di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Una parola francese regolarmente registrata nei nostri vocabolari. In francese ouverture significa «apertura», in tutti i sensi. In italiano l’uso è circoscritto all’ambito musicale, e vale preparazione, introduzione, avvio, affidato di norma agli strumenti. Nell’universo della comunicazione questa pratica ha il carattere di un artificio retorico ordinario. Nei testi letterari è la premessa, vuoi presentazione dell’opera, vuoi orientamento sintetico, vuoi altre cose. «Cantami o diva del pelide Achille l’ira funesta…», oppure «Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza…». Nel teatro è il preambolo, il prologo, recitato da un personaggio, nei drammi greci anche da un coro. Il bisogno di non puntare subito al cuore della questione, ma di prepararvi adeguatamente il destinatario, investe anche manifestazioni meno blasonate come, per esempio, una telefonata. Naturalmente l’«apertura» non è obbligatoria; si può anche venire subito al sodo: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura…». Analogamente tante musiche, per il concerto o (più di rado) per il teatro, attaccano, senza preamboli: il capitano delle guardie irrompe subito con la sua passione nel primo atto della Salomè di Strauss, proprio come il tema fondamentale irrompe risoluto sulla scena ideale della Quinta di Beethoven.

Di tutti i termini elencati per indicare, l’avvio, il preambolo del discorso musicale, il lessico italiano contempla, accanto a ouverture, solo introduzione, preludio e, sorpresa, anche sinfonia. Parole che hanno diversa origine, e soprattutto diversi destini: varrà la pena raccontarli separatamente, in altrettante prossime voci. Il loro minimo comun denominatore resta il concetto di «preparazione» ed è questo concetto che consideriamo qui, sotto la parola-ombrello ouverture. La musica di un’ouverture non «apre» necessariamente su altra musica. In un certo senso il concetto di ouverture e quello di musica arrivano a coincidere. Non è con la musica che venivano, e spesso vengono ancora, introdotte le cerimonie, le feste, i proclami,   gli spettacoli…? Dal rito nuziale al telegiornale, la musica ha sempre funzionato come ideale «arte d’introdurre – di aprire»! Si spiega così il nome di ouverture dato a pezzi apparentemente fine a sé, poniamo l’Accademica di Brahms, o la 1812 di Cajkovskij: introduzioni a feste reali o immaginarie. È ancora più naturale trovare, nel repertorio musicale, una quantità di pezzi scritti per «aprire» opere teatrali in prosa: come le pagine scritte da Beethoven, per il Coriolano di Joseph von Collin o per l’Egmont di Goethe; o da Mendelssohn, per il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Il sipario non è ancora alzato, e l’orchestra prepara psicologicamente lo spettatore al dramma. Non importa nemmeno che il dramma sia realmente rappresentato o rappresentabile. Schumann scrive una sua ouverture per il Giulio Cesare di Shakespeare; ma anche per Ermanno e Dorotea di Goethe, che è un poema epico.

A maggior ragione dovremmo aspettarci un’introduzione musicale nei primi melodrammi, quelli della Camerata Fiorentina: un teatro che, cantato non più parlato, sembrava esigere un’introduzione musicale. Ma sui nostri antesignani del melodramma le pratiche del teatro di prosa dovevano pesare non meno di quelle musicali: all’inizio delle loro opere non troviamo ouvertures. Troviamo … un prologo. Cantato, ma pur sempre prologo, alla maniera del teatro di prosa (un recupero di quell’uso: nei Pagliacci di Leoncavallo, che apre appunto con il celebre Prologo cantato). La prima ouverture strumentale arriva molto presto, nell’Orfeo di Monteverdi. Semplice «strepito di fanfare», più che ouverture, preciserà lo studioso. Certamente. Ma l’ouverture operistica nasce proprio così: come «fanfara che annuncia». La successione di segnali araldici che danno sostanza a questa ouverture è del genere delle toccate che Monteverdi può avere sperimentato nelle feste del suo tempo.

Presto l’ouverture operistica acquista forme standardizzate, che si modellano sui coevi modelli formali della musica strumentale. L’ouverture del Seicento veneziano ha le caratteristiche della canzona del tempo: una successione di brevi sezioni diverse fra loro. Lully fissa il modello veneziano della canzona facendolo precedere da un movimento lento e pomposo: è la tipica ouverture francese, che verrà affiancata, poi sostituita, nel primo Settecento, dal modello italiano: quella successione di allegro-adagio-allegro che dal teatro passerà alla sala da concerto, come sonata. Ma proprio quando il compositore trasferisce nella sala da concerto il modello nato nel teatro, l’ouverture operistica imbocca strade nuove. Secondo il proclama che Gluck antepose al suo Alceste, l’ouverture deve «prevenire gli spettatori dell’azione che ha da rappresentarsi, e formare per dir così l’argomento»: non più dunque un pezzo sinfonico a sé, anche nel carattere, com’era stato fin allora, ma una musica che già orienti sul mondo espressivo dell’opera. Il passo è breve alla pratica che trionferà nell’Ottocento: quella di inserire nell’ouverture temi tolti dall’opera stessa, o addirittura di confezionarla esclusivamente con tali temi. La vestale di Spontini è il prototipo illustre di una tradizione che avrà una schiera di cultori, soprattutto tra i compositori italiani e francesi. Su loro cadrà l’anatema di Wagner, che li chiamerà «i fabbricanti di centoni, di potpourrì». È una polemica che aiuta ad approfondire il concetto stesso di ouverture, la sua funzione. Varrà la pena tornarci sopra.

(continua)

(Amadeus n. 72 novembre 1995)