di Franco Fayenz

(Pubblicato sul n. 9 di Amadeus, agosto 1990)

Dieci anni fa scompariva lo straordinario talento jazz di Bill Evans .
Il pianista-compositore aveva saputo mettere a frutto le sue straordinarie
attitudini musicali attraverso una insistente volontà di suonare e imparare.
Il ricordo di una tecnica e di un’arte raffinata.

            Nel jazz degli anni cinquanta c’erano artisti e tendenze stilistiche in abbondanza di cui occuparsi, al punto che ad alcuni «testimoni auricolari» sfuggì per qualche tempo il grande talento del giovane William John Evans, in arte Bill Evans, pianista e compositore di Plainfield, New Jersey, dov’era nato il 16 agosto 1929. Ancora oggi si sussurra di preziose collezioni private di dischi rifornite dei suoi album con molto ritardo o addirittura dopo la scomparsa prematura avvenuta a New York il 15 settembre 1980. Giova sottolineare che la morte di Bill Evans diede il via a una riedizione sistematica dei suoi dischi e alla ricerca di inediti, un fenomeno che forse mai prima di allora aveva avuto simili dimensioni, fatta eccezione per Duke Ellington, e che in seguito si è invece ripetuto per altri (si pensi a Chet Baker).

Bill Evans (ph: Elena Carminati)

Quest’anno si celebra il decennale di quel giorno tristissimo per quanti lo hanno giustamente apprezzato. Si è già visto, e lo si vedrà ancor più nei prossimi mesi, che il ricordo di Bill Evans sovrasta nettamente gli articoli, le trasmissioni radiotelevisive e i concerti dedicati al trombettista Fats Navarro (40 anni dalla scomparsa) e ai sassofonisti Albert Ayler e Johnny Hodges (20 anni). Era abbastanza prevedibile, ma ciò conferma che la figura del pianista appare sempre più rilevante col trascorrere del tempo. A quanto si è osservato all’inizio, bisogna aggiungere che gli anni sessanta e settanta avrebbero caratteristiche di fondo non favorevoli a Evans. Basti pensare al jazz informale e alla musica politicizzata, due fenomeni ai quali egli si tenne estraneo, continuando a perseguire obiettivi diversi e autonomi. Nel jazz, quello che si usa chiamare il riflusso fece sentire i suoi effetti poco prima che Evans uscisse di scena, purtroppo preceduto e seguito da una serie impressionante di jazzisti illustri e molto amati.

Pianoforte e campi da golf
            Ebbe la fortuna di essere allevato in una famiglia piuttosto agiata, nella quale l’arte dei suoni era tenuta in grande onore. Bill era l’ultimo di tre fratelli: si legò di vivissimo affetto a uno dei due, Harry, avviato come lui allo studio della musica. Anche Harry morì giovane, poco prima di Bill, ed è probabile che questo dolore, riflesso in alcune composizioni-esecuzioni (We may never meet again e We will meet again, 1979), abbia contribuito non poco a minare definitivamente il suo organismo già debilitato.
Incominciò a studiare il violino, il flauto e il pianoforte a sei anni, in coincidenza con l’inizio della scuola, poi optò per il pianoforte. Nello stesso tempo s’interessò al golf, l’unico sport che abbia praticato, perché il padre dirigeva un club di buon nome. Le immancabili orchestrine scolastiche, palestre di tutti i talenti musicali degli Stati Uniti, ospitarono i suoi esercizi fino al 1947, cioè fino al termine dell’istruzione obbligatoria. Poi i genitori, sollecitati dai docenti che avevano notato le straordinarie attitudini di Bill, lo mandarono al Southeastern Louisiana College di New Orleans dove ultimò lo studio del pianoforte, diplomandosi dopo quattro anni d’intenso lavoro.

Un tocco lieve e raffinato
            È questo il suo fondamentale periodo formativo. Bill è un giovane alto, magro, ipersensibile, di una bellezza pensosa. Porta occhiali da miope e ha capelli castani lisci e forti, scriminati sulla sinistra. Ha tanti interessi oltre alla musica, perfino troppi, specialmente di tipo filosofico, e acquista un patrimonio culturale insolito – diciamolo con franchezza – in un musicista di jazz americano. Qualcuno parla di un incredibile dispendio di energie e pone addirittura in questi quattro anni l’origine lontana dei suoi mali successivi, ma l’opinione, come vedremo, non è da condividere. Certo è che Bill studia il pianoforte quasi con frenesia, legge, ascolta attraverso i dischi e la radio Nat King Cole, Bud Powell, Lennie Tristano, e alla sera fa le ore piccole in lunghe jam sessions con Mundell Lowe e Red Mitchell.

Bill Evans in un suo tipico atteggiamento, quasi chino sul pianoforte. (ph: Elena Carminati)

«Diciamo che è uno studente regolare nell’applicazione» scrive di lui Nino De Rose «ma incapace di darsi un metodo. Questa incapacità viene peraltro compensata dall’insistente volontà di suonare e d’imparare qualcosa di nuovo. Alla lunga, anche questo finisce per essere un metodo, e così Evans s’impadronisce di una tecnica eccezionale, senza nulla di meccanico o di scontato, perché basata sulla lettura di qualsiasi tema od opera pianistica che gli capiti sotto mano». Divide spesso il suo tempo fra il jazz e la musica classica, e classici sono la sua impostazione, il modo di mettere le mani piegate sul pianoforte – diversamente dalle dita distese di tanti pianisti di jazz – e il tocco lieve e raffinato. Si spiega così che sia per lui illuminante, addirittura per il resto della vita, l’incontro con la musica e con l’arte pianistica di Lennie Tristano: è nel 1949 che il jazz classicheggiante e austero del maestro, con la sua tendenza «a parlar sommesso, facendo uso di un vocabolario ricercato e prezioso», si impone quasi all’improvviso all’attenzione della critica internazionale.

Una musica per lo spirito
            Ma tra Bill e il jazz c’è ancora il servizio militare, che egli assolve fra il 1952 e il 1954 in alcune guarnigioni della zona di Chicago. La dura disciplina lo sconvolge ed egli reagisce nel modo peggiore, rifugiandosi per la prima volta nelle droghe pesanti (era già accaduto a un altro grande artista del jazz, Lester Young). È qui, non altrove, la radice dei futuri gravi disturbi che finiranno di ucciderlo ad appena cinquantun anni. Per qualche tempo, tuttavia, riesce a dissimulare il baratro in cui è precipitato. Nell’autunno del 1954, al clarinettista e direttore d’orchestra Jerry Wald, Bill si presenta come un pianista affidabile e brillante, moderno e intensamente creativo, che suona con la testa piegata sulla tastiera fin quasi a sfiorarla. Wald capisce subito quale artista ha avuto la fortuna di scritturare e lo conduce in sala di registrazione per due long playing oggi introvabili, poi lo lascia andare. Il giovane ha bisogno di libertà, vuole studiare ancora, soprattutto armonia e composizione; di sera, quando ce la fa, suona nei club. In questo modo conosce la cantante Lucy Reed con la quale l’anno seguente incide un altro album, anche questo fuori catalogo.
Il successo è vicino. Comincia a farsi notare e a conoscere personaggi che contano: Charles Mingus, George Russell, Tony Scott, Miles Davis che rimane colpito dalla sua finezza armonica. Russell lo invita a prender parte a un album importante, The G.R. Smalltet, recentemente ristampato in CD dalla Bmg-Ariola, e si complimenta con lui per l’intensa espressività del suo apporto. È il 31 marzo 1956, a New York. Sei mesi più tardi, il 27 settembre, dopo aver firmato un contratto con la Riverside, Bill registra a suo nome con quella che sarà per il resto della carriera la sua formazione preferita, il trio di pianoforte, contrabbasso e batteria inteso come una struttura aperta e dialogica. Collaborano con lui Teddy Kotick e Paul Motian, l’album si chiama, emblematicamente, New Jazz Conception.

Bill Evans (ph: Elena Carminati)

Da qui in avanti sarebbe inutile seguire da vicino la cronologia delle sue opere, per le quali rinvio alla discografia essenziale. Conviene piuttosto fissare qualche altro punto. Bill Evans, sebbene compositore fertile ed emotivo, fu soprattutto capace di trasformare i temi popolari e i «Sempreverdi» delle canzoni, facendoli propri con arte raffinata e ogni volta in modo diverso, a seconda di come gli dettava l’estro improvvisativo del momento. Non si stancava di ripetere che compito della musica è l’arricchimento dello spirito e a questo principio improntò la propria vita artistica, amando la bellezza, le giuste proporzioni, i giusti rapporti tra i suoni. Nutrì affetto profondo per i musicisti migliori che gli furono lungamente al fianco, i contrabbassisti Scott La Faro, Eddie Gomez, Mare Johnson e il batterista Paul Motian; quando il giovane La Faro morì il 6 luglio 1961 in un incidente automobilistico, pensò perfino di abbandonare la musica.
Sopra ogni cosa amò il proprio mestiere (lo chiamava così). Lavorò fino all’ultimo, con un’ulcera perforata nello stomaco e il fegato a pezzi: dopo aver dato concerti in tutto il mondo, la sera del 7 settembre 1980 suonava ancora in un club della costa californiana. L’impressionante performance è documentata in un CD giapponese.

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Bill Evans: discografia essenziale

  • George Russell The G.R. Smalltet, Bmg Ariola (1956)
  • New Jazz Conception, Riverside (1956)
  • Miles Davis Kind of Blue, Columbia (1959)
  • Undercurrent, United Artists (1959)
  • Portrait in Jazz , Riverside (1960)
  • Sunday at the Village Vanguard , Riverside (1961)
  • Moon dreams, Riverside (1962)
  • Conversations with myself, Verve (1963)
  • Trio 64, Verve (1964)
  • Alone, Verve (1968)
  • What’s new, Verve (1969)
  • Living Time, Columbia (1972)
  • Montreux III, Fantasy (1975)
  • I will say goodbye, Milestone (1977)
  • We will meet again, Warner Bros (1979)
  • The Paris Concerts,  edition  1& 2 , Elektra Musician (1979).