nobili ed i ricchi borghesi, ma anche esponenti della media e piccola borghesia e del popolo. Ogni teatro appartiene a un nobile o a un gruppo di nobili (i Grimani, i Vendramin, i Tron sono tra le famiglie più legate all’ambito teatrale); generalmente la gestione ordinaria è affidata a un direttore, talvolta però si affitta la sala a un impresario indipendente.

Nei teatri il giuoco d’azzardo
Nonostante che nel Sei e Settecento Venezia sia la prima città teatrale d’Italia per numero e qualità delle rappresentazioni, per afflusso di pubblico, per bravura degli artisti impegnati e per capacità degli impresari, le sorti economiche degli spettacoli sono spesso desolanti: i proprietari riescono a rifarsi delle spese solo organizzando nei teatri stessi il gioco d’azzardo. I costi di gestione sono infatti altissimi; per restare al teatro d’opera, le spese per gli allestimenti generalmente sfarzosissimi, nonostante siano molto ingenti, rappresentano però il male minore: molti materiali vengono infatti recuperati alla fine di un ciclo di rappresentazioni ed impiegati per nuovi spettacoli. Moltissimo, invece, incidono gli esorbitanti cachet richiesti dai cantanti più famosi, fra i quali spiccano per pretese e atteggiamenti divistici, i viziatissimi castrati, idoli del pubblico delle platee del tempo. Le stagioni d’opera principali sono due: il Carnevale, che va da Santo Stefano al martedì grasso, e la stagione d’autunno che corre dalla prima settimana d’ottobre a metà dicembre; quest’ultimo periodo dovrebbe essere dedicato principalmente alla commedia, ma da novembre in poi molti teatri anticipano il Carnevale mettendo in scena un’opera. Melodrammi si possono rappresentare, con il permesso del Consiglio dei Dieci, anche in altri periodi dell’anno. Senza interruzioni invece vanno in scena i lavori allestiti nei palazzi e nei giardini della nobiltà: si tratta di operine con un ridotto organico vocale e strumentale, chiamate «serenate» perché rappresentate quasi sempre di sera. Se il melodramma è la punta emergente della vita musicale veneziana, molto fertilmente hanno attecchito anche altre forme, sia strumentali che vocali, eseguite in sedi ed occasioni disparate. Resistono ancora, nel Settecento, le compagnie di piffari (strumenti a fiato ed a percussione) che come nei secoli precedenti sono incaricati, allo stesso modo delle odierne bande, di dare concerti sulle pubbliche piazze e di accompagnare le processioni. Nella Basilica di San Marco – dove nel XVI e nel XVII secolo è fiorita una straordinaria produzione di musica sacra sotto maestri di cappella come Willaert, Zarlino e Monterverdi – esiste dai primi anni del Seicento un’orchestra fissa; il complesso, che deve presenziare alle funzioni ogni qual volta vi si rechi il Doge, si esibisce nelle festività maggiori; per le altre, bastano il coro a cappella o magari l’organo.

Fioriscono le «Accademie»
Altre chiese parrocchiali e conventuali veneziane dispongono, oltre che del coro e dell’organista, di gruppi strumentali variamente composti. Le confraternite, associazioni di commercianti sorte a scopo di beneficenza o di mecenatismo artistico, hanno avuto grande potere alla fine del Cinquecento e nei primi anni del Seicento: il loro incoraggiamento è stato molto importante per la pittura e per la musica, anche se dopo la grande pestilenza del 1630-31 la loro influenza è decaduta: all’inizio del Settecento esse stipendiano ancora qualche musicista, ma con esiti di scarso interesse.

Antonio Vivaldi

Nelle proprie case, i nobili incentivano le «accademie», concerti privati a cui è molto ambito il presenziare; in un’altra accezione del termine, «Accademie» sono anche quelle società i cui affiliati discettano dottamente di letteratura, di estetica e di filosofia e a volte anche di musica: soci dell’Accademia degli Animosi, legata alla celeberrima Arcadia romana, sono Alessandro e Benedetto Marcello. Ma i luoghi che attirano ogni visitatore straniero, che offrono i concerti più incantevoli, che sfornano virtuosità incomparabili nel canto e nella tecnica strumentale, sono i quattro Ospedali (della Pietà, dei Mendicanti, degli Incurabili e dei SS. Giovanni e Paolo, quest’ultimo più noto come Ospedaletto), detti a volte «Scuole», veri e propri conservatori dove orfanelle o figlie illegittime sono allevate a spese pubbliche.
In parte, le ragazze sono avviate allo studio della musica sotto la guida delle compagne più esperte o di maestri provenienti dall’esterno: il caso più noto è quello di Antonio Vivaldi all’Ospedale della Pietà. Vengono poi impegnate per cantare e suonare, nascoste dietro fitte grate, in concerti pubblici; suscitano in genere grande sensazione per la loro bravura e chi le ascolta non può trattenersi dal favoleggiare sulla bellezza di chi esibisce voci e suoni così angelici, addirittura suadenti.
Comico lo sbigottimento di Jean Jacques Rousseau quando, in visita a Venezia, ha finalmente l’occasione di conoscere alcune di quelle musiciste che aveva ascoltato con rapimento.
«Una musica secondo me molto superiore a quella dell’Opéra e che non ha paragone in Italia né nel resto del mondo è quella delle ”Scuole”; è con queste parole che egli inizia il suo racconto nelle Confessioni. Più avanti continua: «Non  ho idea di nulla altrettanto voluttuoso, altrettanto toccante di queste musiche: le ricchezze dell’arte, il gusto squisito dei canti, la bellezza delle voci, la precisione dell’esecuzione, tutto in questi deliziosi concerti concorre a produrre un’impressione che non è sicuramente bon coûtume, ma di cui dubito che nessun cuore d’uomo sia al riparo (…) quello che mi affliggeva erano quelle maledette griglie, che non lasciavano passare che dei suoni e mi nascondevano gli angeli di bellezza di cui erano degni. Un giorno che ne parlavo col signor Le Blond, se lei è così curioso, mi disse, di vedere queste ragazze, è facile accontentarla (…) Entrando nel salotto che racchiudeva queste bellezze così bramate, sentii un fremito d’amore che non avevo mai provato. Il signor Le Blond mi presentò una dopo l’altra queste cantanti celebri, di cui la voce e il nome erano tutto ciò che conoscevo. Venga, Sofia… era orribile. Venga, Gattina… era cieca da un occhio. Venga, Bettina … il vaiolo l’aveva sfigurata. Praticamente nessuna era senza qualche notevole difetto (…) Ero desolato».


La dispensa dalla Messa
È proprio all’Ospedale della Pietà che, per moltissimi anni e in varie riprese, Antonio Vivaldi è assunto come maestro di violino prima e dei concerti poi. Na­ to nel 1678 a Venezia, primo dei sei figli di un violinista della Cappella di San Marco, Antonio Lucio viene avviato alla musica dal padre; intraprende la carriera ecclesiastica ma, appena ordinato sacerdote, viene dispensato dal celebrare la Messa per motivi di salute: è infatti affetto da un fastidioso malanno ai bronchi, forse asma.
Nello stesso periodo, nel 1703, la sua opera viene richiesta per la prima volta alla Pietà; ha l’incarico di maestro di violino, che anno per anno gli vien riconfermato ma, in qualche caso, anche tolto: ciò accade per esempio tra il 1709 e il 1711. È questa l’epoca in cui il musicista si impegna nella gestione di quel Teatro di Sant’Angelo per cui si inimica Benedetto Marcello, come abbiamo già accennato. Nel frattempo compone, in parte per le ragazze della Pietà, musica strumentale, vocale, operistica e sacra; la prima edizione a stampa che ci è nota di sue opere risale al 1705. Nel 1713 parte il maestro di coro della Pietà, Francesco Gasparini: l’importante incombenza di comporre pagine vocali per la cappella dell’Ospedale viene affidata temporaneamente a Vivaldi che in futuro, sia pure saltuariamente, gli verrà riproposta. Nel frattempo il musicista viaggia molto e passa tra l’altro tre anni a Mantova alla corte di Filippo di Assia-Darmstadt, uno dei suoi due importanti protettori; l’altro sarà nientemeno che l’imperatore Carlo VI, fervido appassionato di musica.

Una produzione assai ingente
Le composizioni vocali e strumentali di Vivaldi sono numerosissime: circa quattrocentottanta concerti, una novantina di sonate, quattordici sinfonie, quasi novanta melodrammi, compresi pastiches e rifacimenti, quaranta cantate da camera, sessanta pagine di musica sacra e altre composizioni varie. Una percentuale minima della sua musica strumentale viene pubblicata vivente l’autore: fatto che si spiega soprattutto con il decadimento dell’editoria musicale veneziana, che era stata la prima al mondo e la più fiorente ma cede ora all’iniziativa straniera, provvista di risorse più moderne e di spirito imprenditoriale più vivace. È il caso di ricordare anche che negli ultimi anni di vita Vivaldi stesso preferiva non far pubblicare le proprie musi­ che, dato che gli rendevano di più vendute manoscritte.
Sulla scena musicale veneziana di questo periodo, la figura di Vivaldi è la più significativa e importante. Quanto sostiene che egli e Albinoni hanno perfezionato la forma del concerto creando modelli eccellenti; in effetti, Vivaldi, sperimenta ogni tipo di concerto, da quello solistico, che sta prendendo sempre più piede, a quello da camera, praticato soprattutto all’estero, dando nuova vitalità anche a forme in via di sparizione come il concerto a quattro.
Compone con estrema facilità, retando sempre fedele a un proprio stile molto caratteristico, spesso prendendo a prestito disinvoltamente, per le nuove composizioni, spunti o parti intere delle vecchie (una tendenza che peggiora in tarda età); ai tempi, d’altronde, quest’abitudine è piuttosto diffusa e non scandalizza nessuno.
Il rinnovamento delle forme musicali viene da lui pienamente accolto e stimolato: ad esempio, la divisione in tre movimenti delle composizioni strumentali, con l’alternanza dei tempi allegro-lento-allegro; la forma-ritornello, impiegata soprattutto nei movimenti vivaci, dove un ritornello affidato al grosso dell’orchestra intercala gli interventi del solista o del gruppo solistico. Solisti sono nei concerti vivaldiani gli strumenti più svariati: in molti casi sono fiati. Il flauto traverso sta soppiantando il flauto diritto, con un fenomeno analogo a quello che, a distanza di mezzo secolo, vedrà protagonisti pianoforte e clavicembalo; per questo alcuni concerti dell’op. 10 sono rifacimenti per lo strumento più «moderno» di pagine composte originariamente per flauto diritto.
A un intento descrittivo è improntato il Concerto op. 10 n. 3 inre maggiore «Il gardellino» RV 428, in cui vengono impiegati frequenti spunti onomatopeici. In una prima versione, «Il gardellino» era un concerto da camera, forma praticata soprattutto in Francia ed in Germania, di cui splendidi esempi sono i Concerti Brandeburghesi n. 3 e n. 6 di Johann Sebastian Bach. A questa categoria appartiene anche il Concerto in re maggiore per liuto ed archi RV 93, uno dei pochi brani vivaldiani in cui uno strumento a corde pizzicate è protagonista.
Probabilmente, infatti, a volte il musicista impiega gli strumenti a pizzico in luogo di altri nell’accompagnamento di movimenti lenti; come solisti, però, tende a lasciarli da parte, tranne che in pochi casi, come nel Concerto per mandolino e archi in do maggiore RV 425, o nella Sonata a tre (Trio) in sol minore per liuto, violino e basso continuo RV 85. In coppia con un’altra, dedicata a un gentiluomo boemo, il conte Wrtby, la Sonata offre grande spicco soprattutto alla parte del liuto, mentre quella del violino spesso si limita a raddoppiarla o a ripresentarla in forma semplificata.
Anche dopo l’affermazione del concerto solistico, che già nei primi anni del Settecento mostra di eclissare il concerto a quattro (cioè a quattro parti, per archi, imparentato con la sonata, sviluppato soprattutto da Albinoni e da Torelli), Vi­ valdi continua a scrivere in questa forma: un bell’esempio di concerto a quattro è il Concerto in sol maggiore «Alla rustica» RV 151.

Tomaso Albinoni


Tomaso Albinoni facoltoso «dilettante»
Accanto a Vivaldi, l’altro grande protagonista della musica veneziana di questo periodo è Tomaso Albinoni (nato e morto a Venezia, 1671-1751); facoltoso «dilettante» di musica (secondo un uso diffuso soprattutto tra i nobili), compositore molto attivo, fecondo produttore di opere teatrali, deve fare i conti con le difficoltà economiche quando, intorno al 1720, perde i beni lasciatigli in eredità dal padre; ha l’occasione però di svolgere qualche attività per la corte di Monaco di Baviera. Intorno al 1740 smette completamente di comporre: nascono da questo fatto le erronee o incerte datazioni della sua morte; in realtà egli vive, infermo, fino al 1751.
È il primo musicista con Vivaldi a dare articolazione e respiro alle nuove forme strumentali e anche il primo in assoluto a dare alle stampe concerti di provenienza veneziana. Di ispirazione sobria e lineare, ha composto molte pagine di straordinaria bellezza: curiosamente, il suo nome in epoca moderna è legato soprattutto all’ Adagio in sol minore che, in realtà, in gran parte è frutto del paziente lavoro di ricostruzione e di ricreazione del revisore Remo Giazotto.
Istriano di nascita, legato soprattutto a Padova dove morirà, Giuseppe Tartini (1692-1770) è costretto dai genitori ad abbracciare la carriera ecclesiastica verso la quale non si sente minimamente vocato. Ma alla morte del padre si sposa, appena diciottenne, per ribellione. Costretto a sfuggire alle ricerche della madre, si rifugia in un convento dove studia il violino da autodidatta e, forse, un po’ di composizione; di lì inizia una fortunata carriera di esecutore, compositore e insegnante cui farà seguito, in età matura, anche un’interessante elaborazione teorica dei principi musicali. La sua scuola violinistica è famosissima in tutta Europa e produce ottimi frutti.

Benedetto Marcello

Del numero dei nobili «dilettanti» fanno parte Alessandro e Benedetto Marcello. La famiglia conta tra gli antenati un Doge, il padre è uomo molto colto; Alessandro, il primogenito (1684-1750), si intende, oltre che di musica, di pittura, di filosofia e di matematica; è musicista attento e intelligente: più che l’elaborazione tematica, nelle sue opere ha spicco particolare la perizia armonica. La fama gli viene dalla raccolta di sei concerti per due oboi (o flauti) La Cetra, pubblicata nel 1738. Ma anni prima era stato dato alle stampe, con altri pezzi di diversi autori, un Concerto per oboe ed archi, che verrà trascritto da Bach nel Concerto per clavicembalo BWV 974. Erroneamente attribuito, spesso ancora ai nostri giorni, al fratello Benedetto, e a volte perfino a Vivaldi, questo concerto è il capolavoro di Marcello. In Italia gode oggi di rinnovata popolarità per essere stato inserito nella colonna sonora di un film di successo: Anonimo Veneziano.
Benedetto Marcello (1686-1739) si interessa particolarmente di musica e di letteratura. Nonostante sia impegnato in una carriera pubblica, entrando a far parte del Maggior Consiglio della Repubblica e diventando poi Camerlengo, è compositore molto prolifico, soprattutto di musica vocale; dà alle stampe, inoltre, numerose raccolte strumentali. Tra queste cospicuo il numero di sonate, di cui l’op. 2, pubblicata a Venezia nel 1712, con dodici Sonate per flauto. È un genere questo che sta subendo in questi anni un grosso cambiamento: mentre nei primi anni del secolo era soprattutto virtuosistica e di non facile esecuzione, più avanti tende a semplificarsi, destinata com’è soprattutto a un pubblico di dilettanti. Le differenze tra sonata da camera e da chiesa si riducono: la prima ha comunque il sopravvento sulla seconda, mentre la suite comincia a decadere nell’interesse dei compositori.

Baldassare Galuppi

Baldassare Galuppi va a Pietroburgo
In quest’epoca, in genere la sonata è in tre movimenti, che nella maggior parte dei casi sono bipartiti; Benedetto Marcello si discosta dalla tendenza generale e in quasi tutte le proprie opere strumentali resta fedele alla suddivisione in quattro tempi, eredità della vecchia sonata da chiesa. Spirito vivace e curioso, Marcello è anche arguto polemista, come già abbiamo sottolineato parlando del suo Teatro alla moda.
Maestro di Benedetto Marcello, Antonio Lotti (1666-1740) è per più di quarant’anni organista a San Marco e negli ultimi anni della vita ne diventa maestro di cappella. Oltre un gran numero di opere e di oratori, compone qualche opera strumentale, sinfonie, sonate, pezzi vari.
Cosmopolita, invece, è il suo allievo prediletto Baldassarre Galuppi (1706-1785). Maestro di coro all’Ospedale dei Mendicanti, si reca a Londra per allestirvi alcune opere, torna in Italia dove diviene maestro di cappella di San Marco e di coro agli Incurabili; si trasferisce per tre anni a Pietroburgo, richiesto espressamente da Caterina di Russia; torna poi trionfalmente a Venezia, dove riassume le cariche lasciate alla partenza e si dedica alla composizione. Straordinariamente prolifico nell’opera, compone anche parecchia musica strumentale: fra questa sette concerti a quattro per due violini, viola, violoncello e basso continuo.