di Callisto Cosulich

(Pubblicato sul n. 3 di Amadeus, febbraio 1990)

Lo stretto legame tra Vienna, Berlino e Hollywood, che fu a suo tempo determinante
nello sviluppo e nella caratterizzazione del cinema americano,
non ha avuto un’appendice altrettanto positiva in campo musicale.
È sufficiente dare un’occhiata all’anagrafe dei compositori delle musiche per film
che hanno inciso nel cinema hollywoodiano per constatare che i maggiori
hanno avuto origine nella vecchia Europa.

Il cinema non ha insistito molto su Schumann. Di film su episodi della sua vita se ne contano appena tre. Anche la sua musica è stata usata moderatamente: lo ha fatto Luchino Visconti in Ludwig, ma subordinandola a quella di Wagner, personaggio-chiave del film sul re folle di Baviera; maggiore spazio le ha concesso John Schlesinger in Madame Sousatzka, dove il Concerto in la min. per pianoforte e orchestra non costituisce un mero elemento di contorno, ma penetra nel tessuto della vicenda, offrendo al giovane pianista indiano, infedele allievo della protagonista, l’occasione per il suo trionfale debutto.
Quanto alle tre biografie, trascurata per forza di cose la prima, Träumerei diretta nel 1944 da Harald Braun, che fu l’ultimo film nazista in omaggio ai «grandi tedeschi» del passato e venne travolto dalla disfatta, senza riuscire a essere esportato, né ripreso alla fine della guerra, vale la pena di soffermarsi anzitutto su un particolare della seconda: Song of Love (Canto d’amore), diretto nel ’47 per la Metro Goldwyn Mayer da Clarence Brown, il «regista di fiducia» della Garbo, con il triestino Paul Henreid nel ruolo di Schumann, la luminosa e volitiva Katharine Hepburn in quello di Clara Wieck e il giovane Robert Walker nei panni di Brahms. Quest’ultimo era stato imposto dallo stesso Louis B. Mayer, perché l’anno prima aveva impersonato Jerome Kern in Till the Clouds Roll By (Nuvole passeggere) di Richard Whorf. Ci si può domandare cosa c’entrasse Brahms con uno dei più popolari autori di «musicals» e di canzoni degli anni Trenta e Quaranta. Niente evidentemente, ma non per il boss della Metro, il quale sosteneva, invece, che tra i due esistesse un’affinità addirittura elettiva, tale insomma da giustificare l’uso in entrambi i film dello stesso attore.
L’episodio la dice lunga su quella che fu a suo tempo la interpretazione hollywoodiana della musica dei grandi romantici. Ne veniva colto solo il lato orecchiabile, che dalla cultura molto approssimativa dei «tycoons» di Beverly Hills veniva confuso con le melodie dei «musicals» e pareva il miglior commento possibile alle «love stories» attribuite agli artisti d’epoca, immaginati a pendolare tra la vita di corte e quella di bohème.
L’asse Vienna – Berlino – Hollywood, a suo tempo determinante nello sviluppo e nella caratterizzazione del cinema statunitense, ha avuto un’appendice non altrettanto positiva in campo musicale. Se diamo un’occhiata all’anagrafe dei compositori di musica per film che hanno inciso nel cinema di Hollywood, constatiamo che i maggiori erano di provenienza mitteleuropea.
Emigrati oltreoceano, essi si adattarono con estrema disinvoltura alle esigenze locali, che rivelavano una particolare voluttà nel ridurre la musica dei romantici a livello della musica leggera per orchestra d’archi, trasferendola dalla bacchetta di Fürtwangler a quella di un qualsiasi Kostelanetz o Melachrino. Per bisogno, e con un po’ di cinismo, “il Mitteleuropa strizzava l’occhio al Midland statunitense.

Vicende da «romanzo rosa»
Naturalmente l’abito musicale faceva il monaco. Costituiva cioè l’involucro di vicende sentimentali, da «romanzo rosa, eleggendo i compositori a improbabili protagonisti di travagliate storie d’amore. Schumann e Clara Wieck, promessi sposi ferocemente ostacolati dal padre di lei, sembravano fatti su misura per una vicenda del genere. Naturalmente tutto finiva per il meglio e il film glissava sul triste destino del musicista, costretto a finire i suoi giorni in un manicomio.
Anche il terzo film sulla vita di Schumann, Frühlingssymphonie (Sinfonia di primavera) di Peter Shamoni, uno dei rari realizzati in virtù di accordi produttivi tra le due Germanie, glissa sulla tragica fine del compositore. Ha però l’onestà di tenere aperta la conclusione, in modo da lasciar supporre il drammatico futuro di quella coppia. Il film è stato fatto nell’83 e lo si avverte: le sequenze lunghe e tornite di un tempo sono sostituite da rapide carrellate e scene brevi; il musical score è dato da un «Continuum» di brani schumaniani, incisi senza soluzione di continuità, mai offerti nella loro integrità, neanche nelle piccole composizioni, secondo la logica antica dell’«ogni figura un fatto», che qui diviene «ogni nota musicale un fatto». Come nei videoclip, pressappoco.

Acuto pessimismo per il futuro
Quanto agli altri romantici tedeschi, Mendelssohn è stato pressoché ignorato: la sua figura di straforo in Frühlingssymphonie; della sua musica si ricorda l’uso fattone da Max Reinhardt nella versione filmica del Sogno scespiriano, datata 1935, e da Woody Allen nella versione parodistica dello stesso testo, realizzata nell’82 e col titolo A Midsummer Night ‘s Sex Comedy (Una commedia sexy in una notte di mezza estate).
Ben diverso, invece, il trattamento subito da Schubert che è stato oggetto di numerosi film, tra i quali il più popolare è rimasto Leise fl ehen meine Lieder (Angeli senza paradi­ so) , diretto nel 1933 dal viennese Willi Forst (una popolarità che ha raggiunto perfino il Giappone: lo ha utilizzato nel ’36 il sublime Yasujirò Ozu in Hitori Masuki, ovvero Figlio unico, il suo primo film sonoro , mostrandovi la protagonista femminile che si addormenta alla visione della pellicola austriaca, programmata in un cinema di Tokyo).
Ma il più riuscito va probabilmente considerato Sinfonia d’amore, diretto nel 1954 da Glauco Pellegrini, dove non mancano soluzioni originali, come quella dei Capricci di Paganini che si sovrappongono al1’esecuzione della Ottava Sinfonia, determinandone la sospensione e, di conseguenza, la definitiva «incompiutezza».
Resta infine Beethoven, al quale si sono accostati, tra gli altri, due dei maggiori autori di cinema: nel 1936 il titanico Abel Gance con Un grand amour de Beethoven (Un grande amore di Beethoven); nel 1971 il lucido Stanley Kubrick, che usa la Nona in alcune delle scene cruciali di A Clockwork Orange (Arancia meccanica). Nel film di Gance si assiste a una temeraria identificazione dell’autore col suo personaggio: una identificazione che si spinge al punto di soggettivizzare la colonna sonora, nella fattispecie di tornare al cinema muto, là dove il compositore viene colpito dalla sordità.
Nella pellicola di Kubrick l’Inno alla Gioia viene contraffatto dall’uso spudorato di strumenti elettronici. Stavolta il kitsch è usato non più per compiacere i committenti hollywoodiani, bensì per offrire un quadro quanto mai pessimistico del degrado cui si andrà incontro, qualora il nostro futuro imboccasse la strada del «Medioevo prossimo venturo». Un degrado che, ovviamente, non mancherà di coinvolgere ogni aspetto della vita a partire da quello culturale.

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Callisto Cosulich (1922-2015) è stato giornalista e critico cinematografico, autore di alcuni volumi tra i quali “Hollywood ’70”, “La scalata al sesso” e “I film di Alberto Lattuada”.