di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

La bellezza, come ogni altro valore, non conosce limiti. Per Carlo Filippo Emanuele Bach la più bella delle melodie può essere resa ancora più affascinante grazie a una serie di piccoli interventi, di ritocchi, di sfumature aggiunte: un po’ come i colori del belletto perfezionano i tratti del viso. Bach scrisse poco dopo la metà del Settecento un trattato fondamentale sull’arte di suonare la tastiera: uno dei principali segreti di quest’arte è proprio l’abilità di aggiungere i dovuti abbellimenti a ogni brano; «senza di che, arrivava a dire, anche la melodia migliore è vuota e inefficace, il contenuto più chiaro è offuscato». Il Settecento rococò è l’epoca in cui l’arte di abbellire la melodia raggiunge il grado di elaborazione più sofisticato. In tutta Europa, ma soprattutto in Francia. Non c’è pagina di François Couperin che non sia zeppa di decori ornamentali.
Fin troppo scontato è il rimando alla parallela arte di aggiungere preziosismi nelle figurazioni pittoriche di Boucher, di Watteau, di Fragonard, o negli stucchi del palazzo di Versailles o delle chiese di Balthasar Neumann. Ma un limite alla bellezza esiste, e sta nell’eccesso: superato un certo livello, una certa quantità di preziosismi, l’artificio si fa troppo palese. Scrittori di arti visive, o di letteratura, protestano contro gli eccessi e tornano a invocare l’antica sobrietà. Lo stesso fanno i musicisti: negli anni stessi in cui Bach scrive il suo trattato, Charles Avison protesta, nel suo saggio sull’espressione musicale, contro il diluvio di incontenibili «extravaganzi», come li chiama con termine italiano, che soffocano il più semplice brano musicale fino a sfigurarlo. Corsi e ricorsi, il classicismo ritrova un suo ideale di «bellezza senza abbellimenti» o, meglio, con abbellimenti parcamente distribuiti nei punti chiave della melodia.
In realtà, l’abbellimento non è una prerogativa dell’età tardo barocca. Si può dire che non esiste civiltà musicale che ignori questa pratica. In ogni angolo del mondo possiamo ascoltare (se non più dal vivo, forse ormai solo nelle forme di revival, o dal disco) canti nei quali la voce intercala, alle note essenziali del canto, una o più rapide note: abbellimenti, appunto. Si può renderne un’idea visiva con i ricami aggiunti a una linea (fig. 1).
In queste pratiche, il cantore segue determinate abitudini imparate dalla sua comunità. Per questa ragione, ogni civiltà musicale ha il proprio repertorio caratteristico di abbellimenti. Ma entro tali schemi tramandati, il cantore, così come lo strumentista, ha una sua libertà di manovra. Dunque, l’aggiunta di abbellimenti a una melodia si lega strettamente alla pratica dell’improvvisazione. Uno può improvvisare a piacer suo. Ma può anche improvvisare una variante al brano tradizionale che sta riproponendo. Fra l’una e l’altra attività non esiste un confine netto.
Per definizione, l’improvvisazione non si scrive. Dunque dovremmo aspettarci che nemmeno gli abbellimenti siano trascritti. Invece la letteratura musicale dell’età barocca abbonda di una quantità straordinaria di segni speciali, che stanno proprio a indicare dove va inserito un abbellimento, e quale tipo di abbellimento. Se confrontiamo due pagine per clavicembalo, una di Scarlatti e una di Couperin, vedremo che Scarlatti usa pochi segni di abbellimenti, Couperin molti. L’esistenza di segni di abbellimento dice una cosa elementare: il compositore non lascia all’interprete la decisione sugli abbellimenti. O meglio: non la lascia per intero. La libertà dell’interprete rimane, pur incanalata dall’autore, entro certe prescrizioni, entro certi scherni. A prima vista potremmo dire che Scarlatti chiedeva all’esecutore un numero molto inferiore di abbellimenti rispetto a Couperin. In realtà la pagina scritta mette a nudo una più generale differenza di civiltà: diversamente da Scarlatti, Couperin vive sotto il regno di quel Re Sole che fissava rigide etichette ai comportamenti più minuti. È naturale che anche l’esecuzione di una melodia cembalistica osservasse regole fissate nel modo più accurato possibile. Eppure il modo di tradurre sonoramente quei segni non era univoco. Ancora oggi i musicologi dibattono sulla resa migliore di ognuno di quei segni. Ma sanno che la «resa migliore» da ciascuno di loro suggerita è solo una delle tante rese, possibili a quel tempo.
Con tutta probabilità, lo stesso autore non avrà eseguito due volte il proprio pezzo in maniera identica. I segni d ‘abbellimento sono dunque interpretabili come «stenografie orientative», che ogni esecutore traduce in base alle proprie conoscenze oggettive prima di tutto, ma poi in base al proprio gusto e, perché no, al proprio spirito virtuosistico. Quanto alla scarsità di segni nella pagina di Scarlatti, come in quelle di molti altri autori del tempo, la si può attribuire alla predilezione tutta francese per le broderies, oltre che al pur breve scarto generazionale che lo separa da Couperin. Ma la differenza principale s’è già detta: Couperin cerca di fissare il più possibile; Scarlatti invece interviene solo nei punti che gli paiono essenziali, e lascia all’esecutore il resto. Un resto che poteva essere manipolato con estrema esuberanza.
Al musicista di oggi si affaccia allora il non semplice dilemma: rispettare la pagina scritta (e dunque inserire abbellimenti solo là dove l’autore li ha indicati, resi nel modo il più possibile standardizzato), o rispettare l’uso del tempo (e quindi sentirsi libero di improvvisare)? I più optano per la prima soluzione: meglio una bellezza convenzionale che una bellezza a rischio!

(Amadeus n. 70 settembre 1995)