di Joachim Kaiser

(Pubblicato sui n. 14 e 15 di Amadeus, gennaio-febbraio 1991)

In un celebre testo dedicato ai grandi interpreti del nostro tempo,
mai tradotto finora in Italia, lo studioso tedesco Joachim Kaiser ha analizzato sullo
sfondo della Mitteleuropa della seconda metà del secolo alcuni tratti caratterizzanti
la cosiddetta «cultura del concerto», con i suoi tic, i suoi riti e il particolare rapporto
fra interpreti e pubblico.

          Nell’Europa centrale non ci si meraviglia di trovare un pianoforte in una scuola, in una sala comunale, in una trattoria, a bordo di un battello fluviale o nel soggiorno di una casa. Non si può sfogliare un giornale di programmi radiofonici, dare una scorsa a una colonna per affissioni, seguire le presentazioni televisive dei concerti senza rivolgere la propria attenzione alla musica pianistica e ai pianisti. L’epoca in cui le lezioni di pianoforte, accoppiate a quelle di danza, costituivano un «dovere» per le studentesse del liceo è definitivamente finita, ma i suoi effetti perdurano ancora. Anche oggi, infatti, nonostante una civiltà che costringe a vivere in piccoli appartamenti e rende difficilmente sopportabile ai familiari e ai vicini le ore di esercizio e di svago trascorse alla tastiera, il pianoforte conserva una vasta cerchia di appassionati.
Gli insegnanti non muoiono certo di fame, nuovi talenti si impongono sulle pedane, i dischi e gli spartiti di pianoforte si vendono bene. Nessuno si lamenta dei lunghi articoli che appaiono sui quotidiani per recensire la più recente interpretazione della Wanderer-Fantasie (di Franz Schubert, n.d .r.) eseguita dal signor X.

La conquista del concerto
          Una sera dopo l’altra, nelle grandi e piccole città del nostro ambiente culturale, persone vestite con eleganza – non così numerose come a un incontro di calcio, ma talvolta, comunque, nell’ordine delle migliaia – si riuniscono per ascoltare un pianista. Senza dubbio, il vestirsi in modo elegante per andare al concerto appare assai più naturale a un cittadino dell’Europa centrale che non a un inglese – sebbene la libera cultura concertistica borghese abbia attecchito in Gran Bretagna già agli inizi del Settecento, mentre in Germania e in Austria «regolari» spettacoli concertistici furono introdotti solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo.
Esiste dunque una cultura concertistica da oltre duecento anni. Questa cultura non è un regalo; deve essere conquistata, conservata e difesa. Poiché talora anche qui, nella Mitteleuropa, sembra che il desiderio nobile, individuale e socievole del pianoforte appartenga nella sua espressione originale a un’epoca ormai in declino.
Si potrebbe anche sospettare che, in un’epoca in cui il concerto amatoriale e domestico è in declino, minacciato com’è dalla cultura discografica e dei mass-media, l’indispensabile interesse per delle ottave eseguite in modo più sciolto o per l’attacco sensibile di un mordente vada scemando e sia, in certa misura, il capriccio di una casta in estinzione.
Il concerto stesso rappresenta una forma benemerita e necessariamente anacronistica di un pubblico esercizio artistico. Forma questa, che dovrebbe sopravvivere fintantoché le Fughe di Bach, le Sonate di Beethoven, gli Studi di Chopin e gli Intermezzi di Brahms continueranno a essere parti integranti della nostra esistenza spirituale e musicale e stimoleranno interpretazioni spontanee e personali.

Un eroe solitario
          Mentre la divisione del lavoro, nel senso più ampio del termine – cioè di lavoro d’équipe, viene applicata non solo nel settore tecnico ma anche in quello umanistico e letterario, il pianista così come il direttore d’orchestra, è rimasto un grande solitario. Ogni volta che un interprete si presenta da solo al pianoforte a coda per affrontare un’opera, un’orchestra e un pubblico, spesso lo circonda l’aura del medico-stregone pronto all’esorcismo; la stessa aura che circonda il direttore d’orchestra. E non è affatto un caso. Non vi è altro ruolo interpretativo che dipenda ancora, e per intero, dal singolo, dalla sua sensibilità, dalla sua forza creativa e dal suo stato d’animo come quello del concertista di pianoforte. Persino il violino solista, persino la primadonna hanno bisogno in genere di un accompagnatore o di un’orchestra. Anche i direttori d’orchestra, che all’occasione vogliono apparire così soli e grandi, sarebbero morti senza l’eco di un’orchestra viva. .

Una bella sequenza di immagini di Artur Rubinstein.

Solo il pianista e naturalmente anche l’organista; seppure in modo molto diverso, meno palese, meno concertante e individuale – si presenta da solo e nei casi del lavoro gruppo, della divisione dei compiti e del controllo multiplo e reciproco offre l’immagine dell’eroe, del personaggio grande e individualista. Ha qualcosa dell’eroe solitario, del gladiatore. Finché questo «personaggio» sarà in grado di suscitare interesse, finché si vorrà ancora percepire il suo giubilo, le sue lacrime segrete, e dunque udibili anche dall’ultima fila, continueranno a esistere i concerti pianistici.

L’epoca dei virtuosi
          Questa solitaria indipendenza del pianoforte può essere messa in relazione col fatto che gli strumenti a tastiera rappresentano, sin dai tempi di Johann Sebastian Bach, la dimensione intima di molti grandi compositori. Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Chopin, Liszt, Brahms e Reger si affermarono come pianisti. Scrissero quindi tutti «per se stessi», resero il pianoforte la sede privilegiata dei propri esperimenti. Per Beethoven il pianoforte era, per così dire, la punta più avanzata del suo linguaggio compositivo; è qui che egli iniziò a provare, nella Patetica, nella Sonata al chiaro di luna, nella Sonata in re minore op. 31 n. 2, determinati spunti formali e dinamici. Le sorprendenti innovazioni dell’espressione sinfonica o della polifonia quartettistica arrivarono in seguito sulla scorta delle scoperte pianistiche.   L’identico percorso avvenne per Brahms. Con Chopin, Liszt, D’Albert e Rachmaninov s’impone poi la figura dell’autore di grande ingegno che è, nel contempo, anche virtuoso. Risulta perciò quanto mai logico che sia stato il più celebre di tutti i pianisti, Franz Liszt, a introdurre la formula della serata solistica, mentre in passato si erano sempre preferiti programmi (troppo) variegati, in cui si alternavano i cantanti, l’orchestra e gli strumenti solisti. La serata pianistica, il concerto dedicato a un unico compositore doveva essere «Conquistato». Oggi una (troppo) coraggiosa ricerca di stile rende talvolta il programma un esercizio. Occorre che il cambiamento non coincida sempre con una mancanza di stile. Nel 1835, era ancora possibile che Liszt interpretasse per la prima volta davanti al pubblico di Parigi la Sonata al chiaro di luna di Beethoven, suonando al pianoforte solo il secondo e il terzo movimento; l’Adagio introduttivo, cui la Sonata in do diesis minore deve il suo nome, fu eseguito dall’orchestra.

La diffidenza dei moderni
          L’epoca di Liszt è tramontata. Quando si riflette sull’importanza del ruolo che il pianoforte ha rappresentato per i compositori e i virtuosi del XIX secolo, non si può non rilevare la decisione con cui gli autori del Novecento ne prendono le distanze. Mahler, Stravinskij, Strauss, Webern e Berg ci hanno lasciato soltanto un’esigua produzione pianistica. E queste opere, specie per quanto riguarda Stravinskij, assumono spesso le caratteristiche del pezzo d ‘obbligo. Anche nel caso di Hindemith, la tastiera non riceve un ‘importanza focale; così pure in Schonberg. Solo Prokofiev e Bartók – che vanno comunque considerati come autori «moderatamente moderni» – scrissero numerosi e sensazionali concerti, sonate, brani per il loro strumento preferito.
Per alcuni compositori moderni il suono del pianoforte è forse troppo associato al «Salon», al titanismo tardoromantico. La preferenza per l’orchestra o per i piccoli ensembles con fiati e archi si spiega anche col fatto che oggi gli stessi dilettanti dotati non sono in grado di suonare in modo sensato le composizioni pianistiche del XX secolo – siano esse di Schönberg, Krenek o Boulez. La musica pianistica contemporanea non può più contare su quella infrastruttura di profani interessati e dotati di talento la cui esistenza deve essere stata naturale all’epoca di Mozart o di Brahms. L’impulso di comporre musica con lo scopo di renderla «popolare» (come fu a suo tempo il caso del Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di Chopin, diventato un motivo di successo) non sussiste più. Solo le Sonate di Hindemith e un paio di lavori di Debussy, Ravel e Bartók si sono spinti oltre la ristretta cerchia dei professionisti.

La questione del repertorio
          È un dato di fatto: la cultura concertistica, talvolta in effetti anacronistica, seguita comunque a offrire la contrapposizione fra grandi «singolarità» e il gigantesco repertorio della musica pianistica tradizionale. Solo eccezionalmente le composizioni moderne vengono inserite nei programmi concertistici ordinari.

Vladimir Ashkenazy al Teatro Ponchielli di Cremona.

La reputazione di un pianista dipende da come affronta il XVIII e, soprattutto, il XIX secolo. Per la musica del Novecento vi sono alcuni specialisti eccellenti. A eccezione delle opere scritte con chiara inclinazione pedagogica, la musica pianistica del XX secolo non appartiene al consolidato patrimonio della musica domestica, da eseguire in famiglia. La situazione può anche cambiare ma, dal momento che la disponibilità a spendere tempo ed energie per la musica da suonare in casa tende a diminuire, è da chiedersi se i difficili brani degli ultimi decenni saranno mai integrati nel repertorio domestico.
Per quanto tutte le persone coinvolte nella cultura concertistica siano così «Volonterose» per quanto i trucchi pedagogici siano così elucubrati, le tecniche del tagliare e manipolare i nastri registrati così ingegnose, e le premesse generali così favorevoli, l’intera attività musicale si rivolge a un obbiettivo, a un posto vuoto verso cui guarda. È la capacità interpretativa ottimale, realizzata da un’individualità in un preciso momento. Nulla può sostituire questa individualità, mascherare la sua mancanza.

Virtuosi e pubblico
          Per quanto tutte le persone coinvolte nella cultura concertistica siano così «Volonterose», per quanto i trucchi pedagogici siano così elucubrati, le tecniche del tagliare e manipolare i nastri registrati così ingegnose, e le premesse generali così favorevoli, l’intera attività musicale si rivolge a un obbiettivo, a un posto vuoto verso cui guarda. È la capacità interpretativa ottimale, realizzata da un’individualità in un preciso momento. Nulla può sostituire questa individualità, mascherare la sua mancanza.

L’originalità interpretativa
           I virtuosi, i grandi interpreti del nostro tempo riempiono questo posto vuoto. È abituale sparlare dei «virtuosi» fra i fini conoscitori d’arte; come se si potesse rinfacciare, anche a uno solo di coloro che sanno suonare con autorevolezza da un decennio o più, di essere soltanto un «mero virtuoso». In verità, i grandi – tali non solo grazie a una moda o a un gradevole aspetto esteriore o a una circostanza aneddotica – possiedono tutti anche un’originalità interpretativa. Ogni pubblico è al tempo stesso ingenuamente entusiasta e candidamente crudele. Incline sia all’ammirazione meccanica sia al tradimento intenzionale: «X non ha mantenuto le promesse dell’esordio» «Y prima suonava in maniera più brillante» «Z è diventato sterile». In frasi del genere si agita spesso un’inconsapevole bramosia di distruzione. Una fama durevole si rafforza solo se sopporta questo desiderio di distruzione. I gladiatori non devono soltanto giocare, devono anche combattere. Si impegnano perché così vuole il pubblico, questo animale feroce.
I virtuosi devono possedere doti particolari. In loro, la sensibilità deve unirsi alla sana e robusta costituzione. Attraversano i continenti e devono offrire – oltre un centinaio di volte all’anno, per decenni il livello oggettivo della massima cultura interpretativa e insieme qualcosa di personale e di inconfondibile. Che vita! Tutti sanno parlare diverse lingue, conoscono i manager, i potenti, gli alberghi e i buoni ristoranti, e sono assolutamente abituati ad essere ammirati.

L’auditorium gremito della Carnegie Hall di New York in occasione di un concerto celebrativo della casa di pianoforti Steinway.

Un pubblico da conquistare
          Rubinstein raccontava di annoiarsi se rimaneva fermo a lungo nello stesso posto: è evidente che aveva bisogno di cambiare pubblico in continuazione, bisogno di un pubblico sempre nuovo, da conquistare.
Arrau pensa che solo un continuo cambiamento d’aria sia stimolante e mantenga il fisico sano ed efficiente. Le celebrità non possono certo aspettarsi un cieco entusiasmo. Ma la disponibilità a lasciarsi entusiasmare devono presupporla, nel loro pubblico. A ciò devono dedicare il loro impegno totale, assoluto. Non esiste espressione meno eclatante, per definirlo. Già «abnegazione» suonerebbe troppo passiva. Rubinstein ha affermato che se un pianista non versa un po’ di sangue e non perde qualche chilo, allora non ha tenuto un buon concerto. Non è affatto un’esagerazione: ero presente quando, in Francia, Gieseking si ferì proprio all’inizio del Concerto in si bemolle minore di Ciaikovskij e terminò il brano in «fortissimo» sui tasti che diventarono via via più rossi. Cortot, ormai anziano, non riusciva più a reggere strapazzi simili. A Londra, durante il Concerto in fa minore di Chopin – un lavoro che aveva suonato migliaia di volte – perse il filo, mettendosi, per così dire, nei pasticci. Con gesti generosi, fece esplicitamente capire che la colpa era soltanto sua e non degli orchestrali; che era lui ad aver sbagliato. I nervi devono essere d’acciaio. Molti non ce la fanno, non resistono. Quando Arturo Benedetti Michelangeli, forse il più grande talento pianistico della sua generazione, deve suonare, gli organizzatori si disperano. Per quanto siano accurati preparativi, per quanto i biglietti siano cari, egli è comunque capace di annullare il concerto; così che qualche organizzatore addirittura esulta se il pianista rinuncia per tempo, prima che l’enorme macchina dei preparativi venga messa in moto. Il fenomenale Vladimir Horowitz riapparve in pubblico dopo una pausa depressiva protrattasi per parecchi anni. I newyorkesi passarono una notte in piedi per acquistare il biglietto! Fu un evento: quasi nessuno pensava più di avere ancora l’occasione di ascoltare Horowitz.
Byron Janis, l’unico allievo di spicco di Horowitz, prima dei concerti s’informa sempre nervosamente sulle previsioni meteorologiche. Se piove, allora il pianoforte a coda avrà un suono poco brillante, opaco. Il giovane Glenn Gould, eccentrico senza pari, afflitto da malattie, si caratterizzava per le distrazioni e l’insufficienza circolatoria, e suonava di rado in pubblico e piuttosto malvolentieri. Lo stesso Wilhelm Backhaus, uomo così tranquillo e all’apparenza incontestabile, dopo che un ammiratore folle gli aveva rubato il suo seggiolino dall’Hamburger Musikhalle minacciò di non voler più tornare ad Amburgo, e addirittura di non voler suonare mai più. Per fortuna, restarono soltanto minacce. Non è nostra intenzione provare qui che tutti gli artisti significativi sono degli originali.

Glenn Gould

Tuttavia da questi esempi si può dedurre quanto l’esistenza del virtuoso sia piena di tensione, pericolo e fatica. Bisogna avere profondo rispetto per quegli eroi, dal fisico così spesso debole e gracile, che sono posseduti dalla tormentata passione e dalla missione di esporsi al confronto con i capolavori e alle aspettative di contemporanei, a una «Opinione pubblica mondiale» così invadente e inafferrabile.

Una cultura borghese
          La nostra cultura concertistica, in considerazione sia delle circostanze storiche della sua nascita sia della sua natura e delle sue esigenze, può essere definita borghese. Esiste da circa duecento anni, da quando i musicisti non si sentono più membri naturali di un antico ordinamento corporativo in cui l’ammissione era attentamente regolamentata, e tendono invece verso l’impresa privata in libera concorrenza, con libere possibilità di guadagno: da quando il pubblico, pagando un biglietto d’ingresso, ha accesso ai concerti semi-privati tenuti nelle case, presso circoli e associazioni come ai concerti ufficiali. Negli ultimi duecento anni non si è verificato alcun avvenimento sociologico-musicale più importante di quello rappresentato dalla diffusione della radio e del disco. Le varie attività interpretative sono ora onnipresenti; se si vuole, sono state democratizzate. Il cambiamento si può esprimere in cifre, ma la quantità ha profonde conseguenze qualitative.
La cultura concertistica non è più isolata e, nel contempo, si è modificata, giacché la situazione e la consapevolezza dell’ascolto non potevano restare immutate. Per prima cosa bisogna considerare il fatto che persino in Germania partecipare a un concerto sinfonico fu per molto tempo privilegio, più o meno naturale, della borghesia colta. Già negli anni precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale, Paul Bekker (celebre critico musicale berlinese scomparso nel 1937, che si distinse durante i primi decenni del secolo nella diffusione della musica contemporanea, n.d.r) aveva descritto gli svantaggi di questa condizione con un pathos da lotta di classe: «Il vero pubblico, capace di apportare una collaborazione creativa – diceva – resta ancora fuori dalla porta. Lo si deve nutrire con concerti popolari o resta escluso, apatico; e non riesce a ricavare da questo tipo di attività musicale un incalzante stimolo alla compartecipa­zione».

Arturo Benedetti Michelangeli.

Non siamo troppo sicuri che questo abisso descritto da Bekker si sia nel frattempo colmato. In Inghilterra, ad esempio, un proletario con coscienza di classe evita a quanto pare ancora oggi i concerti o le serate di solisti, là chiamate «recital»: è un mondo al quale egli non appartiene.
Simili insinuazioni sociologizzanti agiscono sempre in modo assai vago e provocano esempi opposti. Ma non stiamo dimenticando troppo in fretta, esaltati dal miraggio del libero ingresso a pagamento, in quale misura la serata concertistica appaia ritualizzata? Bisogna essere degli «iniziati» per osare andarci. Si devono considerare scontate, dare per certe molte cose. Per esempio, si deve sapere come ci si veste per una sera all’Opera o per un concerto in chiesa, quando si applaude, che cos’è una cadenza in un Concerto. Occorre essere abituati a non fumare per lungo tempo durante una Sinfonia di Bruckner, considerare una pausa generale come avvenimento e non come un vuoto.

Il rito iniziatico
          Si deve sapere che cos’è un «bis» e perché la solista, quando si presenta all’applauso, stringe la mano non solo al direttore d’orchestra, ma anche a un violinista e a un violoncellista (ovvero al primo violino e al primo violoncello). Tutto ciò lo si deve assolutamente sapere. Non può essere altrimenti. Ma chi non lo sa, chi non è iniziato a questi riti potrebbe sentirsi come se assistesse a un gioco di cui non conosce le regole.
Diverte molto, questo gioco? Anela veramente l’ingenuo a ripetere l’esperienza di una serata concertistica? Gli appassionati di musica non hanno la minima idea di quante cose siano per loro scontate. Quando John F. Kennedy invitò il violoncellista Pablo Casals, il pianista Mieczyslav Horszowski e il violinista Alexander Schneider a tenere un concerto alla Casa Bianca – concerto che si tenne il 13 novembre 1961 davanti a un pubblico di personalità illustri – si applaudì alla fine di ognuno dei quattro movimenti del Trio in re minore per pianoforte e archi di Mendelssohn persino dopo il movimento lento.
In quella occasione era evidente che chi applaudiva avesse la precisa sensazione che qualcosa non fosse a posto, poiché alla fine l’applauso risuonò più disinvolto di quanto non fossero state le timide testimonianze di spontanea partecipazione avvenute nel corso dell’esecuzione.