di Alberto Basso

(Pubblicato sul n. 13 di Amadeus, dicembre 1990)

La suprema arte di Bach, incapace di concepire l’insignificante
Dopo la scomparsa di Bach, la grande musica del compositore di Eisenach
fu presto dimenticata anche da chi aveva vissuto in contatto diretto col «kantor».
Le sue opere furono ignorate dalle generazioni seguenti. La «Bach-Renaissance» si avviò solo nell’800.

          Si dovrebbe supporre che il pubblico non sia impreparato a cogliere l’importanza e il significato dell’opera di un musicista, quale fu Johann Sebastian Bach, che più di qualsiasi altro lasciò un’indelebile impronta nella vita musicale della età (quella che si è soliti indicare con l’ormai forse troppo equivoco e limitativo termine «Barocco»).
Le sue opere, e specialmente quelle strumentali, sono sufficientemente note e rappresentano un costante punto di riferimento e di richiamo nell’intensa attività concertistica dei nostri giorni, nella diffusione delle edizioni discografiche e, soprattutto, negli ambienti nei quali si coltiva l’educazione musicale non a livello meramente grammaticale.

Johann Sebastian Bach

L’ultima stagione
            A livello pedagogico non vi è musicista che non abbia dovuto fare i conti con Bach, sudare su pagine che una dubbia tradizione ha confinato in ruoli didattici fuorvianti (esautorando le funzioni dell’opera d’arte per esaltare i valori propedeutici), constatare come la storia anche per il suo tramite sia divenuta un patrimonio, un bene inalienabile e inscindibile dalla nostra stessa condizione di uomini civili, fortificati nello spirito e nell’intelletto e pronti a cogliere dalla musica quei messaggi che con modalità diverse ci giungono attraverso i canali della cultura, del pensiero, dell’arte.
Eppure, quanto il pubblico conosce, o crede di conoscere, di questo principe, di questa suprema intelligenza critica incapace di scrivere l’insignificante e di concepire l’opera sbagliata, non rappresenta che una parte del suo divenire artistico. Ai cultori di musica dislocati nell’area mediterranea, soggetta a sollecitazioni religiose ben diverse e a costumi sociali assai distanti da quelli delle aree al Nord delle Alpi, sfuggono per tanti motivi (ma non ultimi una certa inerzia e una qualche colpevole pigrizia intellettuale) le opere che più strettamente sono legate alle funzioni di musico di chiesa e di città: voglio dire, il repertorio delle cantate – sacre e profane – sulle quali Bach costruì la propria immagine di uomo e di artista a beneficio dei contemporanei e dei posteri.
Una «lettura» delle opere di Bach che privilegi la musica strumentale, oppure quella speculativa (le opere dell’incommensurabile ultima stagione nella quale l’arte e la scienza sono l’una all’altra consustanziali), o ancora le grandi creazioni vocali­ strumentali (le passioni, gli oratori, la cosiddetta Messa in si minore) fa un grave torto al musicista che affrontò con eguali capacità tutti i settori dell’arte musicale, trascurando il solo melodramma: forse non tanto per scelta personale quanto piuttosto a motivo di un insieme di circostanze che, strette in congiura, impedirono sempre a lui, che di tutto era curioso, di sperimentare il settore verso il quale era convogliata la vocazione della maggior parte dei musicisti a lui contemporanei. E, del resto, la tradizione di famiglia non esercitava il necessario stimolo ad affrontare le scene, avviandolo, invece, lungo le strade del servizio «povero», del servizio prestato burocraticamente per conto di centri di provincia, piccole corti, istituzioni ecclesiastiche dalle scarse risorse.
Nel corso della sua vita, Johann Sebastian percorse l’intero cammino che dal ruolo più semplice del «musico da camera» conduce a quello di director musices, di responsabile dell’attività musicale di un’intera città (Lipsia, che al tempo in cui vi approdò Bach contava appena 30.000 abitanti), passando attraverso le posizioni intermedie del1’organista, del Konzertmeister (direttore di un collegium musicum di corte), del Kappelmeister (direttore di una cappella), del Kantor (responsabile dell’educazione musicale in una scuola e compositore ufficiale municipale).
Eppure, di quel cammino a malapena esistono le tracce. Interprete magistrale delle immagini che avevano fatto grande l’età del Barocco, e sin il Rinascimento, ostinato cultore del passato e scettico antimodernista, Bach ebbe la ventura (e, sotto un altro punto di vista la sventura) di lanciare un messaggio, sospeso tra memoria e profezia, che fu letto da pochi, da una guarnigione di fidi maestri sostituti che si formò alla sua scuola.

La genealogia della famiglia del musicista scritta di suo pugno.

Una mente pedagogica
            Questa comunità di adepti, che seguì gli insegnamenti di una mente pedagogica preparata a ogni obiezione e contestazione, si frantumò poi in pattuglie silenziose che segretamente avanzarono nei territori frequentati dai musicisti del secondo Settecento, portando con sé non solo la testimonianza di un magistero supremo, ma anche il documento musicale parlante, cioè il patrimonio artistico lasciato dal Kantor. In effetti, per il tramite di quei seguaci, di quei discepoli e apostoli, s’inverò uno dei principi fondamentali sui quali si regge la musica di Bach: quello di portare in sé una straordinaria, forte carica istruttiva ed esortativa. Si tratta in altre parole, di una musica che si apre al mondo circostante e gli detta norme di comportamento, gli fornisce exempla, gli suggerisce esercizi, applicazioni, progetti. E per cogliere quei risultati, per operare in quella direzione, quella musica si fa forte del culto della memoria, oggi esautorata da chi vorrebbe sostituire all’esperienza il meccanico dipanarsi di trame in sé e per sé prive di senso e che possono essere rese vive e vitali unicamente dall’elaborazione concettuale e sentimentale che ne fa l’uomo.
In ultima analisi, la memoria afferma i valori stabiliti dalla tradizione e mette allo scoperto uno dei tanti aspetti in cui si manifesta il concetto di essere e di agire secondo natura. Per il pensiero filosofico dell’epoca era naturale anche ciò che è conforme alla tradizione, ciò che è già stato sperimentato, ciò che risponde a un ordine razionale dell’Universo. Se le scienze dello spirito potevano essere inquadrate in un sistema «naturale» – cosicché si parlava facilmente di diritto naturale (giusnaturalistico), ma anche di morale naturale e persino di teologia naturale – era logico che anche la musica potesse e dovesse sottostare a un regime naturale. Sotto il profilo «fisico» questo regime si traduceva nell’applicazione al linguaggio musicale dei principi naturali fisico-matematici, la cui dimostrazione era affidata a esperimenti acustici e, diremmo oggi, di «psicologia» del suono: ed è in questa direzione che si muove la speculazione dei teorici. Sotto il profilo «Spirituale», la natura della musica sta nella sua obbedienza a canoni stilistici prestabiliti e nella sua rispondenza a effetti chiaramente individuati.
Lo stile, in ultima analisi, consisteva nell’applicazione delle regole che governano l’ars oratoria; la musica stessa era figlia della retorica e si serviva delle «figure retoriche» che infioravano il discorso letterario.
Anche questo era un modo di rendere giustizia all’interpretazione meccanicistica della natura in termini di estensione, figura e movimento che emanava dal Discours de la Méthode di Cartesio (1637) e che condurrà la filosofia a una sistematicità geometrica sino a indurre uno Spinoza, dietro quella spinta di razionalismo radicale, quasi per un recupero di tradizioni neoplatoniche, a formulare una Ethica ordine geometrico demonstrata (1675). Ancora una volta, dunque, i grandi strumenti della misurazione (clessidra, bilancia, compasso) e i simboli della perfezione (quadrato magico, arcobaleno, cometa) – come nella straordinaria raffigurazione della Melancolia che Albrecht Dürer aveva firmato nel 1514 – erano chiamati a testimoniare la «magia» di un ordine che nella sua compiutezza formale rendeva occulta la realtà e fantastico il suo modo di essere.

Uno scorcio di casa Bach.

Calate in un mondo reso affascinante dall’urto delle antinomie fra razionalismo e irrazionalismo, fra grazia e scienza, fra fede ed esegesi storica, le opere di Bach (e i suoi stessi giorni) non trovarono la necessaria considerazione presso i contemporanei. Per una delle straordinarie contraddizioni che rendono incerta e avventurosa l’interpretazione della storia, il figlio più glorioso dell’epoca che si suole definire Tardo Barocco e il suo indiscusso vertice musicale non figurano negli atti del tempo al posto giusto, anzi quasi non vi compaiono; l’estraniamento della sua arte fu massiccio perché massiccia e provocatrice fu l’indifferenza di Bach nei confronti del nuovo corso.

Una biografia lacunosa
            Così la società del tempo non si preoccupò di tramandare i documenti di una vita spesa interamente e senza mezze misure al servizio dell’arte: la biografia è lacunosa, scarse le fonti dell’epoca, incerte, per non dire evanescenti le notizie sulle condizioni economiche del musicista, opachi i dati sulla psicologia del personaggio, vani i tentativi di definire, una volta per sempre, la cronologia di molte opere specialmente di musica strumentale, impossibile il calcolo delle composizioni perdute, modestissimo il contributo recato dall’esile epistolario (una trentina di lettere), irrilevante il peso commerciale delle opere (praticamente mai uscite, vivente l’autore, dai confini geografici della Turingia e della Sassonia), pochi, e non certo entusiastici, gli attestati critici.
Dimenticata da coloro che vissero in contatto diretto col Kantor, estranea quasi agli stessi suoi figli che la consideravano «roba da museo», ignota ai cultori della musica delle generazioni immediatamente seguenti, la musica di Bach «ufficialmente» non esisteva: le corti e le chiese per le quali quella musica era nata ne ignoravano l’esistenza e la validità artistica. Il silenzio sconsiderato, ma in un certo senso giustificato dalle circostanze storiche, incominciò a essere rotto verso la fine secolo, quando alcuni teorici presero a citare sparsi frammenti delle opere bachiane, a sostegno di certe soluzioni tecniche e quando alcuni musicofili promossero sporadiche e timide esecuzioni private delle opere strumentali. Fu Forkel per primo (1802) ad affrontare il problema della vita e dell’arte di Bach: iniziava la «Bach­Renaissance» e subito alcuni editori si preoccupavano di immettere sul mercato alcune opere.

Cembalo e liuti di casa Bach: le opere il musicista non trovarono la necessaria considerazione presso i contemporanei, e non uscirono dai confini di Turingia e Sassonia.

Nel 1829 il ventenne Mendelssohn presentava a Berlino, in una edizione rimaneggiata e a distanza cento anni dalla sua prima comprovata esecuzione la Passione secondo S. Matteo, aprendo definitivamente quello che potremmo definire il «processo a Bach». Paradossalmente, vien fatto di notare, la «scoperta» di Bach soprattutto il frutto della crisi che il luteranesimo attraversava a cavallo tra i due secoli, poiché la spinta decisiva verso la «riabilitazione» venne da coloro che, nel tentativo di rinvigorire il movimento religioso, riportarono alla luce il grande patrimonio dei corali, sangue della nazione tedesca; e, una volta riscoperto e studiato il repertorio musicale luterano, era logico che si dovesse giungere a Bach. Immediatamente si produsse una reazione a catena. Nel 1850 si diede vita a una «Società Bach» che l’anno seguente iniziò la pubblicazione dell’opera omnia del maestro di Eisenach.

La propensione all’eclettismo
            Nel 1865 comparve l ‘importante studio del Bitter, seguito alcuni anni dopo (1873 e 1880) dai due monumentali volumi di Philipp Spitta; si cominciò a esplorare tutto il Barocco tedesco, poi quello italiano e francese; quindi entrò in scena la cultura rinascimentale, non certo ignota a Bach, che rivelò agli indagatori prospettive sempre più profonde e ardue, inimmaginabili nel secolo dei lumi e nell’età di Kant e di Beethoven. Il processo iniziatosi nel nome di Bach toccava così gran parte della scuola musicale e quel timido fervore iniziale (per altro figlio del Romanticismo), fattosi adulto e cosciente, portava alla fondazione di una nuova disciplina storica: la musicologia. Contraddizione singolare, la storia che prima aveva rinnegato Bach ora pareva trovare in lui il momento essenziale e centrale del proprio avvenire: in Bach culminava un’epoca, con Bach se ne iniziava un’altra.
In effetti, Bach non perse mai di vista la storia. Nutriva uno straordinario interesse per le opere altrui, antiche o contemporanee; si avvicinava a esse con pudore verginale ma con tempra di ricercatore; lo studio fu lo scopo della sua vita e la sua arte fu lo specchio di un ‘applicazione scientifica costante. Certo, da quello studio scaturì la sua propensione all’eclettismo, alla sintesi storica. Concetti come quelli di ricerca o di esperimenti gli erano congeniali. È significativo, a esempio, che gran parte della sua produzione strumentale sia, nel medesimo tempo, opera di poesia e di scienza (è il concetto medievale di ars che persiste come immagine dell’attività creativa) e non è meno importante, per la definizione dell’artista, che le più grandi raccolte di musica strumentale siano state create per finalità didattiche o per l’istintivo desiderio di ricondurre a un sistema l’impulso creativo. Se si considerano certi aspetti del suo temperamento artistico, parrebbe logico pensare che egli intendesse votarsi all’astrattismo e che soltanto le circostanze esteriori lo abbiano obbligato a una musica «regolare»; di fatto, la situazione musicale concreta, reale, non sfuggiva mai alla sua attenzione, pronto come era a cogliere le occasioni per manifestare la novità del suo pensiero e trasmettere una conquista tecnica.

Il senso dell’irripetibilità
            Sotto questo punto di vista egli non faceva distinzione fra opera sacra e opera profana, fra musica vocale e musica strumentale, fra teoria e prassi. I mezzi, gli stilemi, i materiali, le situazioni, gli strumenti di lavoro, in una parola; sono i medesimi (e quante volte Bach non ha utilizzato pagine già concepite per tutt’altra destinazione!), ma poi li trasforma sotto l’impulso di folgoranti intuizioni espressive, dando vita e concretezza poetica a ciò che pare concepito in astratto o adattabile a tutti gli usi.

In un altro schizzo del 1931 una visione del soggiorno della casa natale di Bach a Eisenach.

In ciò, naturalmente, c’è il segno di un atteggiamento morale; l’opera di Bach è in primo luogo il frutto maturato sulla pianta di un fervido sostenitore del credo luterano e non v’è pagina che in qualche misura contraddica l’esperienza religiosa: la sostanziale serietà e severità della sua poetica non consente, neppure quando si tratta di opere alla moda, d’interpretare diversamente il testo musicale, che in Bach è sempre determinato da un rigoroso interesse speculativo e governato da un tenace esprit de géométrie, simbolo di ordine e di saggezza, specchio di una intelligenza privilegiata e di una condizione umana edificante. La complessa natura del fenomeno musicale bachiano – natura tanto più travagliata e criticamente stimolante quando dai dati esteriori e complementari si vuole risalire alla ricchezza della fantasia, alla potenza dell’invenzione o alla sovrana padronanza della tecnica strumentale e vocale – è tale tuttavia da non consentire una definizione unilaterale o generica.
Anche dal punto di vista formale le soluzioni sono infinite e condizionate da un prestigioso senso dell’irripetibilità di certe esperienze cardine, ritenute tali dallo stesso musicista. L’esperienza che il compositore dimostra nel manovrare il materiale sonoro meraviglia e commuove anche nelle opere giovanili e, come sempre avviene quando si trova di fronte alle grandi figure dell’arte, l’immediatezza dell’espressione è tale che ogni problematica pare annullarsi venir meno tra le luci riflesse d’una pura visione spirituale.
È però nell’ultima stagione creativa, quando l’elemento speculativo e teoretico prende il sopravvento su quello pratico e funzionale, che Bach si rivela in tutta la sua disarmante carica contestativa e innovativa.

Alle origini della polifonia
            Che lo spazio musicale fosse condizionato da fondamenti matematici e che il lavoro creativo dovesse somigliare a un ‘attività scientifica era opinione abbastanza diffusa nel secolo dei lumi. Bach, nel corso di tutta la sua esistenza, ha sempre dimostrato di voler misurare e connettere i principi della logica e le astrazioni formali con la costituzione sentimentale e drammatica, tanto della creazione poetica quanto delle circostanze per le quali l’opera era nata; ma lo ha fatto, per molto tempo, quasi in obbedienza a un istinto, a un richiamo incontrollabile, in qualche caso forse inconsciamente, spintovi da un modus operandi che era proprio del suo tempo, connaturato alla corrente esperienza musicale.
Con il passare degli anni, tuttavia, il metodo si è affinato e l’analisi nel profondo della «composizione» ha smosso energie speculative e sistemazioni teoriche che, all’atto della loro applicazione, avrebbero varcato le frontiere stesse del costume musicale sino ad allora seguito. Così, a poco a poco, Bach è giunto a quello che doveva essere lo scopo supremo della sua vita: la perfetta disciplina interiore, l’autocontrollo della fantasia, l’umiliazione dell’istinto. Al tempo stesso, Bach ha mostrato di ripercorrere a ritroso, in un certo senso, il cammino della storia musicale e rifarsi alle fonti pure della polifonia, proponendosi quasi un «ritorno all’antico» che, per la sua genuinità e individualità, non avrebbe minimamente contaminato il processo della realtà musicale contemporanea e sarebbe rimasto unico e isolato, come un monumentum, un arcano ricordo del passato, un fortilizio inespugnabile della memoria.

Il soggiorno della casa natale di Bach a Eisenach, in uno schizzo del 1931.

L’approccio alla «nuova musica» è stato graduale: nell’ultimo decennio tuttavia, la situazione si è fatta incandescente. Il principio costruttivo individuato per l’operazione di rinnovamento del linguaggio e dei suoi significati è quello della variazione, intesa però in un senso totalmente differente a quello poi subentrato nelle epoche successive con l’affermazione della variazione, ornamentale prima e caratteristica poi. L’ordinamento della materia avviene partendo da un tema, da un arbor (da un tronco) che poi si distende in una serie di derivazioni e ramificazioni secondo un piano organico di sviluppo, ma sempre agganciato a quel punto di partenza, memorizzato e fatto partecipe di un successivo evento sicché il labirinto è facilmente percorribile. Al tempo stesso, l’impostazione architettonica, che la composizione riceve nel suo insieme, è anche una manifestazione di enciclopedismo: il musicista mira a riunire in un corpo unico i diversi e distinti aspetti di una determinata tecnica o varie possibilità formali fra loro apparentemente incompatibili. Tutte le raccolte bachiane, anche quelle precedenti l’attività di Lipsia, sono autentiche prove di cultura enciclopedica applicata a una data situazione musicale; ma il principio riceve ulteriori spinte in avanti negli anni del cantorato in San Tommaso e specialmente nell’ultima fase creativa. Anche un’opera come la Messa in si minore, che nella sua definitiva sistemazione è contemporanea dell‘Arte della fuga, è un prodotto dell’applicazione ragionata alla dottrina dell’enciclopedismo, che riceve la sua più alta consacrazione nelle ultime opere per strumento a tastiera, agganciandole al comune denominatore dell’arte della variazione, con il tacito proposito di toccare la perfezione e usando degli strumenti propri di una scientia universalis totalmente appagante.
          La nuova ascesi, il nuovo misticismo conducono a prestare la massima attenzione ai dati geometrici, all’ordine, alla riduzione del macrocosmo e del microcosmo in un sistema organico simmetricamente disposto in cui trovano il giusto equilibrio le discipline cabalistiche, alchimistiche e matematiche. Il razionalismo s’impregna di magia, di occultismo, di ermetismo e l’avvicinamento a un certo tipo di musica implica riti di iniziazione, cerimoniali propri di una società segreta. Ed è proprio il sapere segreto il fine ultimo di Bach, un sapere di cui egli s’impadronisce alla vigilia della morte. Alla difficile arte del morire, l’ars moriendi degli antichi, Bach si prepara con gesti di purificazione ed esercizi di ascetismo musicale. Nell’ultimo decennio la sua vita si era trasformata al punto da sembrare irriconoscibile e, forse, una volta diventato cieco Bach era diventato estraneo a se stesso. Abbandonati gli usati modi, complici gli attriti col mondo esterno, perché in cuor suo non credeva più nelle forme e negli stili con tanta impaziente insistenza sostenuti nei primi dieci o quindici anni del suo sodalizio con le istituzioni di Lipsia, egli si era ritirato sul monte Sion, in una salda fortezza, cittadella o torre in cui unica ospite ammessa era la scienza con le sue virtù di creatura eletta, con la luminosa e vibrante sua aureola di certezze acquisite e di inattesi sviluppi. Una nuova apocalisse, una rivelazione – dunque – di ciò che è e di ciò che è stato, una testimonianza di profezia intesa non tanto come predizione del futuro, quanto piuttosto, secondo il suo significato più vero e autenticamente biblico, come lettura del passato e interpretazione dei segni attraverso i quali si manifesta il pensiero che può essere fatto di suoni puri, specchi d’una disciplina spirituale.

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Alberto Basso è uno dei massimi studiosi dell’opera bachiana. Fra le sue pubblicazioni: «Il corale organistico di J. S. Bach», «L’età di Bach e di Händel» e «Frau Musika. La vita e le opere di J. S. Bach».