di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Ogni tanto si riaccende il dibattito sul nostro inno nazionale: ci teniamo Fratelli d’Italia, o lo cambiamo? E in questo caso che cosa cambiamo, la musica di Michele Novaro, o le parole di Goffredo Mameli? O tutt’e due? Tra le proposte che si sentono circolare, quella suggerita tempo fa da una combriccola di goliardi avrà scarse probabilità di successo. Provi il lettore a canticchiarsela: le parole restano quelle, ma la musica va sostituita con quella della celebre canzone di Gino Paoli: «Sapore di sale, sapore di mare…». I senari dell’eroe di Mentana e quelli dell’amabile cantautore goriziano sono perfettamente intercambiabili. Ma mentre le immagini militaresche di Fratelli d’Italia acquistano improvvisamente un carattere più affabile e sorridente, proviamo a continuare il gioco, e a cantare le parole di Paoli sulla melodia di Novaro: come liberare le immagini del tenero amore balneare dalla pesante patina di salmastro che verrebbe a corroderle?
Un’operazione del genere riceve il nome· tecnico di parodia . Ed effettivamente l’impressione che ne riceviamo è quella di una presa in giro, di una dissacrazione satirica. Le più antiche parodie sono nate proprio così, con una simile carica dissacrante, a cominciare da quella ben nota a ogni liceale, la Batracomiomachia dell’età greca arcaica, nella quale come caricatura, Achei e Troiani sono sostituiti, nell’aspra contesa, da rane e da topi.
Parodia come satira, o dunque. Così chiamiamo parodia ogni scimmiottatura di opere letterarie preesistenti, e naturalmente ben note al pubblico. Ma mentre questo è l’unico significato che il termine ha in letteratura, in musica le cose si complicano. Tra le prime parodie riconosciute dai musicologi ci sono Messe cantate del nono secolo: e certamente qui non c’è ombra di satira. Spiegazione? Ecco: mentre in letteratura la parodia è un tipo particolare di satira, in musica è la satira a risultare un tipo particolare di parodia. Per dirla più chiaramente: in musica il termine parodia è usato per indicare ogni sostituzione di un testo sopra una melodia, o anche viceversa, che si abbiano intenzioni satiriche (come nel connubio Paoli-Mameli), o intenzioni serie, come nella ricordata Messa: qui nuovi testi liturgici sono cantati sopra melodie preesistenti. Nel Medioevo il termine preferito era contra-factum. Parodia si affermò nel primo Rinascimento. Già nel Quattrocento era ormai prassi comune utilizzare nelle Messe polifoniche brani più o meno lunghi tolti da precedenti composizioni. Missa parodia è proprio il nome dato a queste opere.
Il «prestito» avveniva da opere sacre, come mottetti, ma soprattutto profane, come canzoni e madrigali. La ragione era, se si può dire, di politica del culto. Si adattavano melodie profane amate dal pubblico facendole diventare preghiere. Le forme più se­ vere di parodia dilagarono nel XVI secolo per l’opera di Lutero, che nella sua promozione dal canto sacro del popolo sollecitava il recupero delle canzoni più conosciute. È così che uno dei più famosi corali luterani, che Bach riprenderà sei volte nella sua Passione secondo Matteo, è tratto da una canzonetta di Hans Leo Hassler: «L’amica mia gentile è un fiore di beltà…” diventa allora Jl tuo capo coronato di spine, Cristo Signore…».
La Chiesa della Contrariforma non poteva esser da meno, ed ecco allora fiorire una quantità di laudi, sempre su motivi profani: «La villanella si leva per tempo a pa­ scolare le sue caprette», viene trasformata in «Lu fraticello si leva per tempo», natural­ mente per alzare inni mattutini al Signore, come recita una fortunata lauda cinque­ centesca.
Ma questi casi non esauriscono gli usi del termine parodia in musica. Nel Rinascimento italiano e spagnolo viene adoperato per indicare rielaborazioni strumentali, per tastiera o per liuto, che a volte erano molto ampie, di materiali vocali. Viceversa, lo ritroviamo nella Francia dell’età barocca, per designare l’adattamento di testi poetici a brani originariamente strumentali. Nell’uso del nostro termine c’è dunque una costante: l’interscambio di musiche e di testi.
E solo in alcuni casi la parodia ha il carattere satirico esclusivo invece della parodia letteraria. L’impiego simultaneo delle due procedure, quella letteraria e quella musicale, crea una miscela esplosiva, che ha sempre fatto le gioie dei goliardi e dei loro più giovani compagni di gite scolastiche. Senza necessariamente ricorrere a dissacrazioni patrie. Ma almeno un precedente del genere va citato, una rara chicca, ben poco nota anche in quella Francia che la vide fiorire, nel secolo scorso: una versione della Marsigliese in chiave… culinaria:

«Allons enfants de la courtille,
le jour de boir est arrivé.
C’est pour vous que le boudin grille,
c’est pour vous qu’il est conservé…»

E alla fine l’appello:
«A table, citoyens!
Videz tous ces flacons …»

«Avanti, figli della crapula,
il giorno di bere è arrivato.
È per voi che cuoce l ‘arrosto,
è per voi che è conservato…
A tavola cittadini,
vuotate tutti questi bicchieri!…».

(Amadeus n. 43 giugno 1993)