di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Che cosa indicano i termini che si riferiscono alle forme musicali, come sonata, canzone, sinfonia, fantasia? Se si spera con uno di questi termini di individuare una forma precisa, si resta irrimediabilmente delusi: lo stesso termine viene usato per una quantità di forme musicali assolutamente diverse fra loro. Ma questo non vuol dire che i termini siano vuoti di un proprio significato, o che i musicisti li abbiano adoperati a caso, l’u­ no per l’altro.
Fantasia illustra bene la questione. Lo troviamo usato per la prima volta (come titolo di un’opera musicale) nel 1536 in due libri importanti, usciti rispettivamente in Italia e in Spagna: il primo contiene musiche per liuto, tra le quali alcune scritte dal più illustre rappresentante del genere, Francesco da Milano; il secondo è l’ancor più famoso El Maestro, il più antico libro di pezzi per vihuela, dello spagnolo, quasi omonimo dell’italiano, Luis de Milan. Sarebbe difficile cercare qualche differenza sostanziale tra le musiche di questi autori intitolate fantasie e le altre che in quel tempo erano chiamate canzoni, o capricci, o tientos (in Spagna), o toccate, o addirittura le fughe. Anche le fantasie, come le altre, sono musiche ispirate ai canoni fondamentali della tecnica contrappuntistica rinascimentale, con largo uso di imitazioni.
Quest’uso promiscuo termini continua nell’età, barocca: fantasia indicherà forme, ancora contrappuntistiche, ma secondo i più rigorosi criteri delle età di Frescobaldi, di Pachelbel e di Bach, tre pietre miliari nella storia della fantasia. E continuerà anche nell’età classico-romantica: ora il termine sarà applicato a forme di composizioni che potevano anche essere chiamate invenzioni, o sonate, o sinfonie, o variazioni, o in altri modi ancora.
Un doppione inutile di altre «parole della musica», dunque, la parola fantasia? La scelta dichiarata che ne fanno spesso i compositori dice che un senso suo, che potesse designare qualcosa di autonomo e di costante, questa parola doveva pur averla. Solo che tale senso non va cercato in uno schema compositivo fisso, come quando diciamo «forma-sonata» riferendoci a Haydn; ma piuttosto in un «modo particolare» di trattare le forme musicali del proprio tempo. La parola stessa dovrebbe lasciarlo intuire: fantasia è una composizione condotta con «estro», con ricchezza di «immaginazione», con un certo gusto per il «Capriccio» e per la licenza: qualunque tipo di composizione può presentarsi come «fantasiosa», quando si concede una certa libertà dalla norma, una licenza dalle regole. Il compositore del Cinquecento chiamerà fantasia un ricercare in cui siano ancora più abbondanti le scale, gli arpeggi e giri melodici insoliti. Il compositore del Settecento chiamerà fantasia una toccata in cui più ricco e vario appare il gioco delle modulazioni: com’è il caso delle straordinarie pagine organistiche di Bach che portano questo titolo.
Nel primo Ottocento è Beethoven a mostrarci la differenza tra una fantasia e una sonata, quando chiama le sue due sonate pianistiche dell’opera 27 «quasi una fantasia ” (la seconda è la celebre Chiaro di luna): questo titolo ci induce subito a pensare a sonate in cui la rigida architettura elaborata nell’età classica viene allentata: e infatti, per la prima volta, sentiamo i successivi movimenti di una sonata tendere a collegarsi l’uno con l’altro.
Questo principio di «fusione» sarà alla base delle fantasie di Schubert prima e di Schumann poi. Schumann aveva intitolato Grande sonata la sua opera 17; poi, accortosi delle licenze che s’era preso nei confronti delle più ortodosse sonate, pensò bene di chiamarla Fantasia. Niente di strano allora che il significato del termine scivolasse rapidamente, nell’Ottocento, in direzione di «libero trattamento di musiche preesistenti».
Non era certo la prima volta che i compositori si dilettavano a compilare centoni di musiche altrui: l’abbiamo visto la volta scorsa, nei quodlibet. Ma ora nasce una vera e propria orgia di fantasie quodlibet, di pastiches, di potpourris. Il saccheggio dell’opera lirica in questo senso – che era già iniziato nel Seicento – dà ora origine a capolavori come le fantasie sul Don Giovanni o sul Simon Boccanegra di Liszt, fino alla fantasia su Carmen di Ferruccio Busoni.
Nelle mani del più scanzonato Johann Strauss, il principio darà luogo a giganteschi collage di motivi popolari, come nella Coesione incoerente del 1829, o in quel Bouquet des dames che il «Re del valzer» offrì nel 1837 alla Regina Vittoria per la sua incoronazione. Anche un genere che sentiamo lontano dalla rigidità delle norme, come il valzer, riesce qui a farsi fantasia: non solo Strauss usa motivi di Haydn, Beethoven, Bellini, Auber e altri, ma concede spazio a sonagli e mazze di ferro, a campane e colpi di cannone, a evocazioni di terremoti e persino alle «grida di migliaia di spettatori». Quando il buon Francesco da Milano per la prima volta compose fantasie, non si sarebbe certo aspettato che i suoi pronipoti avrebbero portato così lontano la sua idea!

(Amadeus n. 32 luglio 1992)