di Claudio Casini

(Pubblicato sul n. 6 di Amadeus, maggio 1990)

In questo capolavoro sinfonico la tradizione descrittiva
si unisce alla concezione mistica della natura
ricavata dal pensiero di Kant.

         Beethoven è stato perseguitato, nel secolo scorso, dai critici desiderosi di attribuirgli intenzioni descrittive: così è nato «il chiaro di luna» per la Sonata op. 27 n. 2 (ci fu chi vedeva nel sublime primo tempo la descrizione di una improbabile notte sul lago dei Quattro Cantoni), «la tempesta» di Shakespeare nella Sonata op. 31 n. 2, per tacere dei quartetti per archi nei quali un critico tedesco, Arnold Schering, identificò minuziosamente, e con una totale mancanza di fondamento, i presunti riferimenti di Beethoven alle più varie opere letterarie, da Shakespeare a Schiller. Fu questa una moda molto diffusa nell’Ottocento ed ebbe un’etichetta, nella cultura tedesca: Tongemälde, «pitture musicali», dall’unione della parola Gemälde (pitture) e Ton (suono e, per traslato, musica). In seguito, nel nostro secolo, la critica moderna si è proposta di prosciugare tutte queste esagerazioni e, come spesso accade, è andata oltre il dovuto, finendo, per eccesso, col rifiutare gli assunti espressivi della musica beethoveniana e, dove era impossibile, rifiutando Beethoven. Celebre fu l’atteggiamento di Stravinskij che, a Proust che gli chiedeva se gli piacevano i quartetti di Beethoven, rispose seccamente di no, che non li apprezzava.

Indicazioni concise
In realtà, Beethoven fornì qualche indicazione, concisa per la verità, in merito a ciò che intendeva esprimere con la sua musica. Per quanto riguarda la Sinfonia n. 3 è ben noto che formulò una dedica a Napoleone Bonaparte e che, in un secondo tempo, stracciò la dedica: Napoleone gli apparve, dopo essersi fatto incoronare imperatore, lontano dalle virtù repubblicane che sembrava incarnare da Primo Console. La dedica fu sostituita da una frase più sibillina, «per il sovvenire di un gran uomo» (così, in italiano) e subito spuntò l’aggettivo di «Eroica». Per la Sinfonia n. 5 è stata data la testimonianza dell’autore, raccolta dal fedele (ma non troppo acuto) amico Anton Schindler: per spiegare a Schindler il significato del motto fatidico con cui la sinfonia si apre, Beethoven affermò che era «il destino che batte alla porta». Frase sbrigativa nella quale era sintetizzato il concetto beethoveniano di opposizione tra le forze irrazionali (appunto il destino) e il razionalistico itinerario dell’umanità verso le magnifiche sorti e progressive.
L’esigenza espressiva di Beethoven era molto forte ma non arrivava al punto di prefiggersi significati così espliciti da fissare e immobilizzare il linguaggio musicale in immagini definitive. In un solo caso, e cioè nella Sinfonia n. 6 Pastorale, le immagini vennero evocate con una serie di didascalie precise. Vale la pena di rileggerle. «Risveglio di liete impressioni all’arrivo in campagna» sta scritto in testa al primo movimento; il secondo è preceduto dall’annotazione «Scena presso il ruscello». La terza parte della sinfonia è divisa in tre episodi che si susseguono senza interruzione e che sono indicati da altrettante didascalie: «Festosa riunione di contadini», «Temporale», «Canto pastorale. Sentimenti di gioia e di ringraziamento dopo il temporale».
Oltre queste indicazioni, nella Pastorale sono da prendere in considerazione altri elementi. Ad esempio, la sua struttura inconsueta. La sinfonia, secondo la tradizione settecentesca, era costruita secondo uno schema ben collaudato: le sue parti, o movimenti, erano quattro e dovevano collocarsi secondo la successione formata da un «allegro» particolarmente elaborato (talvolta preceduto da un’introduzione), da un «adagio di carattere lirico, da un tempo di danza rituale, il «minuetto», che Beethoven aveva sostituito con un movimento di carattere più impetuoso, definito «scherzo» e da un finale in cui erano consentite varie possibilità di architettura.

Novità e tradizione
La Pastorale non obbedisce a queste formalità perché dopo due movimenti che si possono considerare «regolari», si presenta una sola terza parte molto articolata e complessa, ma sostanzialmente indivisibile. E in più questa terza parte si propone anche come logica conclusione della «Storia» abbozzata nei primi due movimenti e getta su di essi una luce che li allontana dalla tradizione.
Alla tradizione, invece, Beethoven si attenne quando inserì nel corso della Pastorale, particolarmente nel secondo movimento, alcuni elementi onomatopeici: lo scorrere del ruscello, addirittura il verso del cuculo e della quaglia. Franz Joseph Haydn aveva adoperato spesso e volentieri elementi onomatopeici nelle sue sinfonie, dal ballo dell’orso al ticchettio della pendola, ma aveva adoperato tali spunti con spirito razionalista, stilizzando il dato realistico in pura geometria musicale. E prima di Haydn l’onomatopea era stata di uso comune: basti pensare ai concerti violinistici di Vivaldi in cui sono illustrati minuziosamente i versi di sonetti dedicati alle quattro stagioni, oppure alla letteratura clavicembalistica francese, da Daquin a Couperin, in cui si ascolta il cucù e si descrivono quei giochi di società e quelle mascherate che appaiono nei quadri di Fragonard e di Watteau.

Immanuel Kant

Fondamenti filosofici
Nel caso della Pastorale, tuttavia, l’onomatopea costituisce soltanto il particolare di un quadro molto complesso. L’intenzione di Beethoven era infatti di affrontare il tema filosofico del rapporto fra uomo e natura attraverso la musica: un assunto audacissimo, in quanto questo tema aveva costituito uno dei principali problemi filosofici del tardo Settecento ed era stato ampiamente trattato da Immanuel Kant. Beethoven era perfettamente consapevole di questa problematica tanto che, in uno dei suoi quaderni, risultano copiati di suo pugno vari passi di un libro di Kant: Storia naturale generale e teoria del cielo. I fondamenti filosofici in base ai quali Beethoven progettò la Pastorale appartengono a tre distinti ordini di idee. Nel primo movimento si esprime il momento fondamentale in cui si verifica la cognizione della realtà da parte del soggetto: questo momento è definito sintesi nel pensiero di Kant (per Beethoven sono le «liete impressioni» risvegliate dalla campagna, che simboleggia appunto il mondo reale nella sua essenza naturalistica); nella terza parte della Pastorale si svolge una vicenda tipicamente beethoveniana, di stampo illuministico, in cui l’umanità (rappresentata dai contadini, cioè dalle creature più vicine alla natura) subisce le avversità, in questo caso rappresentate dalla tempesta, e le supera grazie alla Divinità cui viene elevato l’inno conclusivo.
Ma il linguaggio musicale della Pastorale è interamente ispirato, in tutto lo svolgimento della sinfonia, ad una concezione mistica della natura. Si tratta della caratteristica più importante in questo lavoro beethoveniano.
La concezione mistica della natura, che Beethoven aveva ricavato dal pensiero di Kant, consisteva nel riconoscere una perfetta unità nella natura stessa in cui si rispecchia la Divinità creatrice: «È come se ·ogni albero della campagna mi dicesse: Santo! Santo! Incanto nella foresta! Chi potrà esprimere tutto questo?». A queste parole annotate da Beethoven si può avvicinare una frase di Kant: «Per la sua incommensurabile grandezza e per l’infinita varietà e bellezza che traspare da ogni sua parte l’universo ci colma di silenzioso stupore». L’unità e varietà dell’universo sono rappresentate, nella Pastorale, da una particolare ispirazione beethoveniana: i temi musicali sono affini e nello stesso tempo diversi, sorgono da medesime radici e assumono andamenti differenti. Ma nell’insieme rappresentano grandiosamente l’immagine di una totalità armoniosa. In questo la Pastorale è profondamente diversa dall’abituale drammaticità beethoveniana nella quale in genere, e al massimo grado in composizioni come la Sinfonia n. 3 e la Sinfonia n. 5, sono rappresentati aspri conflitti che soltanto alla fine si ricompongono in una sorta di entusiastico ottimismo.

Una tensione mistica
            Nella Pastorale, invece, l’ottimismo costituisce il punto di partenza verso una sublimazione delle visioni neutralistiche intese come specchio della Divinità. In un taccuino di Beethoven si legge infatti, a proposito della natura: «Il mondo non è stato formato dalla riunione fortuita degli atomi di Lucrezio: forze e leggi stabilite, originate dalla più sensata intelligenza, sono state l’origine di questo immutabile ordine e hanno potuto necessariamente e non fortuitamente derivare da questi atomi. Se nella costituzione del mondo risplendono ordine e bellezza allora vi è un Dio. Tuttavia è ben fondata anche l’altra tesi. Se questa armonia ha potuto scaturire da leggi organiche generali, allora la natura intera necessariamente rispecchia l’azione della saggezza suprema».
            Grazie all’influsso di questa tensione mistica, la Pastorale fu caricata di significati trascendentali. E per questo, tanto l’architettura della sinfonia, con la sua inconsueta ripartizione in tre blocchi invece che nei quattro movimenti rituali, quanto la struttura del suo linguaggio imperniato sull’analogia delle diverse idee musicali, costituirono una straordinaria innovazione: Beethoven, volendo esprimere assunti nuovi, fu costretto ad impiegare parole nuove.

Erede della tradizione
            La Pastorale fu dedicata a due personaggi dell’alta società viennese, il principe Franz Joseph Lobkowitz e il conte Andreas Rasumowsky: la prima esecuzione, diretta dall’autore, ebbe luogo al teatro «an der Wien» il 22 dicembre 1808 in una serata-fiume in cui furono eseguite anche la Quinta, il Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra, la Fantasia op. 80 per pianoforte e coro e alcune parti della Messa op. 86. Erano gli anni in cui Beethoven dominava la vita musicale a Vienna e veniva considerato l’erede indiscusso della tradizione tedesca formata da Mozart e dall’ancora vivente Franz Joseph Haydn. Rispetto a questa tradizione, Beethoven aveva intrapreso itinerari nuovi proprio in virtù dell’esigenza espressiva che animava la sua creatività: un’esigenza che assunse l’aspetto di un vero e proprio messaggio etico e filosofico che travalicava le capacità della musica. Perciò Beethoven, a proposito della Pastorale si rese conto che occorreva un fondamentale avvertimento: l’evocazione naturalistica, le immagini concrete e vivaci legate all’onomatopea dovevano essere intese come simboli. Scrisse infatti, a beneficio degli ammiratori viennesi: «Nella musica strumentale ogni pittura, quando è spinta troppo oltre, si perde… Ciò che vuole l’autore può essere immaginato, senza tante didascalie, anche da chi ha soltanto una vaga idea della vita campestre. Anche senza descrizione si riconoscerà il tutto PIÙ COME SENTIMENTO CHE COME PITTURA». Il maiuscolo non è di Beethoven, ma si rende necessario dopo un secolo e mezzo che, nella musica di Beethoven, si vuole individuare più la rappresentazione che il simbolo.