di Joachim Kaiser

(Pubblicato sul n. 16 di Amadeus, marzo 1991)

Quali sono le differenze fra l’ascolto di un disco, suono manipolato artificialmente,
e l’impressione immediata di un concerto? Quali effetti ha prodotto negli interpreti stessi
e nelle abitudini dell’ascoltatore la riproduzione dell’epoca musicale?
Alcune riflessioni di un grande critico su un fenomeno di cui spesso non siamo del tutto consapevoli.

Alla ricerca della musica «perfetta»

Cos’è cambiato da quando la radio e il disco hanno fatto la loro irruzione nel mondo della musica? (Negli ultimi anni sono stati venduti milioni e milioni di dischi di musica cosiddetta «seria», «classica»). La risposta è definitiva: nel nostro rapporto con l’interpretazione musicale nulla è rimasto inalterato. Il cambiamento ha coinvolto non solo gli amanti della musica più passivi, i fruitori dediti cioè solo all’ascolto e gli esecutori dilettanti ma anche chi in qualche modo fa della musica la sua professione (manager, impresari, insegnanti, musicologi, critici), e gli artisti stessi.

Piaceri privati
            Oggi esiste una fascia sorprendentemente larga, ancorché sfuggente, di pubblico che si interessa alla musica solo grazie al disco. In campagna e nelle città di provincia, dove hanno luogo pochi concerti e neppure troppo stimolanti, vivono appassionati di musica e collezionisti ben informati (spesso attrezzati con apparecchiature di registrazione per «ritagliare» esecuzioni radiofoniche degne di nota), per i quali l’«ascoltare i dischi» è una regola, mentre il concerto è una rara eccezione – ammesso poi che costoro ci vadano, ai concerti. Anche nelle metropoli vi sono molte persone che si evitano la scomodità di uscire per andare a un concerto, e che, per motivi di salute, motivi finanziari o addirittura estetici, si limitano al piacere privato della «musica registrata». Tanto più si sono abituati all’ascolto dei dischi, tanto più difficile diventa il ritorno all’impressione del concerto dal vivo e alle sue «imperfezioni».
Un vicino tossisce, un altro si muove, l’artista sbaglia a suonare, la resa dell’opera viene disturbata dagli applausi, dall’acustica cattiva. Meglio perseverare nel museo puro e immaginario dei nastri, dei dischi e dei concerti radiofonici.     Certo, questa folta schiera non esisteva prima dell’avvento del grammofono e della radio. Gli altri appassionati di musica invece, in misura sempre più crescente, affascinati dal solenne «hic et nunc» del concerto, e che avvertono come si lasci ben poco riprodurre la pienezza sonora ricca di armonici di un’orchestra in soggiorni angusti o negli studi di registrazione – anche ricorrendo alle apparecchiature più sofisticate – gli appassionati di musica appunto, sulla scorta dell’esperienza discografica, ascoltano in modo diverso il concerto. E gli artisti suonano con la consapevolezza di essere messi a confronto con il disco dei colleghi e con i propri.
Simili osservazioni ci portano a una conclusione ovvia: il pubblico abituato al disco è maggiormente informato. Ha un’idea del possibile più precisa di prima: può scegliere fra le migliori interpretazioni. Adesso, perfino nelle località sperdute, non è più l’«importante» maestra di pianoforte, l’autorevole maestro di cappella a stabilire cosa sia giusto e corretto come invece accadeva in passato. L’informazione discografica implica che la «fama» non si conquista più semplicemente con le apparizioni nelle sale da concerto. Alcuni artisti si erano conquistati un pubblico grazie ai dischi e, fin dal debutto, Dietrich Fischer-Dieskau , Van Cliburn, Herbert von Karajan avevano ottenuto in certe città il «tutto esaurito». Non bisogna però sottovalutare questo effetto di risonanza dovuto al disco. È fuori dubbio che ancora oggi la prima e decisiva valutazione sul livello di un interprete viene presa dopo una sua apparizione in pubblico, in una sala da concerto. Se poi la fama guadagnata con esecuzioni nei centri musicali o nelle grandi città si conferma e si amplifica attraverso il disco, ciò viene solo ad aggiungersi alla valutazione senza nulla mutare della sostanza. Durante le loro tournée in Germania, Liszt e Paganini potevano contare già sul «tutto esaurito», persino laddove si presentavano per la prima volta. Vista così, la fama discografica sembrerebbe solo una nuova sfumatura della «Celebrità annunciata» diffusa dalla promozione, dalla critica, dalle dicerie. Soltanto che il disco non è una diceria, bensì un documento.

Le abitudini d’ascolto
            È possibile ignorare con ingenuità le differenze fra la sensazione prodotta dal disco, suono manipolato artificialmente, e l’impressione immediata del concerto? Vi sono parecchi appassionati che ascoltano un disco nello stesso modo di un concerto. Si adattano. Nella loro coscienza pongono il disco nella cornice del concerto e trascurano di considerare le differenze. È un atteggiamento da studiare: involontariamente, si può vedere un film alla televisione come se si fosse al cinema. Nonostante il formato televisivo, si può immaginare la grandezza di uno schermo cinematografico e così ingannarsi, fino a trascurare il fatto che la drammaturgia televisiva e quella filmica sono due cose distinte. Allo stesso modo è possibile percepire il teatro ripreso dalla televisione come autentica rappresentazione teatrale, improntata alle condizioni teatrali. Si libera l’impressione televisiva, per così dire, dall’apparecchio e la si traspone su un palcoscenico immaginario.
Ciò non riesce mai del tutto. Con esercizio – e presupponendo un notevole e uguale impegno nei confronti di entrambi i mezzi che si scambiano – l’operazione può avere successo, con buona approssimazione.
Ma in cosa consistono i cambiamenti nelle abitudini d ‘ascolto di quegli stessi musicisti e appassionati che ritengono il disco solo un occasionale lavoro di studio, necessario perché informativo e accurato, al punto da simulare l’impressione decisiva del concerto? Al di là del fatto che l’acustica non è la medesima di una sala da concerto, e che può essere distorta dalla tecnologia o sbagliata o anche carente, si creerebbe un metro di giudizio unanime. L’unanimità dovrebbe crearsi anche al di là del fatto che la possibilità di riascoltare il disco apporti qualche modifica al carattere dell’esperienza di ascolto.

Tre concerti in uno
            Paradossalmente, si modifica anche l’unico elemento che parrebbe destinato a rimanere costante: il tempo. Il tempo d’ascolto del disco e del concerto sono diversi, proprio come il tempo fisico e il tempo dell’esperienza – se non addirittura nel senso che il disco viene vissuto in modo meno «intenso». Dove risiede la differenza? A Fürtwangler e Fischer (1886-1960, pianista svizzero celebre per le sue interpretazioni di Bach, n.d.r.) occorrevano per il Concerto in mi bemolle maggiore di Beethoven trentotto minuti e venticinque secondi sia in pubblico sia in sala d’incisione (tanto più se il disco era la registrazione di un concerto). Non vogliamo considerare qui che, in effetti, molti interpreti scelgono altri tempi (nella maggior parte dei casi tempi più veloci!) allorché incidono movimenti lenti. La differenza esiste anche quando le esecuzioni corrispondenti hanno la medesima durata.
Per iniziare da una esperienza elementare, un identico programma di concerto, ascoltato tra le otto e le dieci e mezza di sera, a casa, riprodotto da un disco, si accorcia in maniera sorprendente. Senza dubbio gli abili appassionati di dischi sono in grado di ascoltare in un’unica sera le musiche di tre o quattro concerti pianistici. L’intera produzione di Anton Webern, forse il più significativo compositore del ventesimo secolo, si concretizza in quattro long playing. Si può cominciare dopo cena con l’Opera 1 e poco prima di mezzanotte si è «esaurita» l’essenza sonora di una lunga vita musicale. Ora, non si vuole parlare della più forte intensità di ascolto di un concerto dal vivo. Anche il disco lo si può ascoltare con devozione, non infastiditi dalla vicina arrivata in ritardo con gioielli tintinnanti o da uno sbadiglio impietoso. Anzi, chissà se a casa non si ascolti con maggiore attenzione, indisturbati, perché si segue con lo spartito e, se si è perso il filo, si può riprendere l’ascolto.
Il contrasto tra il tempo d’ascolto del concerto e quello del disco non è riducibile a dualismi quali concentrazione e distrazione, capacità di sentire profondamente e disattenzione. Ma cosa conta insieme con l’«isolamento» e il «peso» dell’impressione d’ascolto? Si chieda agli appassionati di musica, che vanno spesso ai concerti e ascoltano volentieri i dischi, quali siano state le loro più grandi esperienze musicali. È probabile che racconteranno solo le impressioni concertistiche vere e proprie, che non verrà loro in mente di citare dei dischi. Poiché il tempo della musica, ascoltata con la consapevolezza della sua irripetibilità, l’unicità dell’attimo è, evidentemente, per noi mortali, il presupposto della profondità di un’esperienza (così come accade per una tragica fatalità).     La coscienza che tutto ciò lo si può riavere ancora una volta non danneggia la concentrazione, la gioia, la devozione ma forse l’importanza, l’«Unicità» – e il termine è quanto mai appropriato – dell’impressione. Nel saggio L’opera d ‘arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Walter Benjamin ha coniato il concetto di «aura» per definire quanto viene sottratto all’opera tecnicamente riprodotta. Benjamin non si è preoccupato della possibilità di adattamento, della nuova immediatezza che può sorgere quando una stessa persona cerca di suonare la Sonata «Al chiaro di luna», quando si reca a un concerto per ascoltarla o si appresta a sentirla dai dischi.

L’irripetibilità dell’esperienza
            All’«unicità» dell’impressione del concerto appartiene però molto di più della sola coscienza dell’irripetibilità; ovvero, la sensazione e la conferma di partecipare all’emozione comune di un pubblico entusiasmandosi o anche protestando. Il pubblico e la presenza fisica sono necessari perché si formi un giudizio che non sia legato solamente al gusto di un ascoltatore isolato nel privato.
I minuti dell’applauso, della preparazione, del sorgere di una reazione collettiva, della conversazione negli intervalli così partecipe e ricca di attesa: tutto ciò in casa viene a mancare. Tra le quattro mura di casa propria tutto avviene assai rapidamente. È per sfuggire a questa solitudine che molti amanti dei dischi sono posseduti da un’irresistibile smania esibizionistica. Non si stancano di mostrare orgogliosi i propri dischi. Si comportano come se non li avessero soltanto scoperti, ma addirittura incisi. In realtà, cercano conferma della loro fortuna; non credono che la conferma di altre persone migliori il disco, ma che comunque conferisca duraturo diritto alle proprie impressioni. Fino al punto che, talora, i proprietari di dischi assomigliano ai collezionisti di aneddoti. Ognuno vuole prendere la parola, non vuole ascoltare gli altri, ma esibirsi; sfilare in parata con il proprio disco come se questo fosse una parte di sé, costata venticinquemila lire. Gli appassionati di musica «realisti» rifiuteranno simili speculazioni su «tempo» e «presenza». Diranno che l’esistenza delle lampadine non cambia il sole. Impassibili, chiederanno in che senso si ascolta un concerto diversamente da prima. Non significa nulla che il disco abitui alla perfezione. Dal tempo di Orfeo, le stonature sono stonature. Che oggi un ceto medio, musicalmente istruito, abbia imparato a riconoscerle non intacca in alcun modo la relazione giusto-sbagliato. Si dovrebbe ribattere che la disponibilità e il largo consumo dei dischi (per tacere delle migliaia di ore di dischi, nastri e repliche trasmessi dalla radio) hanno nel frattempo rovesciato il rapporto tra «prodotto conservato» e «natura».
Verosimilmente, chi si interessa alla cultura musicale ascolta molta più musica riprodotta che dal vivo. Persino in una grande città devono passare parecchi anni prima che un appassionato possa sentire l’«Eroica» in concerto più volte. A chi colleziona dischi, invece, basta un inverno, un mese, se non addirittura una settimana, a seconda della voglia e dell’umore. Chi possiede un buon apparecchio radiofonico può ascoltare la sinfonia ogni sera, da un qualsiasi programma. Ha ragione allora Erwin Stein quando individua in questa disponibilità una pericolosa preformazione dell’ascoltatore? «Gli studenti e gli ascoltatori di domani saranno confusi di fronte all’interpretazione diversa che, diciamo, Toscanini, Weingartner (1863-1942, direttore d’orchestra tedesco, attivo anche come compositore, teorico e saggista. Allievo di Liszt, fu uno dei primi direttori a dedicarsi con intensità all’incisione discografica, n .d.r.) e Fürtwngler imprimono a una sinfonia di Beethoven… Non intendo affatto sottovalutare gli esempi dei grandi interpreti. Gli studenti dotati possono imparare molto da loro, ma spesso si appropriano dei pregi come dei difetti». (E. Stein, Musik, Form und Darst ellung, Monaco 1974, pag 14). È un pericolo reale. I dischi con cui si è cresciuti possono finire con l’identificarsi con la composizione stessa. Io, per esempio, non posso immaginare le Variazioni della Sonata in la maggiore di Mozart in maniera diversa da come le incise Wilhelm Kempff anni fa, oppure il grande sviluppo nel primo tempo del Concerto per violino di Brahms disgiunto dall’esecuzione di Ginette Neveu, un’interpretazione che mi ha letteralmente aperto le orecchie, o meglio mi ha, appunto, preformato. Chissà se simili eventi formativi (nota bene: non culturali) non rendano problematico l’ascolto di altre interpretazioni. Questo, però, non vale soltanto per l’esperienza discografica, ma – e soprattutto – per gli eventi concertistici, o per le influenze di insegnanti e amici e così via. Perciò non è comprensibile come Erwin Stein possa mettere in guardia dalla confusione che ingenera l’ascolto d’interpretazioni diverse dei grandi. Solo le differenze, spesso grottesche, tra più interpretazioni possono esorcizzare le fissazioni e relativizzare l’impressione delle figure patriarcali della musica.

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Joachim Kaiser, uno dei più insigni studiosi tedeschi, dal1959 è critico musicale della Süddeutschezeitung; dal 1977 è professore alla Ochschule per la musica e l’arte drammatica di Stoccarda. Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo queste pagine da «Grandi pianisti del nostro tempo», ed. Piper-Schott.

Le illustrazioni sono di Norman Rockwell.