di Carlo Delfrati
Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.
Il meraviglioso concerto dell’Opera 10 di Vivaldi…». Sulla pagina il commento del critico continua, ma il lettore puntiglioso s’arresta: quale sarà mai, fra le 778 composizioni di Vivaldi, la «meravigliosa opera» che porta il numero 10? Consulta il catalogo più aggiornato, pubblicato nel 1974 dal tedesco P. Ryom, e al numero 10 legge:
«Sonata in Re maggiore per violino e continuo». Quest’opera non quadra col commento, che parla di un «concerto», non di una sonata, e il lettore scopre l’esistenza di un altro catalogo, del francese Mare Pincherle, che nel 1948 aveva assegnato il numero 10 a un Concerto per violino e archi in La minore. Non ci siamo ancora: il commento menziona come solista il flauto, non il violino, e la tonalità è Re maggiore. Non risolve l’enigma nemmeno il catalogo vivaldiano dell’italiano Antonio Fanna: al numero 10 stanno i Concerti per corno! Prima di farsi cogliere dalla disperazione, il nostro (sempre più improbabile) lettore cerca la verità nell’edizione a stampa, iniziata nel 1947 da Gian Francesco Malipiero. Niente da fare: al numero 10 figura addirittura un concerto per due clarinetti e due oboi. Quando sulla pagina del critico compare finalmente il titolo del «meraviglioso concerto Opera 10, «La Notte», il lettore lo prende come un invito a desistere: le dotte tenebre della musicologia sembrano precluse al comune mortale. Peccato perché se avesse fatto un ultimo passo l’infelice lettore si sarebbe accorto che l’editore MichelCharles Le Cène aveva pubblicato nel 1729-30, ad Amsterdam, sei concerti di Vivaldi, ai quali aveva assegnato il numero 10. Il nostro critico si riferiva proprio a questi: e infatti qui si trova La Notte. Una legittima curiosità merita a questo punto di venire soddisfatta: che numero porta, La Notte, nei successivi cataloghi? Ecco: 439 nel Ryom, 342 nel Pincherle, 455 nel Malipiero, 6 (anzi: VI) virgola 13 nel Fanna. Ora anche il nostro lettore è avvertito: quando vorrà citare «il meraviglioso concerto dell’Opera 10» senza ingenerare equivoci, dovrà indicare il numero preceduto dalla sigla del catalogatore: RV (che sta per Ryom Verzeichnis, cioè cata logo) 439; oppure P (Pincherle) 432; oppure M (Malipiero) 455; oppure F (Fanna) VI, 13; oppure: Le Cène op. 10 n. 2 (Le Cène è l’unico rimasto orfano di sigla: in verità la sigla si usa solo per gli autori dei cataloghi, non per gli editori). Queste sigle spiegano certi piccoli misteri nella designazione delle musiche del passato: la «K» che accompagna le opere di Mozart non ha nulla di kafkiano; indica semplicemente l’iniziale del suo più autorevole catalogatore, Ludwig von Kochel. Anche Domenico Scarlatti si ritrova cucito addosso una «K» e stavolta il marchio appartiene al grande clavicembalista Ralph Kirkpatrick. Naturalmente neanche questa numerazione è l’unica. Per esempio le opere di Scarlatti sono state catalogate diversamente da Alessandro Longo (L è la sigla) e da Giorgio Pestelli (P).
Il bisogno di assegnare un numero d’ordine alle opere musicali è dovuto al fatto che raramente esse portano un titolo, come avviene per La Notte di Vivaldi; solo un numero potrebbe individuare una delle 555 sonate di Scarlatti. E, per le opere antiche, questo è uno dei compiti assunti dai musicologi: solo dall’Ottocento infatti i compositori hanno preso l’abitudine di assegnare un numero ai propri lavori, in genere seguendo l’ordine della loro pubblicazione a stampa. Quando l’opera resta manoscritta, l’autore di solito non si preoccupa di numerarla, come è il caso delle sonate di Scarlatti. Prima dell’Ottocento l’uso di numerare la propria opera esisteva, ma era sporadico: meno frequente era infatti la pubblicazione. I Mottetti festivi di Ludovico da Viadana sono uno dei primi esempi noti di numerazione: risale al 1597 e porta l’indicazione «Opera 10». Stavolta il numero 10 non sarà ambiguo e non richiederà sigla: la produzione di questo autore infatti è ristretta, e non diventa necessario numerarla; anzi, anche quando nel Settecento si diffonde l’uso della numerazione, questa non si applica normalmente alle opere vocali; bastava indicarle con il loro titolo o con le parole iniziali del canto.
Tra le prime composizioni strumentali numerate sono gli Affetti musicali di Biagio Marini: Opera 1. Come abbiamo visto con Vivaldi, i catalogatori moderni tengono conto fino a un certo punto del numero d’opera riportato sulla prima edizione: non solo perché veniva assegnato il più delle volte dall’editore in modo piuttosto casuale, ma perché riguarda appunto le opere pubblicate quando l’autore era in vita; le tante altre rimaste manoscritte, che spesso sono la maggioranza, sono state pubblicate (e molte aspettano ancora di esserlo) nel nostro secolo. Ed ecco che allora i musicologi si pongono il problema di come numerarle. Il compito è relativamente facile se si può ricostruire la data di composizione: la numerazione segue allora la cronologia, come avviene nel catalogo «K» di Mozart.
Ma il più delle volte questo compito è impossibile, e allora il criterio sarà un altro. Ciò spiega le grandi diversità in catalogazioni come questa vivaldiana: non è pedanteria di studiosi, è la ricerca di un ordine sempre più chiaro e funzionale.
(Amadeus n. 29 aprile 1992)