di Rubens Tedeschi

(Pubblicato sul n. 122 di Amadeus, gennaio 2000)

Sono tre zarine, Anna, Elisabetta e Caterina a partire dai primi anni del 1700,
a «importare» a San Pietroburgo le prime compagnie d’opera italiane e francesi.
Sara poi Glinka il primo compositore a tentare, con alterna accoglienza, la strada russa alla lirica.

          Promossa da tre zarine, l’opera in Russia è sempre stata – dall’impero all’Unione Sovietica – un affare di Stato dove la volontà dell’autocrate detta le regole alla schiera succube o riottosa degli artisti. Glinka, nelle sue Memorie, offre un primo esempio: terminata la rappresentazione di Una vita per lo Zar, «venni convocato nel palco imperiale. Il sovrano, per prima cosa, mi ringraziò per la mia opera; poi osservò che non era bello far morire Susanin sul palco. Io spiegai a Sua Maestà che, assente alla prova generale per malattia, non potevo sapere come fosse stata sistemata la scena, ma che, secondo il mio programma, il sipario doveva calare appena i polacchi assalivano Susanin; la sua morte sarebbe stata narrata dall’Orfano nell’Epilogo. Dopo i ringraziamenti dello Zar, della Zarina e poi dei Granduchi e delle Granduchesse che erano in teatro, ricevetti il dono imperiale per il mio lavoro: un anello da quattromila rubli con un topazio circondato da tre file dei più bei diamanti». Nicola I, impiccatore dei decabristi, non tollerava la vista del sangue in palcoscenico. Un secolo dopo, la delicatezza di Stalin, offesa dai delitti dell’applaudita Lady Macbeth di Mcensk, suggerì la feroce stroncatura della Pravda che bloccò la carriera operistica di Sostakovic.

Anna Ivanovna.

Sotto l’originalità si annida la critica. Al despota serve un’arte di parata: decorativa e ossequiente. Sin dall’origine, gli italiani offrono il prodotto adatto alla delizia dei principi di tutta Europa. Stranamente, il gran Pietro, attentissimo alle mode occidentali, ne trascura la musica. Tocca a sua nipote, Anna Ioannovna, importare nel 1731 la prima compagnia d’opera, capeggiata da Giovanni Alberto Ristori che, con tre cantanti e alcuni attori, presenta un repertorio di intermezzi buffi. Cinque anni dopo, il compositore Francesco Araja inizia, con La Forza dell’amore e dell’odio, un’attività destinata a proseguire per un quarto di secolo, dal regno di Anna a quello di Elisabetta. Con una compagnia più nutrita di cantanti, attori e ballerini, Araja presenta un’opera nuova a ogni compleanno imperiale, moltiplicando recite e successi. Con questo sistema l’opera resta tributaria dell’Occidente. Durante i regni di Elisabetta e di Caterina II, la Russia, lontana ma generosa, diviene la mecca dei compositori italiani (Galuppi, Traetta, Manfredini, Paisiello, Sarti, Salieri, Anfossi, Cimarosa) e, dal 1762, dei francesi reclutati dalla grande Caterina. I russi entrano a fatica nel proficuo giro. Dapprima come fornitori di libretti. È, ancora una volta, il vecchio Araja, rimasto a corte dopo il licenziamento della compagnia, a fornire l’esempio: Tsefal i Prokris, rappresentata nel 1755 sul testo del drammaturgo Alexander Sumarokov, è la prima opera in cui cantanti russi intonano versi in russo.

Catterino Cavos.

Inizia una lenta mutazione. Appaiono i primi compositori indigeni, educati dagli italiani come Vasilij Paskevic (l742? – 1797), o inviati a studiare in Italia come il grande Evstignej Fomin (1761-1800) o l’occidentalizzato Dmitrij Bortnjanskij (1751-1821). Contemporaneamente cominciano ad apparire, nei lavori di stile italiano e francese, melodie e stilemi popolari. Sono le anticipazioni di un «colore locale» che, grazie all’orgoglio nazionale alimentato dalle vittorie sulle armate napoleoniche, acquisterà maggior rilievo nelle partiture di Stepan Davidov (1777-1825), di Aleksej Vertovskij (1799-1862, cui si deve la famosa Tomba di Askold, nel 1835) e del veneziano Catterino Cavos (1775-1840). Costui, trasferitosi in Russia nel 1798, vi trascorse il resto della vita dirigendo i Teatri Imperiali e rifornendoli di spettacoli in cui la componente italiana e quella della nuova patria si equilibrano in modo originale: tipico l’Ivan Susanin (1815) sul medesimo soggetto patriottico utilizzato poi da Glinka.
Questi trova il terreno arato. Mentre lo Stato acquista un peso nuovo in Europa e la lingua si eleva ad altezze letterarie con Puskin, anche la musica deve compiere un salto decisivo. Che l’impresa tocchi a un personaggio fragile e delicato sembra uno dei tanti paradossi del mondo russo. Nato all’alba del 20 maggio/1 giugno 1804 (la prima data si riferisce al calendario giuliano in vigore in russia sino al 31 gennaio 1918, la seconda a quello gregoriano in vigore in tutta Europa n.d.r.), Mikhail Ivanovic Glinka, figlio di un capitano in ritiro, cresce in casa della nonna, in un’atmosfera di serra, tra vecchie nutrici che lo rimpinzano di dolci e gli cantano canzoni popolari. A dieci anni, folgorato da un quartetto dell’oscuro svedese Bernhard Henrick Crusell, proclama in stile tacitiano «La musica è la mia vita». A venti, iniziando una carriera ministeriale abbandonata ben presto, brilla nei salotti dove le dame, cui dedica un’incondizionata ammirazione, ascoltano rapite le sue variazioni su un tema della Famiglia svizzera. Sotto l’apparenza frivola che conserverà per tutta la vita assieme a una miriade di malattie reali o immaginarie, stanno tuttavia solide qualità: la cultura che gli assicura l’amicizia di Puskin, e la passione musicale coltivata, con l’orchestra di un ricco parente, studiando di tutto, da Méhul a Cherubini, da Mozart a Beethoven. Quel che manca lo raccoglie nei viaggi in Germania, Francia e Italia. Il grand tour del gentiluomo gli procura l’amicizia di Bellini e Donizetti, la conoscenza del riottoso Berlioz e, soprattutto, la scoperta di una autentica vocazione: «Tutti quei pezzi che avevo composto per compiacere i milanesi, e che erano stati pubblicati in edizioni di lusso da Giovanni Ricordi, mi convinsero di aver seguito una strada che non era la mia e che non potevo diventare onestamente un musicista italiano. La nostalgia della patria mi condusse gradualmente al proposito di scrivere in modo russo».

L’opera ballata
          Al proposito manca però una tecnica adeguata. Gliela fornirà a Berlino l’autorevole didatta Siegfried Dehninun in un corso di sei mesi nell’inverno tra il 1833 e il ’34, completato da quattro concisi manuali (armonia, basso generale, contrappunto, strumentazione) che, un paio d’anni dopo, passeranno dalle mani di Glinka a quelle di Aleksandr Dargomyzskij.

Michail Ivanovič Glinka

Manca ancora un trentennio alla nascita del primo Conservatorio in Russia, e Glinka deve prepararsi come può al gran salto: «dare al nostro teatro un’opera degna». Con questo «progetto in capo», torna in patria alla ricerca di un soggetto adatto. La scelta, suggerita dall’amico Vasilij Zukovskij in uno dei periodici incontri artistici cui partecipano Puskin, Gogol e lo stesso Glinka, cade sul dramma del contadino Ivan Susanin che, attorno al 1612, si era sacrificato per salvare lo Zar Michele (primo dei Romanov) conducendo gli invasori polacchi a perdersi nella foresta russa. L’argomento non era nuovo, ma gradito al Sovrano che accettò graziosamente la dedica dell’opera, ribattezzata, per l’occasione, Una vita per lo Zar.
Il 27 novembre/9 dicembre, favorita dalla rinuncia dell’autore al dovuto compenso, la novità va in scena. Il successo è pieno, anche se non mancano le riserve. Mentre gli intellettuali (oggi diremmo: di sinistra) esaltano la scoperta di «una melodia russa capace di innalzarsi a livello della tragedia», i melomani paragonano «la rozza musica da cocchieri» alla sfolgorante Semiramide di Rossini, accolta poco prima come una rivelazione. Per costoro è intollerabile la pretesa di portare l’opera locale, dalla sua posizione subordinata, al medesimo livello dei capolavori occidentali.
Lo scontro fra i due partiti si arroventa quando il musicista passa dal soggetto storico a un argomento legato alla fantasia popolare: la giovanile ballata di Puskin, dove si narrano le imprese del prode Ruslan che, sconfiggendo nani e giganti in terra e in cielo, riconquista la bella Ljudmila, rapita dal mago Cemamor. Alla sceneggiatura, dopo l’improvvisa morte del poeta, provvede un comitato di amici. Nel settembre del 1841, il drammaturgo Nestor Kukolnik annota nel proprio diario: «Sembra che Ruslan e Ljudmila avrà sei padri dal punto di vista poetico: Puskin, Markievicz, Sirkov, M. Gedeonov, Mifa [Glinka] e me; con Bachturin che ha steso il piano dell’opera si arriva a sette. Secondo il detto popolare, “Il bambino con sette balie è senza testa”. Ma questo non succederà certamente a noi. Per quanto possiamo sbagliare, il genio di Mifa correggerà e nasconderà i nostri errori».

Bozzetto di artista ignoto per una rappresentazione del 1874 dell’opera “Una vita per lo zar” di Michail Ivanovič Glinka.

Nasce così l’opera-ballata, modello per il teatro musicale russo sino.al nostro secolo: una struttura a pannelli che – inseguendo le avventure dei personaggi – allarga i confini delle avventure musicali. Il magico disordine ricorda quello dell’Oberon di Weber, con i fulminei spostamenti dalla realtà alla favola, dall’Europa alla Persia. Liszt, fine intenditore, aveva avvertito in anticipo l’amico Glinka: «Vous etes avec Weber comme deux rivaux qui coutisez la méme/emme». Col matrimonio, però, la donna diventa russa. E i tradizionalisti, questa volta, non perdonano, il 27 novembre/9 dicembre 1842 gli spettatori accolgono malamente l’opera. La famiglia imperiale lascia il palco senza applaudire.
La protesta ha via libera. Tra i fischi e gli applausi il rappresentante della Direzione spinge Glinka alla ribalta: «Va’! Cristo ha sofferto più di te!». Alle repliche il clima migliora e lo spettacolo regge per 52 sere. Non basta. Pochi mesi dopo, Nicola I insedia al Bol’soj di Pietroburgo la compagnia italiana relegando i russi nell’inadatto Teatro del Circo. Si dovrà attendere il 1860 per restituire alla compagnia nazionale una degna sede nel nuovo Mariinskij.
Sempre però in una posizione subordinata. Ancora vent’anni dopo Cesar Kjui, nel volumetto La musique en Russie pubblicato in Francia, paragonava la situazione dell’Opera italiana, dotata di personale numeroso sontuosamente compensato, alla posizione indigente dell’Opera russa. Solo da poco, ricorda, è stata abrogata la disposizione che limitava a 4.000 franchi il compenso per un compositore russo, mentre per gli stranieri non esistevano limiti. «Per cui», conclude, «Il Convitato di Pietra, capolavoro di Dargomizskij, è stato pagato 4.000 franchi, mentre Verdi per La forza del Destino, di triste memoria, ne ha ricevuti una sessantina di migliaia». La velenosa frecciata al lavoro verdiano «de triste mémoire» pareggia i conti!