di Franca Cella

(Pubblicato sul n. 97 di Amadeus, dicembre 1997)

Una breve storia in tre puntate delle secolari
vicende di questa eccelsa formazione cameristica
con Elisa Pegreffi, testimone d’eccezione

            Visitare la Mostra Una storia di Quartetti: da Beethoven al Quartetto Italiano, con uno dei protagonisti, Elisa Pegreffi del Quartetto Italiano, ci ha permesso (nel numero scorso di Amadeus) di avvicinare le formazioni quartettistiche da una prospettiva interna. L’occasione preziosa ci tenta a imbastire una fulminea storia della musica per quartetto d’archi. Vista attraverso l’esperienza di un quartetto attivo dal 1945 all’81 e attraverso le predilezioni e i giudizi personali della violinista.
Il Quartetto d’archi nasce verso la metà del ‘700, quando il violino, in Italia, sviluppa tecnica e linguaggio e acquista ruolo preminente rispetto ai fiati nell’orchestra barocca nascente. Quando viola e violoncello hanno soppiantato la viola da gamba ormai obsoleta. Quando la Sonata a tre è entrata nella musica da camera, e gli strumenti conversano, esprimono, dibattono. Dunque gli strumenti rinnovati raccolgono l’eredità della musica: l’influenza della scrittura contrappuntistica a quattro parti reali della Sonata da chiesa, del Concerto, della Sinfonia all’italiana, la vitalità del Divertimento austriaco; adottano l’elaborazione tematica e la struttura della forma sonata maturata nell’ambito strumentale.
            Con la sua ambizione del suono completo, la capacità di sintesi delle quattro voci, il Quartetto d’archi è la forma che più ha saputo attirare, rispecchiare, riprodurre, il cammino della musica; quasi una fucina di astrazione mentale, di sperimentazione dell’universo musicale. Il Quartetto d’archi eredita la libertà del cantare e suonare a più voci, dal rinascimento al barocco.
«Infatti sulle Canzoni di Gabrieli si legge per “suonare o cantare a quattro”», interviene Elisa Pegreffi, secondo violino del Quartetto Italiano, «e le eseguivamo senza vibrare, per rimanere nel carattere barocco; così anche la Sonata a quattro “Al santo Sepolcro” di Vivaldi. Era l’inizio di un cammino lungo e difficile, però già con l’idea del suono completo. Non si parlava di Quartetto, ma erano quattro voci o strumenti».
            Cresciuti nello spirito dell’accademia classica, i componenti del Quartetto Italiano hanno subito cercato alle sorgenti italiche del Quartetto, fra gli autori barocchi: Andrea Gabrieli, Biagio Marini, Massimiliano Neri, Giovan Battista Vitali, Alessandro Scarlatti, Antonio Vivaldi…
Hanno perlustrato il Settecento sulle tracce di Baldassarre Galuppi (1706- 1785), Giuseppe Maria Gambini (1746- 1825, autore di 140 Quartetti), Luigi Boccherini (1743-1805, 91 Quartetti, 113 Quintetti per archi), Giovan Battista Viotti (1755-1824, 18 Quartetti). Autori di matrice italiana, che vivono a Parigi, Londra, Madrid, rappresentano il quartetto concertante o brillante di impronta francese, ma entrano tutti in qualche modo in contatto con Haydn, che rappresenta l’altro polo del nascente Quartetto, quello viennese, caratterizzato da impegno costruttivo e sviluppo consapevole della nuova forma.
Boccherini e Haydn incominciano a scrivere Quartetti negli stessi anni (attorno al 1760)  e concludono a distanza di un anno (1803 e 1804) in una Europa della musica senza frontiere. «I Quartetti del voluttuoso Boccherini sono scritti molto bene, e hanno anche della drammaticità, certi Larghi di ampiezza sconfinata»

Quartetto Boemo

La luminosa classicità del Quartetto Italiano predilige Joseph Haydn (1732-1809, 83 Quartetti). «Haydn è veramente il padre del Quartetto. Non solo per la smisurata produzione ma per come ha scritto, per la completezza di armonia, la ricchezza straordinaria di idee, la chiarezza di scrittura a parti indipendenti, senza mai una nota doppia. Se li ascoltiamo purificando le orecchie da tante cose ascoltate, “happy new yars” come diceva John Cage, scopriamo la semplicità sorgiva straordinaria, l’invenzione che fa rimanere stupefatti, la gioia che si prova a suonarli». Secondo il biografo Griesinger (Lipsia 1810) i primi Quartetti di Haydn sarebbero nati per caso: «Un certo barone Fürnberg, che aveva una proprietà a Weinzierl, parecchi di distanza da Vienna, di tanto in tanto invitava il parroco, il proprio intendente, Haydn e Albrechtsberger (violoncellista) perché facessero un po’ di musica». Hanno cinque movimenti come se fossero Divertimenti austriaci per quartetto d’archi, e solo con l’op. 9 (1769-70) si stabilizza la scansione in quattro movimenti. Composti, a stacchi e riprese, per tutta la vita, i Quartetti rappresentano la sintesi del pensiero creativo di Haydn. «Da ultimo eseguivamo soprattutto quelli della sua maturità, come l’op. 76. Per esempio quello che è stato chiamato Delle quinte (op. 76 n. 2): l’idea sorprendente di cominciare con queste due serie di cinque note discendenti, e poi di riprenderle più piano; la spontaneità e il principio elaborato per cui quest’intervallo e tutti i suoi derivati impregnano il Quartetto. Quello detto l’Imperatore (op. 76 n. 3), perché il secondo movimento riprende il tema dell’Inno imperiale che Haydn aveva terminato nel gennaio 1797: il tema resta intatto, ma ogni strumento ha la sua variazione e lo porta in ambito armonico e polifonico sempre più ricco. L’ultimo movimento (Presto) è un gioco impressionante, scatenato e instabile, scritto in maniera molto avanzata, quasi beethoveniana. Il Levar del sole (op. 76 n. 4), con quell’apertura radiosa immobile, e l’ultimo tempo parossistico che a un certo punto passa al modo minore e mette cinque bemolli in chiave».

Quartetto Kolisch

Di Mozart (1756-1791, 23 Quartetti) il Quartetto Italiano ha suonato e registrato l’integrale. «La cosa meravigliosa è che fin dai primi Quartetti scritti da bambino (scritti per sé, per la famiglia) si comincia a vedere che arriverà. Guardi», Elisa Pegreffi prende le partiture Dover e ci naviga, «questo è il primo, composto a 14 anni, a Lodi, al suo primo viaggio in Italia (K. 80 in sol maggiore) ed è già una cosa bella, ben scritta. E questo è il terzo (K. 156 in sol maggiore) già con tutti i piccoli temi, con un turbine di movimento nel Presto iniziale. Poi arrivano i sei dedicati a Haydn (1782-85), e la famosa lettera dove Mozart dichiara che Haydn gli ha insegnato, anche se poi porta avanti liberamente quei principi di indipendenza e di novità, di sorpresa».
Quando parla di Beethoven, Elisa Pegreffi lo chiama «il grande». Non intende creare una sproporzione, ma isolare la sua grande battaglia che rivoluziona la scrittura per quattro strumenti e la proietta fino alle soglie del ventesimo secolo. Beethoven (1770- 1827) compone 16 Quartetti oltre la Grande Fuga in si bemolle maggiore op. 133.Appartengono a tre periodi diversi: 6 Quartetti op. 18, dedicati al principe Lobkowitz (1801); 3 Quartetti op. 59, dedicati al principe Razumovski (1806) e inoltre i due op. 74 e op. 95 (1809-1810); 5 ultimi Quartetti e Grande Fuga (negli anni 1822-26), punto estremo delle ricerche e audacia inventiva.

Quartetto Müller

Beethoven è la cifra del Quartetto Italiano. «Abbiamo registrato l’integrale per la Philips. Ci abbiamo messo una vita. Perché non si può fare neanche tanto da giovani. Non si tratta solo del saper suonare, ma è anche conoscere la vita, i dolori, le angosce. È arrivare a capire. Adesso mi fanno spavento certi giovani che fanno l’integrale di Beethoven a 30 anni. Noi a trent’anni abbiamo suonato l’op. 130. E poi l’abbiamo lasciata stare, e ripresa dopo 15 anni, tutta ripensata. Il nostro suono in Beethoven è diverso da quello, ad esempio, in Debussy, e per noi è stato un grande sforzo, un lungo lavoro arrivare a questo suono. La Grande Fuga l’abbiamo eseguita verso la fine della nostra vita, proprio perché ci faceva paura, è cosa talmente enorme per la sonorità. Molti colleghi dicevano che non si può fare, a cominciare da Busch, che l’ha diretta con un’orchestra da camera, ma non l’ha fatta per quartetto. Invece è scritta proprio per quartetto. Proprio alla Grande Fuga è legata la cosa più bella che mi sia capitata nella mia vita di quartetto. Quando abbiamo fatto i concerti per i Lavoratori alla Scala, con Paolo Grassi nei primi anni ’70, avevamo anche un programma tutto dedicato a Beethoven, col primo Quartetto dell’op. 18, un Quartetto centrale op. 135 e la Grande Fuga… io avevo brontolato con Paolo Borciani, perché la Fuga era troppo difficile per delle persone che non conoscevano la musica. Alla fine hanno applaudito. Siamo usciti in via Filodrammatici, dove tanti giovani ci aspettavano; e lì mi è venuto vicino un ometto, con un maglione da operaio, l’accento pugliese stretto, e mi fa: ”Signora, ma io non sapevo che la musica fosse così”. Sono passati 30 anni, e ancora provo un’emozione enorme perché avevamo compiuto un miracolo. Per esternare questa cosa ha aspettato lì, mentre doveva tornare chi sa dove, prendere dei mezzi… Negli ultimi momenti della mia vita io spero di ricordarmi quell’incontro. Perché sarà un viatico meraviglioso per l’Aldilà. Il segno del nostro arrivare al cuore di tutti».

Quartetto Waldbauer con Béla Bartók e Zoltán Kodály

Lo spirito romantico s’addice all’effusione, invade le strutture del Quartetto, con Schubert, Mendelssohn, Schumann. Il giovane Schubert (1797- 1828, 15 Quartetti) è intrecciato al percorso compositivo di Beethoven. Gli ultimi tre Quartetti (n. 13 in la minore «Rosamunde», n. 14 in re minore «La morte e la fanciulla», n. 16 in sol maggiore op. 161) sono composti tra il1824 e il’26, gli anni in cui anche Beethoven sta componendo gli ultimi Quartetti. Sono destinati a esecutori professionisti (ed è lo stesso gruppo di Schuppanzigh nato attorno a Beethoven), e compiono un percorso indipendente, pungente di emozione e personale nell’errare di incisi e memorie. Mendelssohn (1809- 1847, 6 Quartetti) riceve più direttamente la scintilla beethoveniana, fin dal suo primo Quartetto, composto a 14 anni, sull’emozione della morte di Beethoven (1827). La sua musica da carnera è subito radiosa, fatata. I 3 Quartetti op. 44 (fra il 1837 e il’38), brillanti e ben co­struiti, diventeranno un modello in Francia, e folgorano Schumann (1810- 1856) a scrivere in poco più d’un mese i suoi unici tre Quartetti. «Schubert è il mio coccolo», confessa Elisa Pegreffi.
«Trovo che avesse i suoi difetti, la divina lunghezza, certi Quartetti giovanili che erano scritti per Trio, con le parti dei due violini raddoppiate. Ma, partendo dalla Rosarnunde, ha creato un mondo nuovo, straordinario, perché ha messo tecnicamente in movimento la drammaticità. Prendiamo La morte e la fanciulla, l’Allegro iniziale. Ripeteva, è vero, ma bisogna vedere come ripeteva: qua, per esempio, questo “ostinatamente, in decrescendo” è sempre un pezzetto del tema, e subito dopo, questo accordo forte/piano è una cosa impressionante, introduce a tutte queste figurazioni così strane, paurose. Poi, fa la stretta finale del primo movimento, e finisce con questo “ritardando”, dove noi abbiamo sempre addirittura staccato un altro tempo, molto più lento. Subito dopo (Andante con moto) c’è quel capolavoro che è veramente La morte e la fanciulla cioè il tema del Lied su cui Schubert ha fatto tutte le variazioni. Oppure, nell’ultimo Quartetto, l’ultimo movimento (Allegro assai). È una tarantella in 618, un po ‘ come ne La morte e la fanciulla, e comincia a cambiare continuamente tonalità: di una drammaticità enorme. Tutte le volte che suonavamo Schubert, io provavo un senso quasi di languore, di mancamento, perché era intensamente bello. Nessun altro mi ha dato più di lui». Di Robert Schumann (1810-1856) Elisa Pegreffi dice: «è un uomo sempre in contraddizione. Ci sono cose bellissime nei suoi Quartetti, scritti non bene per quartetto: ad esempio tendeva a mettere la parte del violoncello più alta di quella del violino. Li ho sempre suonati molto volentieri, con emozione, come mi piace moltissimo il Secondo Quartetto di Brahms, il senso grande della forma che arriva fino ai giorni nostri. Abbiamo registrato l’integrale di Brahms e Schumann».

Quartetto Pro Arte

Brahms (1833-1897, 3 Quartetti) è dunque un ponte fra romanticismo estremo e aperture nuove. La biografia stessa del musicista lo porta a toccare punti nodali, che gli aprono finestre sul futuro del linguaggio e lo rendono esitante, incontentabile nella rifinitura dei Quartetti, di fronte ai modelli del passato. Nello stesso anno 1853 fa tre incontri determinanti: il violinista ungherese Eduard Reményi, che gli apre la musica zigana e le ispirazioni popolari; Joachim che diverrà amico e interprete e i coniugi Schumann. Nei due Quartetti op. 5 (1873) e in quello op. 67 (1876) saprà conciliare rigore costruttivo e morbidezza di scrittura, melodia e prosa musicale a cui sarà interessato anche Schonberg.
(2 continua)