di Franca Cella

(Pubblicato sul n. 98 di Amadeus, gennaio 1998)

Una breve storia in tre puntate delle secolari
vicende di questa eccelsa formazione cameristica
con Elisa Pegreffi, testimone d’eccezione

            Sul filo di Brahms, e della classicità viennese, s’impianta a fine Ottocento la nuova scuola francese, coll’esempio saldo del vecchio maestro César Franck (1822-1890) che compone il suo unico Quartetto nell’ultimo anno di vita, seguito da d’lndy (nel 1891), Ropartz (nel 1893) e, finalmente, nel 1924, dal quasi ottantenne Gabriel Fauré (1845-1924, 1 Quartetto), con due punte di novità. Il giovane Debussy  (1862-1918) col Quartetto in sol minore (1893), ciclico (come Franck), saldo nella costruzione e vivido di elementi eterogenei antichi e recenti, dal gregoriano al gamelan orientale, dal modo frigio alla musica russa, che sfociano in una sonorità rarefatta e cosmopolita, ricamata in instancabile contrappunto.
È la prima partitura che i giovani del Quartetto Italiano, ancora studenti, han messo in repertorio. L’altra punta nuova è Ravel (1875-1937), col Quartetto in fa maggiore (1903), già risoluto nella fermezza di meccanismi e geometrie, luminoso di giovinezza ed eleganza preziosa. L’altro polo che acquista fisionomia dopo Brahms è quello dei russi. Da Cajkovskij (1840-1893, 3 Quartetti) che rappresenta la scuola nazionale, orgoglioso di sapore russo e audacia armonica, alla scuola cosmopolita di Glinka (1804-1857, 2 Quartetti), Borodin (1833-1887, 2 Quartetti), Tane’ev (1856-1915, 7 Quartetti), Glazunov (1865- 1936, 6 Quartetti), fino al Novecento di Stravinskij (1882-1971, 2 composizioni), Prokof’ev (1891-1953, 2 Quartetti), Sostakovic (1906-1975, 15 Quartetti composti tra il 1939-74). Sempre nell’area dell’Europa orientale si caratterizza la famiglia slava, dei compositori boemi e ungheresi: Smetana (1824-1884, 2 Quartetti), Dvorak (1841-1904, 14 Quartetti, dove stilizza forme di danza popolare ceca e perfino di musica nera, nel Quartetto n. 12 «Americano»), Janacek (1854-1928, 2 Quartetti, di grande concentrazione psicologica), e infine Kodaly (1882-1967, 2 Quartetti), Bartòk (1881-1945, 6 Quartetti), Bohuslav Martinu (1890-1959, 7 Quartetti).

È un mondo che il Quartetto Italiano ha subito aggredito nelle punte avanzate: il vostro primo concerto, a Carpi nel ’45, aveva in programma Concertino (1920) di Stravinskij, e alla Società del Quartetto di Milano, nel ’46, presentavate il Sesto di Bartok eseguito per la prima volta nel 1947 a New York dal Quartetto Kolisch. Per l’Italia di quegli anni erano scelte audaci.
«Noi siamo figli dell’epoca del fascismo, quando in Italia non arrivava niente da fuori, non si sapeva di musica moderna. I nostri “moderni” erano Malipiero, Pizzetti, Respighi… Nel nostro contesto culturale c’era una frattura da colmare e ci siamo subito rivolti alle evidenze. Stravinskij era nuovo, sintetico, travolgente. Scrive benissimo per quartetto e ha sempre in mente qualcosa di teatrale, come per una rappresentazione. Il primo dei Tre Pezzi per quartetto d’archi è un canto sacro; il secondo è ispirato a un giocoliere inglese e alle sue contorsioni, il terzo a un coro di frati, ieratico, verticale. Bartòk ha scritto 6 Quartetti straordinari che, veramente, sono la continuazione di quelli di Beethoven. Ha attinto al patrimonio popolare, ma tradotto in suono, con fantasia. Il Sesto è un Quartetto formidabile, lunghissimo, in quattro movimenti progressivamente rallentati. Ogni movimento comincia con lo stesso tema “Mesto” che nasce dal silenzio, affidato ogni volta a un diverso strumento, e che diventa dominante, ossessivo, nel quarto movimento. Abbiamo suonato il Primo e il Sesto e avremmo voluto farli tutti, invece li abbiamo lasciati. E così accadde anche per Dvorak, che amavamo molto, perché cominciarono ad arrivare i Quartetti dell’Est, l’Ungherese, il Budapest, lo Smetana, il Janacek, che suonavano così bene gli autori del loro mondo. E ci sembrò naturale lasciarli a loro».

Caricatura del Quartetto Italiano

Quando voi siete nati, negli anni Venti, i giochi della dodecafonia erano già fatti. Avete dovuto conquistare come repertorio anche questa moderna rivoluzione di linguaggio.
«Ci siamo arrivati dopo, nel ’63. Paolo Borciani si è chiesto: “Ma Webern, non lo facciamo? Proviamo “. E abbiamo cominciato col primo dei Cinque pezzi op. 5 (1909). Quasi contemporaneamente il Quartetto Amadeus ha cominciato a studiare lo stesso pezzo e poi l’ha abbandonato. Noi invece, cocciuti, abbiamo studiato moltissimo e abbiamo eseguito tutta l’op. 5. Poi abbiamo provato le Sei Bagatelle op. 9 (1912), ancora più difficili, sintetiche, spogliate. Abbiamo proseguito con l’ultima opera, il Quartetto op. 28 (1938), seriale e classica, difficile da morire. Bellissima, se la si suona alla perfezione. A quel punto abbiamo recuperato anche le prime composizioni: Langsamer Satz (1905), del tempo in cui subiva ancora l’influsso di Brahms e di Wagner, e pur già si avverte qualcosa che va oltre; e un Primo Quartetto (1905) che comincia nel solco dei grandi, poi presenta una rottura, e va decisamente verso un’altra direzione. Eravamo conquistati, e abbiamo registrato in disco l’integrale. Webem era difficile, chiedeva suoni strani rispetto alla tecnica abituale, suoni che forse possono produrre altri strumenti; ma ad esempio, in uno dei Cinque Pezzi ci è parso in seguito che anticipasse il bip­ bip del primo astronauta che è andato sulla luna. Ci ha dato l’impressione di uno più avanti del proprio tempo. Di questi suoni che andavano più lontano del­ la nostra piccola terra. Si avviavano verso altri mondi. Però riesce a mantenere questi suoni entro un’unità lirica Scrive proprio per Quartetto».
Nati negli anni Venti, i musicisti del Quartetto Italiano non hanno vissuto il tempo della ricerca linguistica primo Novecento, a Vienna, a Budapest, quando alcuni Quartetti diventano direttamente partecipi, si fanno paladini di linguaggi arditi, come il Waldbauer-Kerpely (1910-1940) per i Quartetti di Bartòk (i primi quattro) e Kodaly. A Vienna il Quartetto Rosé (1882-1938, poi a Londra fino al ’45) porta in prima esecuzione Brahms (Quintetto n. 2, 1890) ma anche Schönberg (Verklärte Nacht, 1902, Sinfonia da camera op. 9, e – in serate che fecero scandalo –i Quartetti n. 1, 1907, e n. 2, 1908), Webern (Cinque Pezzi, 1910). Il Quartetto Kolisch (1822-1939) porta avanti la ricerca dodecafonica seriale di Schönberg (Quartetti n. 3, 1927, e n. 4, 1937), tiene a battesimo Berg (Suite lirica, 1927), Webem (Trio op. 20, 1927) e i due ultimi Quartetti di Bartók (1935 e 1941).

Quartetto Amadeus

Erano bambini al tempo di certe serate storiche che svegliarono le società concertistiche italiane, come quando nel 1924 Schönberg diresse Pierrot Lunaire alla Società del Quartetto di Milano, con la partecipazione del Quartetto Pro Arte di Bruxelles (1912-1947), un altro Quartetto che cavalcò la causa della musica contemporanea, con prime esecuzioni di Honegger (1892-1955, 3 Quartetti), Roussel (1869-1937, 1 Quartetto), Milhaud (1892-1974, 18 Quartetti), Martinu (1890-1959).
Ma quando, attorno agli anni Cinquanta, si riuniscono ai corsi estivi di Darmstadt i giovani musicisti d’avanguardia, il Quartetto Italiano non si sente attratto dalle sperimentazioni in atto dei coetanei Nono, Stockhausen, Boulez, Pousseur, Maderna, Berlo. Perché è appena formato e deve organizzarsi come Quartetto classico. Perché non crede che il Quartetto possa sopravvivere alle estreme conseguenze dell’estetica seriale, all’alea, ai suoni elettronici. Per loro Bart6k e Webern sono i due punti limite della lunga storia della forma Quartetto. «Per me, dopo si va verso la catastrofe. È sempre più difficile scrivere per Quartetto. È un suono così completo che non si adatta a stare insieme con niente. Hanno provato a metterci l’orchestra. L’ha fatto Bussotti in un Quartetto commissionato proprio da noi: I semi di Gramsci, del 1967. Ce n’è uno di Martinu: l’abbiamo suonato a Palermo, con l’Orchestra Rai e il direttore Kondrashin, però l’impressione è che il suono rimanga chiuso lì dentro. Invece avevo sentito una cosa stupenda: un Concerto Grosso di Händel trascritto da Schönberg per Quartetto e orchestra, con una cadenza lunghissima, alla maniera dodecafonica, per Quartetto. C’ero impazzita dietro, ho lottato con tutte le mie forze per farlo, ma non sono riuscita a convincere tutti».
Eppure, nel repertorio vastissimo del Quartetto Italiano c’è attenzione agli autori del proprio tempo. Hanno conquistato l’intensità lirica di Bloch (1880-1959, 5 Quartetti), amato Sostakovic (1906-1975, 15 Quartetti) che proprio nell’essenzialità del Quartetto esprime, in suoni spettrali o violenti, la propria meditazione dolorosa, la visione profetica del mondo.

Quartetto Alban Berg

Hanno suonato, e conosciuto personalmente a San Francisco, Milhaud (1892-1974) che scrive 18 Quartetti, e rispetta l’equilibrio classico della scrittura. Fra gli autori italiani: «Abbiamo fatto un Quartetto di Gian Francesco Malipiero (1882-1973, 8 Quartetti), il Settimo del 1950, in un tempo unico, scritto bene. Ne abbiamo suonato uno di Giorgio federico Ghedinbi (1892-1965, 2 Quartetti), scritto per noi ed eseguito a Venezia nel ’59 e poi in America: molto bello, piacevole da sentire, con sfoggio di tecnica nell’ultimo tempo. Nel ’58 avevamo chiesto un Quartetto a Goffredo Petrassi, da portare in tournée in America, ma non andò a buon fine per noi. Anche Luigi Nono doveva scrivere un Quartetto per noi, e sulle calli di Venezia mi aveva raccontato che voleva metterci il coro, la banda. Ma è morto prima di poterlo scrivere. Poi nel 1981 abbiamo finito in maniera piuttosto tragica (con la malattia di Farulli, e la nuova viola di Dino Asciolla dal 1979 all’81) e non abbiamo più messo in programma autori nuovi. Però, io penso, man mano che si è venuti avanti con lo sviluppo tecnologico, l’indagine del suono, lo sperimentalismo sugli strumenti, non si è più potuto scrivere niente di adatto all’insieme di adatto all’insieme del Quartetto. Pensare che Sciarrino possa scrivere per Quartetto per me non ha senso»
Per ragioni cronologiche e per convinzione il Quartetto Italiano incarna la purezza luminosa della forma Quartetto, l’equilibrio delle quattro voci disceso dalla chiarezza rinascimentale italiana. In altri contesti culturali, altri Quartetti hanno cercato la loro identità proprio nel mutare della forma, sul passo degli autori contemporanei. L’America che ha accolto i compositori e musicisti fuggiaschi dall’Est (dalla rivoluzione russa, dalla guerra, dal nazismo) protegge la musica contemporanea e i Quartetti d’avanguardia con mecenatismo, Fondazioni culturali e Biblioteche, organizzazione della musica nelle Università. Naturale che vi prosperino Quartetti come il Juilliard di New York (dal 1946, con molti avvicendamenti), che tiene a battesimo Quartetti di Elliot Carter, Duxon Cowell, Ezra Laderman, Seymour Shifrin. Oppure il Quartetto KLaSalle di Cincinnati (1946-1988), specialisti di Schönberg e seguaci, cui si devono prime esecuzioni di Quartetti di Ligeti, Lutaslawski, Nono (Fragmente-Stille, an Diotima), Penderechki, Pousseur.

Quartetto Arditti

Dalla loro scuola discende il Quartetto viennese Alban Berg (dal 1971), specializzato nel repertorio viennese sia classico che primo ‘900, con prime esecuzioni di Berio (Quartetto 1988), Wolfgang Rihm (Quartetto n. 4, 1983), Erich Urbanner, Gehrard Wimberger. Nel fervido ambiente musicale di Parigi prospera il Quartetto Parrenin (dl 1942), attivo nella diffusione radiofonica del repertorio per Quartetto, coinvolto nelle ricerche dell’IRCAM, con un primato di prime esecuzioni di Berio, Boulez, Copland, Halffter, Henze, Ligeti, Maderna, Méfano, Ohana, Xenakis, Dutilleux,. Dai colleges di Londra è nato il Qiartetto Ar5ditti (dal 1974), esemplare per rigore e rapporto stretto coi compositori del presente: da Brian Ferneyhough, Luis de Pablo, Sciarrino, Isang Yun a Berio, Cage, Maxwell Davies, Philip Glass, Sofia Gubaidulina, Mauricio Kagel, Giacinto Scelsi, Alfred Schnittke, Adriano Guarneri.
Il Quartetto, dunque, interessa i compositori. Anche se è irriverente guardare in blocco la giungla dei linguaggi contemporanei che gli esempi precedenti hanno richiamato. È rimasto come punto di riferimento, segnale d’un dibattito interno, dentro una varietà di atteggiamenti. Lo troviamo rappresentato dentro una concezione dominante di ensemble strumentale (Boulez), richiamato nell’ambito amplissimo di ricerca sul suono (dal gesto di Carter al rumore di Cage) e delle sonorità elettroniche. Evocato nella continuazione di tendenze etniche (Ligeti), nel culto della musica da camera attraverso una spogliazione casta (Kurtag). Proposto ai giovani Quartetti del Concorso internazionale Paolo Borciani (edizione 1987) come ponte fra classicità e futuro (Berio).