di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Nel primo atto delle Nozze di Figaro, il Conte scopre, nel precoce Cherubino, un invadente e pericoloso rivale in amore e decide di metterlo a posto una volta per tutte: «Non più andrai, farfallone amoroso, notte e giorno d’intorno girando, delle belle turbando il riposo, narcisetto, adoncino d’amor». Non ci sono certo soldati che marciano, in questa scena. Eppure la musica è inconfondibilmente quella di una marcia militare nettamente scandito è il passo; poi c’è quella melodia distesa sulle note dell’accordo, le note dei segnali militari (proviamo a ricantarci la pagina mozartiana dalle parole «delle belle turbando il riposo») Come si spiega una marcia militare quando non c’è nessuno che marcia realmente, sia pure su un palcoscenico? Abbiamo visto nel numero scorso che la marcia nasce sul campo militare, per far muovere i soldati in modo sincronizzato. Da questo fine pratico, la marcia passa ad assumere un significato illustrativo: Lully e Händel la usano per le scene teatrali dei trionfi. È l’uso che continua fino alla marcia trionfale dell’Aida, e oltre. Ma l’impiego della musica marziale non si ferma qui. Nell’esempio di Mozart, il campo militare è evocato in maniera abbastanza esplicita: il conte canta su un motivo di marcia per suggerire all’ascoltatore la punizione riservata a Cherubino: andrà a fare il soldato. Mozart si ripeterà quattro anni dopo, in Così fan tutte. Qui la musica marziale accompagna la ricomparsa di Ferrando e Guglielmo travestiti da soldati stranieri (lo scopo dei nostri eroi è di mettere alla prova, incauti, la fedeltà delle rispettive amanti). Quando il ritmo di marcia passa sulle bocche dei puritani Giorgio e Riccardo, nell’ omonima opera di Bellini, il significato sale dal piano materiale a quello morale: «Suoni la tromba e intrepido io pugnerò da forte: bello affrontar la morte gridando: “Libertà”». Il loro è un giuramento privato, un patto segreto. Ma la musica, col suo inequivocabile ritmo puntato, che domina da cima a fondo, fa già marciare le loro menti e i loro cuori, se non ancora i loro passi. E con loro fa idealmente marciare l’ascoltatore, che non esita a investire la scena della carica simbolica impressagli da Bellini: Giorgio e Riccardo si preparano, appunto, a eroiche gesta.
Il simbolismo si fa ancora più sottile nei Maestri cantori di Norimberga di Wagner.
Qui il mondo militare è definitivamente fuori questione. I Maestri cantori sono una corporazione assolutamente pacifica di musicisti (che non implica che i musicisti debbano essere per natura una corporazione pacifica …). Ma il tema che li contraddistingue, fin dall’introduzione dell’opera, e ancor più nella scena della loro apoteosi, è un tema di marcia. Il significato è procurato qui mediante una metafora: da quello di impresa eroica, com’era ancora in Bellini, a uno più astratto di maestosità, di solennità. E da qui, un passaggio per così dire «politico»: chi si propone in questa veste musicale solenne e autorevole è qualcuno che merita rispetto, attenzione, obbedienza. Quello stesso ordine di significati idealizzati che cogliamo nel semplice camminare a passo di marcia (camminare con lo stesso passo porta con sé significati di ordine, obbedienza autorità…) viene traslato nell’espressione sonora: la musica marziale. Nei Maestri cantori il gioco è scoperto: la loro solennità è sussiegosa, la loro pretesa al rispetto e all’obbedienza è quella di chi crede dogmaticamente alla verità inoppugnabile delle proprie regole, di contrappunto o d’altro. Quanti maestri, cantori e non cantori, nella scuola d’un tempo hanno cullato sull’ un due dei loro marcianti scolaretti la dolce immagine della propria insindacabile autorità? Wagner si fa beffe dei suoi maestri cantori: prima sublimandoli nel ritmo pomposo di una marcia di parata, poi ridicolizzandoli, nell’atto terzo, col riproporne il tema accelerato e fiorito dei trilli irrispettosi del clarinetto. Torniamo a considerare la scena trionfale dell’Aida. Verdi ci presenta in successione tre gruppi: popolo, donne, sacerdoti. A ogni categoria fa corrispondere un genere diverso di musica: solenne e marziale quella del popolo, festosamente dispiegata quella delle donne. Ma attenzione alla musica dei sacerdoti: è una mistica preghiera? una commossa evocazione? un cantico di osanna? Niente di tutto ciò: il canto dei sacerdoti è scandito, inequivocabilmente, dal ritmo squadrato e vigoroso di una marcia. Ecco una nuova pista nella mappa già lussureggiante della nostra protagonista: la marcia nel culto. Ancora una volta, non è certo la funzionalità fisica quella che ne giustifica l’uso: in chiesa non serve marciare. Però «Serve» – o meglio è intrinseco al concetto stesso di chiesa gerarchizzata – assumere un atteggiamento di disciplina, di sottomissione alla norma, di obbedienza all’autorità. La marcia è il simbolo sonoro di questo atteggiamento, di cui Verdi accentua la severità ricorrendo a un altro artificio compositivo: il fugato. Se l’esempio verdiano è indiretto, il repertorio religioso tradizionale ci offre molti esempi «diretti» di ritmi di marcia. Ne vedremo alcuni singolari nel prossimo numero. Esistono marce religiose cantate nelle chiese; esistono marce funebri, marce nuziali. Proviamo a pensarci: che senso avrà mai accompagnare a passo di marcia un funerale? Peggio ancora: un matrimonio?
(continua)

(Amadeus n. 67 giugno 1995)