di Callisto Cosulich*

(Pubblicato sul n. 89  di Amadeus, aprile 1997)

Pubblicato nel 1997, questo Dizionarietto illustra in forma quanto mai sintetica i gusti,le manie,
i percorsi culturali, talvolta visionari che hanno condizionato i grandi registi (da Altman a Wood)
nella scelta delle musiche per le colonne sonore che spesso hanno contribuito a render popolari i film.

HERZOG WERNER
(Monaco di Baviera, 5.9.1942)
«Io so sempre quando ho usato la musica giusta. È una conoscenza assoluta per me. Non è una conoscenza matematica, ma una sorta di conoscenza intuitiva. Sono molto sicuro di questo.»
Eccentrico ed egocentrico, autodidatta per necessità e vocazione. Herzog ha condensato nel suo DNA follia slava (il suo cognome vero è Stipetic) e spirito demiurgico, che invece appartiene alla radice tedesca. La sua esperienza artistica è inseparabile dall’esperienza di vita: ogni film diviene così una «prova»; l’insieme dei suoi film una sorta di romanzo a puntate, in cui personaggi e immagini rimbalzano da un capitolo all’altro. In un quadro siffatto l’impiego della musica non ha confini: dipende, come lui stesso afferma, dalla sua inappellabile intuizione. Si susseguono perciò nella stessa colonna sonora Händel, Mozart, Couperin, il gruppo rock Blinf Faith e Leonard Cohen (Fata Morgana 1968-70); oppure Pachelbel, Orlando di Lasso, Albinoni e Mozart (Jeder für sich und Gott gegen alle – L’enigma di Kaspar Hauser, 1974); e ancora Verdi, Wagner, Grieg, Schubert, Prpkof’ev, Mahler e il finlandese Arvo Pärt (Lektionen in Finsternis, 1992). Ma c’è un complesso rock tedesco che compare in parecchi suoi film, come una costante: è il gruppo Popol Vuh, battezzato dallo stesso Herzog con il nome della Bibbia guatemalteca. Popol Vuh, infatti, è il libro sacro degli indiani Quinchis, che gli è servito da traccia per Fata Morgana. I Popol Vuh compaiono per la prima volta di Aguirre der Zorn Gottes (Aguirre, furore di Dio, 1972) e contribuiscono in maniera decisiva a creare quel clima allucinatorio che il solo paesaggio amazzonico, sebbene modificato con bizzarri accorgimenti dallo stesso regista, non potrebbe garantire. A posteriori si può comprendere la scelta e l’insistenza di Herzog nell’impiegarli: la loro musica si distacca dal rock originario anglosassone, contaminandolo col folklore germanico. Da alcuni anni Herzog ha pressoché cessato l’attività cinematografica, per dedicarsi alla regia di opere liriche: un’attività che svolge senza esibirsi in atteggiamenti trasgressivi, ma cercando di aderire al significato del testo e di potenziarlo con geniali soluzioni di messa in scena.

JARMUSCH JIM
(Akron, Ohio, 22.1.1954)
«Presto molta attenzione alla musica delle immagini. A partire dai miei due ultimi film lavoro con il medesimo montatore, Jay Rabinowitz. Abbiamo gli stessi gusti musicali. Quando lavoriamo al montaggio, cerchiamo di essere molto attenti al ritmo di ciascun piano, alla loro interazione».
Jim Jarmusch, uno dei registi di culto del cinema nordamericano indipendente, è stato anche musicista: uno dei pochi, ma sempre importanti, che furono incerti sulla carriera da intraprendere, finché si resero conto che fare del cinema è un po’ come fare della musica: stessa difficoltà a spiegare perché si ama ciò che si vede (e che si sente); stessa difficoltà a parlarne con il linguaggio della parola; stessa difficoltà a staccarsene quando si guarda un film o si sente una composizione musicale (mentre ciò non accade con un libro o un’opera d’arte, poiché intrattengono un altro rapporto col tempo). Sono queste osservazioni dello stesso Jarmusch che vede inoltre una stretta analogia tra la composizione di un brano musicale, con le differenti bande e piste, e il montaggio di un film. Naturalmente, per Jarmusch la musica si limita tecnicamente ai processi di registrazione dei gruppi e dei solisti rock: John Lurie, Tom Waits, Neil Young, che sono gli autori delle colonne musicali dei suoi film e spesso anche i protagonisti degli stessi. Capofila dei cineasti minimalisti, Jarmusch, dopo l’insuccesso nel ’92 di Night on Earth (Taxisti di notte, musica di Tom Waits), ha sofferto tre anni di paralisi creativa, dalla quale è uscito nel ’95 con un film di genere, un sia pur anomalo western, Dead Man, che potrebbe segnare la svolta nella sua carriera. Ma non è cambiato il rapporto con la musica, la chitarra elettrica di Neil Young, in stretta simbiosi con la fotografia in bianco e nero di Robby Müller: il bianco e nero, rinunciando al colore, è come lo strumento solista senza l’orchestra; deve sfruttare tutte le possibilità, le sfumature, concesse dalla sua gamma.

KAURISMÄKI AKI
(Orimatila, Finlandia 4.4.1957)
«Utilizzo la musica che personalmente mi piace; anche molta musica classica, in particolare Cajkovskij, che va sempre bene: in qualunque punto metti il disco, la sua musica si adatta perfettamente alla scena drammatica, e penso di avere utilizzato più di una volta in diversi film gli stessi suoi brani».
A prima vista parrebbe l’opinione di un volgare mercante di film, invece Kaurismäki è un cavallo di razza del cinema europeo, che si diletta a dare poca importanza a ciò che fa, anche se fa cose importantissime. Amico di Jarmusch per il comune, tenace attaccamento alla indipendenza, ne differisce in modo radicale sotto molteplici aspetti. Tanto Jarmusch è un minimalista lento a maturare i propri progetti, quanto Kaurismäki è prolifico e rapido nel realizzare i suoi soggetti forti: forti quando prende lo spunto dai classici della letteratura mondiale, da Rikos ja rangaistus (Delitto e castigo, 1983) a Hamlet liikemaaimassa (Amleto si mette in affari, 1987), ma anche quando, attraverso i suoi soggetti originali, offre dei quadri, ora metaforici, ora realistici, della situazione finlandese. Dotato di prodigiose doti d’intuizione e di una fertilissima vena narrativa, Kaurismäki può permettersi il lusso di non dare molta importanza ai suoi film, assumendo un atteggiamento di modestia che, vero o falso che sia, ricorda da vicino quello di Buñuel, il suo cineasta di culto. Nella scelta delle musiche, come Herzog, si fida della propria intuizione. E anche lui, come Herzog, si è fatto sponsor di un gruppo rock: la band degli Sleepy Sleepers, internazionalmente noti come Leningrad Cowboys, cui Kaurismäki ha dedicato due film. Nella sua breve ma ricca filmografia spicca pure La vie de Bohème (Vita da Bohème, 1992), libera versione del romanzo di Henry Murger, dalla quale – c’era d’aspettarselo – è bandita ogni nota della partitura pucciniana, mentre trovano posto canzoni di Boris Vian cantate da Serge Reggiani, musiche giapponesi e finniche, nonché l’immancabile Cajkovskij.

KUBRICK STANLEY
(New York, 26.7. 1928 – Childwickbury (GB), 7.3.1999)
«Se si vuole usare musica sinfonica, perché chiederla a un compositore che evidentemente non potrebbe rivaleggiare con i grandi musicisti del passato? Oltre tutto chiedere una partitura originale è un grosso rischio. È sempre fatta all’ultimo momento e, se non ti piace, non hai mai il tempo di cambiarla. Ma quando una musica si adatta bene a un film, gli aggiunge una dimensione che nient’altro gli potrebbe offrire».
Kubrick cominciò a tralasciare la musica composta espressamente per il film con Dr. Strangelove (Il dottor Stranamore, 1963), nei cui titoli di testa appariva ancora il nome di un compositore (l’inglese Laurie Johnson), ma con comiti di arrangiatore, per parodiare motivetti patriottici. Inoltre, già in quel film la spina dorsale delle musiche era costituita da un controcanto di popolari canzoni che accompagnavano l’umanità nella Terza Guerra Mondiale, esplosa incidentalmente perché un generale aveva dato di matto. Da quel momento il musicista chiamato da Kubrick ha avuto soltanto compiti tecnici: il transessuale Walter (Wendy) Carlos che in A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) «traduce» Beethoven col «Moog», il sintetizzatore di sua invenzione; Leonard Rosenman per la scelta delle musiche del Settecento e del primo Ottocento, impiegate in Barry Lyndon (1975) e via dicendo. Le spiegazioni date da Kubrick per tale sua decisione sembrano guidate da ragioni di convenienza, più che estetiche. Esemplare a tale proposito il faticoso parto delle musiche di 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968), commissionate inizialmente ad Alex North, che aveva già composto quelle di Spartacus (1960), successivamente sostituite con le musiche preesistenti, che Kubrick aveva utilizzato durante le riprese, per dare loro il giusto ritmo: il prologo del poema sinfonico Così parlò Zarathustra di Richard Strauss; Il bel Danubio blu di Johann Strauss; il movimento lento per archi e arpa dal balletto Gayaneh di Aram Khaçaturjan; la Lux Aeterna per coro a cappella, il Kyrie del Requiem per coro e orchestra e il movimento sinfonico per orchestra Atmosfere di Gyòrgy Ligeti. Musiche che si adattano in modo perfetto, meglio della migliore partitura espressamente composta, all’aspetto polisensico di quel film epocale. Nonostante il fermo controllo che esercita sulla sua opera, Kubrick, ed è questo il particolare più sorprendente, lascia ampio spazio all’improvvisazione. La musica, a quel punto, non può che essere l’ultimo anello della creazione, quello che offre la «dimensione in più», come dice lo stesso Kubrick. E i risultati gli hanno dato pienamente ragione.

KUROSAWA AKIRA
(Shinagawa, Tokyo, 23.3.1910 – Seijo, Tokyo, 5.9.1998)
«Per quanto riguarda la musica, ritengo che debba essere immediatamente capita da qualunque pubblico, come il film del resto».
Pare la dichiarazione di un mercante del cinema; invece appartiene a Kurosawa, uno dei rari registi longevi del primo secolo di quest’arte, longevo per la inusitata eccezionale continuità del suo lavoro: cinquant’anni filati, senza mai subire avvertibili flessioni creative e qualitative. Quel Kurosawa che nel 1950, quando fu scoperto in Occidente grazie al suo dodicesimo film, Rashomon, leone d’Oro a Venezia, Oscar per il miglior film non parlato in inglese a Los Angeles, venne nel contempo accusato di essere «troppo europeo», quindi «figura da esportazione» più che autentico artista del proprio paese. E ciò, in parte per il marcato «pirandellismo» della vicenda: ma soprattutto per la spregiudicata trascrizione del Bolero di Ravel, compiuta da Fumio Hayasaka, il musicista accreditato nei titoli di testa. In realtà il genio di Kurosawa si misura anche attraverso il disinvolto impiego della musica: un ventaglio di proposte che vanno dalla musica tradizionale giapponese a quella classica europea, dalle canzoni locali alla musica leggera di marca occidentale; proposte suggerite tutte da una logica inconfutabile, per conferire la massima efficacia a ogni risvolto della vicenda. Nessuna meraviglia, quindi, se in Nora inu (Cane randagio, 1949), quando il poliziotto Murakami setaccia i bassifondi di Tokyo per ritrovare la propria pistola, si sentono provenire da fuori campo le note di Reginella campagnola: siamo nel dopoguerra e la canzonetta italiana non è stata ancora sostituita da quella americana. Viceversa, non deve neppure meravigliare la trascrizione del minuetto della sinfonia La sorpresa di Haydn, che in Akahige (Barbarossa, 1965) accompagna il delicato rapporto che s’istituisce tra il praticante medico Yasumoto e la quindicenne Otoyo, strappata alla tenutaria di un bordello. L’uso di musica classica preesistente, opportunamente trascritta e modificata da compositori giapponesi, spesso per  evitare il tributo dovuto ai diritti d’autore, nasce in Kurosawa dalla necessità di girare e montare i propri film secondo ritmi che solo certe partiture possono offrire. Esempio tipico la battaglia di Ran (1985), ricca di scene mute al ralenti, montate al ritmo di Abschied, uno dei movimenti del Canto della Terra di Mahler. Ma l’uso più anomalo resta quello dell‘Incompiuta in un vecchio film del ’47, Subarashiki nichiyobi (Una meravigliosa domenica) dove, in un auditorium deserto, il giovane Yuzo finge di dirigere la sinfonia di Schubert dinanzi alla sua fidanzata e la scena muta a furia d’insistere si riempirà, come per magia, di note, mentre la fidanzata, rivolgendosi agli spettatori del film, li inviterà a unirsi a lei nell’applauso. Un modo ingenuo, ma commovente, di ottenere il coinvolgimento del pubblico.

KUSTURICA EMIR
(Sarajevo, 24.11.1954)
«La musicalità nel cinema è essenziale. Sono d’accordo con quanto diceva Fellini: se c’è un’arte che assomiglia al cinema, è proprio la musica. Il regista è un direttore d’orchestra senza partitura. Ogni giorno trasforma il caos in ordine».
Kusturica è un cineasta slavo (mussulmano di Sarajevo). Slavi e spagnoli sono i popoli che hanno saputo elevare il loro folklore musicale ad arte maggiore. I film di Kusturica sono la testimonianza di questa caratteristica: vivono sulla musica popolare, che costituisce la loro base. Kusturica è a sua volta un musicista. Prima che scoppiasse la guerra in Bosnia, suonava la chitarra in un gruppo rock, chiamato No Smoking. La musica popolare è il canto e, insieme, il controcanto della sua opera prima, Sjecas li se Dolly Bell? (Ti ricordi di Dolly Bell? 1981), dove il motivo conduttore è offerto da Ventiquattromila baci, la canzone di Adriano Celentano: Sanremo, captato dalla televisione locale, era il migliore antidoto per distrarre la gente dal ripetuto fallimento dei piani quinquennali elaborati dal governo di Tito. Meno influente nel secondo film, Otac na sluzbenom putu (Papà è in viaggio d’affari, 1985), graffito dolce-amaro sulla Jugoslavia degli anni Cinquanta, dopo la «Scomunica» di Tito da parte del Cominform, che costerà agli stalinisti locali la condanna ai lavori forzati in campi di concentramento allestiti all’uopo, la musica torna ad assolvere un ruolo essenziale in Dom za vesanje (Il tempo dei gitani, 1988), che segna l’inizio della collaborazione tra Kusturica e Goran Bregovic, suo concittadino e vecchio amico, compositore e chitarrista, componente di Bijelo Dugme (Bottone Bianco), il principale gruppo rock della Jugoslavia. Insieme segna anche la fascinazione esercitata su Kusturica dalla musica zigana, a suo dire «l’ultimo tipo di musica che si può scoprire al mondo», una musica che «all’inizio, grazie al suo ritmo, risulta molto orecchiabile, e solo dopo ci trasmette segnali furiosi, precisi del territorio in cui è nata». «Segnali furiosi» che raggiungono la massima evidenza in Underground (1995), film quanto mai tragico, sebbene sia ricco di feste, riti e baccanali, che in origine dovrebbero trasmettere gioia.

DE OLIVEIRA MANOEL
(Porto, 12.12.1908 – Porto, 2.4.2015)
«Non conosco le note, ma ho il piacere di piazzarle incerti momenti dei miei film, piazzarle in modo che i personaggi possano evolvere con loro, si dispongano e si spostino in rapporto a loro».
Nei confronti della musica il grande vegliardo del cinema portoghese (e mondiale) assume un atteggiamento empirico, se vogliamo di dichiarata modestia, in cui l’intuito fa aggio nei confronti del nozionismo, che spesso viene scambiato per conoscenza, se non proprio per cultura. L’empirismo sposato al piacere, nel caso di un cineasta privo di specifica conoscenza del linguaggio musicale, potrebbe restringere la scelta a un ristretto numero di composizioni particolarmente amate. Non è però il caso di de Oliveira, il quale, se in Vale Abraào (La valle del peccato, 1993) usa i cinque Chiari di luna scritti per pianoforte (Beethoven, Debussy, Fauré, Schumann, Strauss), abbinandoli a diversi personaggi del film, nel successivo O convento (I misteri del convento, 1995), per illustrare la sua divertita parabola sullo scontro fra il Bene e il Male, si avventura in mezzo a spartiti molto meno popolari e «orecchiabili», quali The Rake’s Progress di Stravinskij, il Preludio per quartetto d’archi del giapponese Toshiro Mayuzumi e il singolare Offertorio di Sofia Gubajdulina, musicista di origine tartara. In effetti la musicalità dei film del regista lusitano va oltre l’impiego delle musiche nella colonna sonora: s’iscrive, s’incorpora nelle stesse immagini. De Oliveira, a tale proposito, ammette di pensare musica fin dal momento in cui stende il copione, poi durante le riprese, infine nell’atto del montaggio: gli attori sono talvolta costretti a ripetere le battute in musica, per mantenere un certo ritmo. Siamo nei pressi del «recitar cantando», che diviene tale sotto ogni aspetto in Os canibais (I cannibali, 1988), racconto gotico, trasformato in libretto d’opera dallo stesso regista, dato al compositore Joao Paes perché lo musicasse, infine filmato: esempio quasi unico di film-opera che non ha atteso la rappresentazione in teatro per essere proiettato sugli schermi.

**********

*Callisto Cosulich (Trieste, 7 luglio 1922 – Roma, 6 giugno 2015)
È stato uno dei più attenti osservatori del cinema mondiale. Nel corso della sua vita di critico cinematografico (come dimostra la sua pluriennale collaborazione alla rivista Amadeus) ha posto particolare attenzione alle colonne sonore dei film.