di Giulio Nascimbeni
(Pubblicato sul n. 6 di Amadeus, maggio 1990)
La carriera breve e intensissima di Giovanni Lugo.
La povertà e l’avventura sono state compagne al grande tenore nel corso
del suo lento approccio alla gloria, che l’ha condotto dalla campagna veronese
fino agli splendori della Scala.
Allora i critici non usavano firmare i loro articoli con nome e cognome: si limitavano alle sigle iniziali, e per giunta minuscole. Sul Corriere della Sera, ad esempio, f.a. corrispondeva a Franco Abbiati, (musica), r.s. a Renato Simoni (teatro), f.s. a Filippo Sacchi (cinema).Sul Corriere del 21 gennaio 1937, a pagina 5, f.a. dedicò poco più di mezza colonna alla «prima» di Tosca, andata in scena la sera precedente alla Scala, diretta dal maestro Ghione. «Obiettivamente osserviamo – scriveva f.a. – come dell’irresistibile fascino che esercita il bel canto sull’animo delle folle, un’altra prova ci è stata offerta ogni qualvolta l’insuperato mezzo espressivo s’è spiegato terso e lucente, sinuoso o perentorio, sulle linee della pure intimidita melodiosità pucciniana».
«L’elemento per così dire inedito – continuava f.a. – sulle illustri scene scaligere era Giuseppe Lugo. Egli ha impersonato con generosità davvero inusitata, con proprietà di accenti e con signorilità di atteggiamenti, il personaggio di Cavaradossi. Singolare è la freschezza della sua voce, ma anche più singolare è la liberalità con la quale egli ne sa profondere i tesori e di timbro e di pastosità, di grazia e di pieghevolezza, principalmente rilevati nella esecuzione delle due romanze del primo e del terzo atto e nel pauroso svettamento sul grido di Vittoria! dell’atto di mezzo, quando l’uditorio ha letteralmente subissato di applausi l’interprete…».
Quella sera lontana fu il perfetto compimento di un sogno che Giuseppe Lugo s’era portato dietro fin dall’infanzia. Era nato il 18 giugno 1899 a Rosolotti, frazione di Sona, in provincia di Verona. Il padre girava per i piccoli paesi dei dintorni (la zona è quella che prelude alle colline affacciate sul lago di Garda) con una specie di carretto-bazar, e il piccolo «Bepi» lo aiutava lanciando squillanti richiami per far uscire le massaie dalle case.

Giuseppe Lugo, nelle vesti di Mario Cavaradossi (con Maria Caniglia) nella Tosca di Giacomo Puccini (1939).
Lugo conquistò tardi la fama. Quando debuttò all’Opéra Comique, nell’ottobre del ’31, non poteva più essere considerato un giovane promettente e alla Scala arrivò quasi quarantenne. Proprio quella biografia, piena di povertà e di avventura, spiega il lento approccio di «Bepi» a una gloria che i fulgori della sua voce avrebbero dovuto largamente anticipare. Il destino volle così: una carriera breve, intensissima, con poche opere in repertorio, Ma che indimenticabile Cavaradossi fu Lugo, che ineguagliabile Rodolfo, che squillante Calaf, che romanticissimo Werther. Certo, nella storia del melodramma, egli non può competere con le ombre di un Beniamino Gigli o di un Lauri Volpi. Ma chi abbia avuto la fortuna di sentirlo dal vivo o di possedere qualche disco capisce perché, dopo l’esordio a Parigi, un critico abbia parlato di nouveau Caruso.
Te ‘ndaré in paradiso
Se qualche lettore volesse saperne di più, cerchi un libro uscito qualche mese fa, “Giuseppe Lugo, il tenore del vento e delle stelle” di Daniele Rubboli (Azzali Editori – Parma): l’autore si è giovato della collaborazione di Suzanne Gaudier, vedova del tenore e figlia del musicista belga Léon Gaudier, che fu il Pigmalione di «Bepi». Questo eccellente libro mi è caro anche per un motivo egoistico: l’immagine del «tenore del vento e delle stelle» ripete il titolo che fu dato dai colleghi della redazione del Corriere a un mio articolo, scritto qualche giorno dopo la morte di Lugo, avvenuta a Milano il 19 settembre 1980. L’allusione al vento si riferisce al primo film che «Bepi» interpretò nel 1939, appunto intitolato La mia canzone al vento. Il ritornello della canzone (Vento, vento, portami via con te…) fu presto sulla bocca di tutti. Erano tempi drammatici, già si combatteva in altre parti d’Europa. Il ritornello subì una storpiatura. Alludendo a Mussolini, esso divenne: Vento, vento, portalo via con te. Ma un altro ricordo s’impone prima di chiudere. Ero poco più d’un bambino, quando (agosto 1937) mi portarono all’Arena di Verona a sentire Tosca, naturalmente con Lugo.
Era talmente presto che sul palcoscenico stavano ancora montando l’apparato del primo atto, cioè l’interno della chiesa romana di Sant’Andrea della Valle. Vidi crescere altari, cancelli di cappelle gentilizie, statue, balaustre, pareti di confessionali. A poco a poco, anche la platea si riempì, il cielo mostrò la cupola delle stelle, arrivò una brezza lievissima quando Lugo-Cavaradossi entrò, il canto fu immediato. La voce si tese in Recondita armonia di bellezze diverse, provocando la prima richiesta di bis. Lugo lo concesse. A quei tempi il teatro lirico poteva permettersi questi lussi. Ci fu qualche attimo di silenzio. Dall’alto delle gradinate una voce gridò (e spero che non ci sia bisogno di tradurre dal dialetto): Bepi, con quela vose te ‘ndaré de sicuro in paradiso.