di Rubens Tedeschi

(Pubblicato sul n. 126 di Amadeus, maggio 2000)

È Sostakovic a dominare il panorama musicale
dell’Urss per gran parte del ‘900 tra premi e censure,
umiliazioni e riconoscimenti del regime.

          Šostakovic ha compiuto da poco ventitré anni quando, il 23 giugno 1930, va in scena Il naso al Piccolo Teatro (Malyj) di Leningrado. È ancora un giovane compositore quello che trionfa col secondo la voro, Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, il 22 gennaio 1934 al Malyj e, due giorni dopo, al Nemirovic Dancenko di Mosca. Cresciuto con la Rivoluzione, il musicista appare destinato a rinnovare i fasti dell’opera russa. Il brutale articolo «Caos anziché musica», pubblicato sulla Pravda il 26 gennaio 1936, blocca la sua carriera teatrale. Mentre Prokof’ev, tornato in patria, si ostinerà a bussare alle porte chiuse del Bolšoj – sfavillante vetrina della grandezza dell’impero, come ai tempi dello Zar, Šostakovic comprende che l ‘esposizione scenica moltiplica i rischi. Si ritira nel campo sinfonico e cameristico dove i lavori senza titoli (o con titoli opportuni) incontrano minori ostacoli. La prudenza non gli risparmierà umiliazioni e censure (alternate a premi secondo il classico metodo del bastone e della carota); ma qualche vistosa concessione, verbale e artistica, gli permetterà di sopravvivere sino all’ambiguo «disgelo», ambiguamente celebrato nell’operetta Moskva, Ceremuski.

Dmitrij Šostakovič

Nell’arco concluso il 9 agosto 1975 dalla morte, Šostakovic vive, da testimone e da attore parimenti lacerato, il convulso percorso dell’opera sovietica. Riprendiamolo dall’inizio: nel 1927 il ventunenne Dimitrij assiste coll’entusiasmo di un neofita alla prima esecuzione del Wozzeck di Alban Berg a Leningrado e inizia a lavorare al Naso. Ne scriverà buona parte l’anno successivo, nella casa ospitale di Mejerchol’d che, nel ’29, gli commissiona le musiche di scena per La Cimice di Majakovskij. L’operista in erba, come si vede, è schierato con i due audaci rinnovatori, impegnati ad aggredire, con spericolate esperienze formali, quanto di vecchio è sopravvissuto nella nuova società. Un anno dopo, il 14 aprile 1930, il poeta si uccide lasciando un disilluso addio: «Non consideratemi un pusillanime. Davvero, non c’ è più nulla da fare». In questo clima, Il naso, accolto con entusiasmo dagli avveniristi e con sdegno dai conservatori, piomba nel pieno dello scontro tra gli affamati attorno all’osso dell’opera sovietica. Sarà rivoluzionaria nel soggetto o nella forma? Il tentativo di attualizzare i vecchi testi (Tosca politicizzata nella Battaglia per la Comune o gli Ugonotti trasformati in Decabristi: ingenui anticipi degli stravolgimenti registici oggi diffusi sulle nostre scene) viene abbandonato all’inizio degli anni Venti. Il campo si divide tra chi collega al folklore i temi della rivoluzione e chi li aggancia al linguaggio moderno. La contesa, non soltanto estetica, si inasprisce coll’aggravarsi del conflitto politico.

Nikolaj Gogol’

Col Naso, ricavato da un feroce racconto di Gogol’, Šostakovic mette i piedi nel piatto. L’assessore Kovalev che, un brutto mattino. si ridesta senza naso, incapace di fiutare il vento propizio, è il simbolo della burocrazia immortale: congelata per un attimo. come la cimice di Majakovskij, si sgela al primo sole e ricomincia a succhiare il sangue del popolo. La tagliente ironia con cui Gogol’ aggredisce, nei primi decenni dell’Ottocento il regime di Nicola I, conserva piena attualità: i paradossi letterari, trasformati in provocazioni sceniche e musicali, si fanno ancora più aggressivi. Più sgradevoli per quanti, dalle posizioni di forza conquistate, si preparano a lanciare l’offensiva contro ogni manifestazione di eccentricità. Gli uomini dell’apparato, i nipoti di Kovalev si coalizzano. Il naso, nonostante gli applausi del pubblico del Malyj e l’incoraggiamento dei critici schierati con l’avanguardia, non verrà più ripreso, vivente l’autore, dai teatri sovietici. È l’inizio dell’ondata reazionaria che, nel ’36, travolgerà l’opera successiva, la Lady Macbeth di Mcensk. I crimini e l’adulterio di Katerina Izmajlova che avrebbero offeso il moralismo di Stalin (come, ventun anni dopo, la prude rie veneziana di Andreotti) furono il pretesto per una radicale operazione politica. L’ondata del terrore, formalmente giustificata dall’assassinio di Kirov (ordinato da Stalin), esige l’irregimentazione rigorosa dei cervelli. Scopo delle arti diventa l’esaltazione del migliore dei mondi possibili, secondo la formula del «realismo socialista» contrapposta al «formalismo» borghese. Formula nebulosa, elastica quanto basta per giustificare censure e bandi arbitrari, comminati dal burocrate di turno. Con effetti a dir poco contraddittori nel settore dell’opera che, grazie alla sua popolarità, dev’essere, a un tempo, imbrigliata e incoraggiata.
Veicoli dell’ideologia (adattata di volta in volta alle necessità della propaganda di regime), i teatri si moltiplicano nelle repubbliche periferiche dove compositori russi e locali ossequienti ai dettami del centro, diventeranno i protagonisti di un diffuso quanto sterile colonialismo musicale. Il lettore curioso troverà nei quattro volumi dell’informatissimo Grave Dictionary of Opera decine e decine di titoli, accomunati dall’indirizzo estetico dell’opera-song: melodie popolari applicate a soggetti «patriottici», sul modello del Placido Don del maldestro Ivan Dzedinskij, ribadito da Tichon Chrennikov col retorico centone Nella tempesta, del 1939. Su questa via, al pari dei mastodontici «combinat» industriali, i teatri sfornano in serie macchine sceniche, grevi e inefficienti.
Il limite del «provincialismo». denunciato invano da Prokof’ev, contrasta con l’esigenza della «qualità». Il dilemma è irrisolvibile: quando le maglie della censura si allargano momentaneamente per lasciar passare, nel ’46, un piccolo gioiello come Il Matrimonio al Convento del volonteroso Prokof’ev, la rivolta dei mediocri e l’esigenza di riportare la disciplina impongono un nuovo giro di vite. Due anni dopo, la famigerata Zdanovščina chiude ogni sbocco installando il nefasto Chrennikov al vertice dell’Unione dei Compositori. Vi resterà, inamovibile, per un quarantennio, adattando il potere dispotico alle esigenze dell’ora sfornando, in proprio (o a due mani con sconosciuti «negri»), un fiume di opere (La madre, 1957) e di operette.

Da sinistra a destra: Sergei Prokofiev, Dmitri Shostakovich, Aram Khachaturian, nel 1945.

Fra le tempeste e le grige calme, gli spazi per l’originalità possono soltanto restringersi. Paradossalmente è l’elettroshock dell’invasione nazista ad aprire, nel miraggio di una rinnovata concordia, uno spiraglio: mentre Prokof’ev, impolitico ottimista, affronta il colossale affresco di Tolstoj, anche il cauto Sostakovic si lascia tentare dalla pungente ironia di una commedia di Gogol’, I Giocatori. Per qualche mese, tra il dicembre del 1941 e il ’42, il suo istinto teatrale prende il sopravvento; ma è una fuggevole fiammata. Giunto a un terzo del lavoro (circa otto scene su venticinque), il musicista avverte l ‘impossibilità di seguire Musorgskij sulla strada del Matrimonio. Si impegnerà, piuttosto, a salvare l ‘opera del giovane ebreo Veniamin Flejsman, scomparso nella difesa di Leningrado. Impegno generoso e giustificato: Il Violino di Rothschild, rappresentato nel 1968 a Leningrado con l ‘orchestrazione completata da Sostakovic, spicca per l ‘originalità dell’invenzione e l’acidità dei temi ebraici, come una magnifica promessa.
L’altro varco nel corazzato pessimismo del gran russo si aprirà, come s’è detto, nell’era di Chruscev. Lo zdanovismo temperato (ma non abrogato) fa maturare, nel ’58, un frutto agro-dolce: la «commedia musicale» Mosca, Quartiere dei Ciliegi. Vero e proprio termometro di un’epoca sospesa tra Stalin e Breznev, presenta, in un gradevole involucro di canzoni, coretti e danze, la storiella rosa del nuovo quartiere di Mosca dove le coppie trovano, sventando i tranelli di loschi burocrati, un confortevole nido per il loro amore. «A Ceremuski i ciliegi sono in fiore e i sogni diventano realtà» intona il coro. E Sostakovic, fidando che, dopo la primavera chruscioviana, arrivi l’estate, si lascia andare alla gaiezza: ammicca a Offenbach e a Lehar, al folk e al classico, evitando, nelle ironiche autocitazioni, l’amarezza grottesca del Naso e della Lady Macbeth che, ribattezzata Katerina Izmajlova, risorgerà nel ’63 in una versione letterariamente e musicalmente edulcorata.
Le concessioni, per quanto accompagnate da qualche interessante ritocco, confermano il conformismo prevalente anche dopo la fine di Stalin. L’equivoco eclettismo di Rodion Scedrin, aggiornato nelle Anime morte (Bolšoi, 1977), segna il confine del lecito. Lo supera Edison Denisov presentando, nel marzo del 1986, non in patria ma all’Opéra-Comique di Parigi, L’ écume des jours.

Edison Denisov

          Il caso di Denisov merita un’attenzione particolare: nato il 6 aprile 1929 nella cittadina siberiana di Tomsk, dove si laurea in matematica, si dedica, incoraggiato da Sostakovic, alla musica. Assieme ad Alfred Schnittke e a Sofja Gubaidulina, milita nel «gruppo di Mosca» avido di novità. Il suo primo tentativo teatrale, Ivan il soldato, risale agli anni del Conservatorio e risente, secondo l’autore, dell’influenza di Stravinskij. «Toute ma vie, j’ai voulu écrire un opéra», confida nei ricordi editi in Francia, ma il clima sovietico non è propizio. Tratta da un romanzo surreale di Boris Vian, L’écume des jours – storia di una fanciulla-fiore amata e morta tra i profumi -giacerà per un quinquennio nel cassetto del compositore prima di approdare con vivo successo a Parigi. Qui Denisov trova, nel 1993, una seconda patria ricevendo il prestigioso incarico di orchestrare l’incompiuta opera giovanile di Claude Debussy, Rodrigue et Chimène, prima di spegnersi nel novembre del 1996.
Ci siamo soffermati sulla figura di Denisov, non soltanto per l’interessante personalità, apprezzata dal Mila, ma per il significato emblematico della sua vicenda. Dissolta l’Unione Sovietica, l ‘improvvisato «liberismo» ha provocato, nel settore musicale, effetti simili e opposti a quelli della Rivoluzione d’Ottobre. Rimosse le pastoie ideologiche, è scomparso anche il sostegno statale alle istituzioni, scatenando la diaspora di esecutori e musicisti, come Schnittke che presenta ad Amsterdam, nel 1992, la sua prima opera, Vita con un idiota, nel ’95 ad Amburgo, l‘Historia del Dr. Johann Faust e, sempre nel ’95, a Vienna Gesualdo. Avanguardie di nuova migrazione? Difficile dirlo. In Occidente la concorrenza è grande e il mercato ristretto. In Russia il futuro è imprevedibile. Si può soltanto sperare che la robusta tradizione, nata con Glinka, alimentata da Prokof’ev e da Šostakovic, riesca a sopravvivere anche al caos libertario.