di Callisto Cosulich*

(Pubblicato sul n. 88  di Amadeus, marzo 1997)

Pubblicato nel 1997, questo Dizionarietto illustra in forma quanto mai sintetica i gusti,le manie,
i percorsi culturali, talvolta visionari che hanno condizionato i grandi registi (da Altman a Wood)
nella scelta delle musiche per le colonne sonore che spesso hanno contribuito a render popolari i film.

DEVILLE MICHEL
(Boulogne-sur-Seine, 13.4.1931)
«Scelgo la musica molto prima di quanto si faccia di solito. Ho visto dei musicisti che avevano solo pochi giorni per comporla, così che, quando la si sente, è troppo tardi per modificare. Oltretutto costerebbe troppo caro. Si finisce di conseguenza per scegliere il musicista, non la musica. Del resto, come spiegare a un musicista ciò che esattamente si vuole? Io non sono abbastanza musicista per spiegarlo. Perciò, a partire da Benjamin, uso musica preesistente».
E con la musica usata dal prolifico Deville si potrebbe riempire una discoteca: Haydn, Mozart e Rameau nel già citato Benjamin ou les mémoires d’un puceau (Benjamin ovvero le avventure di un adolescente, 1968); Rossini in L’ours et la poupé (L’orso e la bambola, 1969); Bellini in Raphael ou le débauché (Notti boccaccesche di un libertino e di una candida prostituta, 1970); Schubert in La femme en bleu (1972); Saint-Saens in Le mouton enragé (Il montone infuriato, 1972); Bizet in L’apprenti salaud (1976); di nuovo Schubert (la sonata «Arpeggione») in Le dossier 51 (Dossier 51, 1978); le Bagatelle di Beethoven e la Sapphische Ode di Brahms in Voyage en douce (Un dolce viaggio, 1979); Manuel de Falla in Eaux profondes (Acque profonde, 1981); nuovamente Rossini in Les capricieux, 1984); Brahms, Schubert e Granados in Péril en la demeure (Pericolo nella dimora, 1984); Dvorak e Janacek in Le paltoquet, (1986); ancora Beethoven in La lectrice (La lettrice, 1988); ancora Saint-Saëns in Nuit d’été en ville (Notte d’estate in città, 1990), per finire al momento con Sostakovic in Toutes peines confondues (1991). Difficile orientarsi nelle troppe varie predilezioni del regista, che a sua volta è un artista che sfugge a una precisa definizione: si dichiara estraneo al movimento della Nouvelle vague, coevo alla sua formazione, ma non è neppure assimilabile alla schiera dei probi professionisti della celebre qualité française. Il suo segno distintivo è l’eleganza, sia che si affronti il marivaudage, o il thriller, o la narrativa erotica del «Secolo dei lumi». E a questa eleganza contribuisce non poco il ricorso alla «musica classica», costante purché eviti le citazioni a piena orchestra, restando nei limiti dei complessi da camera e delle composizioni per solisti.

EASTWOOD CLINT
(San Francisco, 31.5.1930 )
«Gli americani hanno creato solo due forme d’espressione originale: il western e il jazz».
Sono le due forme che Clint Eastwood ha voluto trasferire nel suo cinema, creando almeno due film definibili, senza cadere nella retorica esclamativa, dei capolavori: il western Urnforgiven (Gli spietati, 1992) e Bird (1988), incentrato sulla tragica esistenza di Charlie Parker, musicista votato all’autodistruzione. Prima di essere un grande regista e un attore emblematico del modo di recitare americano, dove l’essere conta più del sembrare, Eastwood è stato un appassionato musicofilo. La musica è stato il suo sogno adolescenziale, maturato durante gli anni della Grande Depressione, mentre suo padre lo catechizzava sulla necessità di contare solo su se stesso: La Grande Depressione che ritroviamo in un altro suo film memorabile, il primo di argomento musicale, Honkytonk Man (1982), viaggio a Nashville durante gli anni Trenta di un cantante folk, sofferente ai polmoni, per esibirsi nell’annuale festival di musica country. Qualcuno potrebbe concludere da questi due esempi che Eastwood ha una visione tragica della musica. Red Stowall, il cantante folk di Honkytonk Man è autodistruttivo quanto Charlie Parker, con l’aggravante di essere un loser, un perdente nato. Eastwood ha confessato di non sapere perché ha scelto tale angolazione. Forse, aggiunge, varrebbe la pena di chiederlo a uno psichiatra. Forse, aggiungiamo noi, i suoi film per così dire musicali obbediscono a un inconscio rito esorcistico, motivato proprio dalla dura infanzia che il futuro cineasta trascorse sotto la psicosi della sopravvivenza: raccontano l’abisso che lui stesso avrebbe sfiorato, se avesse avuto paura del successo come Red Stowall, o vissuto a cento all’ora, come Charlie Parker.

FIGGIS MIKE
(Carlisle U.K., 28.2.1948)
«Fare film o comporre musica per me è la stessa cosa. Il cinema vero è come il jazz: vive d’improvvisazione. O, meglio, dovrebbe, poiché è difficile farlo capire ai committenti».
Infatti, Figgis ne sa qualcosa. Inglese, nato nel Kenia, si è affermato, prima come musicista, poi come cineasta. Ma non come regista di film musicali, anche se la musica acquista nei suoi film un’importanza decisiva. Nel bene e nel male. Nel male, quando gli tolgono di mano il musical score, che di solito è di sua competenza, per affidarlo a un altro. Ciò che è accaduto, per esempio in The Browning Version, remake realizzato nel ’94 della prima versione della commedia di Terence Rattigan, diretta da Anthony Asquith nel 1951 (che in Italia circolò col titolo Addio, Mister Harris): le sue improvvisazioni musicali per strumenti solisti furono sostituite da un commento a piena orchestra del pur valente Mark Isham. Cineasta maturato nell’orbita del noir, Figgis, dopo un promettente avvio con Stormy Monday (1988) e Internal Affairs (Affari sporchi, 1989), è incappato in un incidente di percorso con Liebestraum (1991), per poi rischiare di finire nella routine del semplice mestiere (Mr. Jones e il già citato The Browning Version). In realtà si trattava di due film di cui non aveva potuto disporre della necessaria libertà creativa. Cosa che, invece, gli è puntualmente riuscita con Leaving Las Vegas (Via da Las Vegas), forse il maggiore successo off beat che il cinema statunitense ha potuto registrare nel 1995. Leaving Las Vegas rientra nella grande tradizione degli alcoholic movies, cui appartengono film quali The Lost Weekend (Giorni perduti, 1945) di Billy Wilder e Days of Wineand Roses (I giorni del vino e delle rose, 1962) di Blake Edwards. Gli alcoholic movies sono una manna per i protagonisti, si chiamino essi Ray Milland, o Jack Lemmon, o – nella fattispecie – Nicolas Cage. E lo sono anche per i musicisti: Miklos Rozsa sfiorò l’Oscar con le agghiaccianti note che accompagnano il delirium tremens di Ray Milland in The Lost Weekend – e l’Oscar lo ottenne invece con il musical score del coevo Spellbound (lo ti salverò) di Alfred Hitchcock -; Henry Mancini, dal suo canto, vide premiata con la statuetta la canzone che compose per Days of Wine and Roses. L’Academy ha avuto maggiore riguardo per Figgis regista che non per Figgis musicista (o trombettista) in Leaving Las Vegas. È difficile scindere le due anime dell’autore, per il quale Las Vegas stessa ha qualcosa di astratto (e perciò musicale), mentre la sua colonna sonora ospita una congerie di motivi preesistenti, fra i quali spicca l’Herry Lime Theme di Anton Karas, composto per The Third Man (Il terzo uomo, 1949) di Carol Reed.

FORMAN MILOS
(Caslao, Boemia Centrale, 18.2.1932 – Danbury, Connecticut,  13.4.2018)
«La musica può essere considerata la filosofia del suono di un film, in misura molto maggiore del dialogo più profondo, che non rimarrà altro che un mezzo per trasmettere informazioni sul ”plot” e sui caratteri».
È la ragione per cui nei film di Forman, l’impiego della musica rifugge da ogni riferimento d’ordine figurativo. Anche la qualità della musica dev’essere subordinata alla situazione, al carattere dei personaggi. Convinto che di tutte le arti la musica sia la più astratta e impenetrabile, Forman rinuncia a priori di «fare dell’arte» con la colonna musicale. Durante l’intero periodo cecoslovacco, sarebbe vano cercare una nota di musica classica nei suoi film, sebbene essi siano ricchissimi di musica e la tradizione classica di quel paese abbondi, come è tradizione dei popoli slavi, di motivi popolari. Paradossalmente, la comparsa di un «classico» boemo si verificherà in un momento del suo primo Film hollywoodiano, lo splendido Taking 0ff, (1971), con le note dello Stabat Mater di Dvoràk, quasi per creare una sorta di parentela tra il regista e il musicista, la cui Sinfonia «dal Nuovo Mondo» è stata interpretata come una lettera inviata dai suoi connazionali dall’America. E non a caso Taking Off è stato definito un film ancor più cecoslovacco di quelli che Forman aveva realizzato in patria. In realtà, la musica è talmente fusa nel materiale costitutivo dei film di Forman, da rendere questi ultimi assolutamente non incasellabili nei vari generi, anche se apparentemente dichiarano la loro appartenenza all’uno o all’altro. Ciò è evidente soprattutto nei film che in un modo o nell’altro si richiamano alla musica: l’opera prima Konkurs (1963), che non è, come sembrerebbe a prima vista, un film-verità sull’audizione di gruppi e solisti in un cabaret di Praga; il musical Hair (1979), la cui origine vien sempre più dimenticata nel corso della vicenda, anche se la musica non cessa di essere presente; Amadeus (1984) che è un film incentrato sul mistero del genio e parte dal principio, già espresso da Haydn e da Händel del resto, che nella musica tutto è apprendibile, l’armonia, l’orchestrazione, il ritmo, fuorché la melodia. Mozart, al limite, potrebbe essere una rock star o, addirittura, coltivare un’altra disciplina.

GODARD JEAN-LUC
(Parigi, 3.12.1930 – Rolle, Svizzera, 13.9.202)
«La musica, per me, è un elemento vivente, allo stesso titolo di una strada o di un’automobile. È una cosa che de­ scrivo, una cosa preesistente al film».
È difficile raccapezzarsi nella densissima filmografia di Godard, in cui troviamo un uso molteplice, a volte contraddittorio della musica, svariante fra musica alta e musica bassa, antica e moderna, classica e popolare, un uso a volte parco, altre volte intensivo. Dobbiamo anche tener conto che Godard, prima di diventare cineasta, è stato un critico cinematografico e che considera la sua definitiva attività un prolungamento con altri mezzi di quella precedente. E in ogni caso siamo sempre di fronte a un cervello che lavora a pieno regime e che duriamo fatica a controllare e a capire. In definitiva, tra le numerose sue esternazioni a proposito della musica e del suo impiego nel cinema, abbiamo scelto la succitata, in quanto essa sembra riassumere in un unicum di poche parole la sua filosofia di cineasta. Per Godard la musica da film non dovrebbe avere un ruolo importante: dovrebbe rimanere «musica da film». Se la sua importanza aumentasse, allora il cineasta dovrebbe ritirarsi in buon ordine, lasciando al musicista le redini della regia (così come Sacha Guitry e Marcel Pagnol non domandavano ad altri la traduzione sullo schermo delle loro commedie). «Non andrei mai da Stravinsky per chiedergli una musica d ‘accompagnamento – ha anche detto Godard – io ho bisogno invece di un cattivo Stravinsky, perché, se prendessi quello buono, tutto ciò che ho girato non servirebbe più a nulla». Eppure nel cinema di Godard si nota una progressiva tendenza verso l’impiego della musica classica. Come uscire dalla contraddizione, quando si adottano i sublimi, ultimi quartetti di Beethoven, usati a guisa di musical score in Prénom Carmen (1983)? La soluzione di Godard è quella di portare il complesso che li suona dinanzi all’obiettivo, creando una sorta di serialità tra musica e immagine, che ricorda quella del cinema muto, dove le parole divenivano didascalie. Una soluzione materialista che in un certo senso dimostra quanta ragione avesse Mario Soldati quando, recensendo Il disprezzo (1963) definì Godard il primo regista «atonale» della storia del cinema.

GREENAWAY PETER
(Newport, 5.4.1942)
«Esiste una prima maniera d’impiego della musica al cinema: per creare un’atmosfera, per amplificare un sentimento. È il suo impiego abituale. Ma non mi sembra sufficiente. La musica deve fare di più … organizzare l’informazione… divenire    una delle forme del film… Se il film fa nascere la musica, è vero anche l’inverso: ho appena scoperto dei temi di Händel che per me hanno un grande potere evocativo. Certamente me ne servirò…».
Non lo ha fatto in The Baby of Macon (1993), il secondo film in cui non si è avvalso della collaborazione di Michael Nyman, ricorrendo invece a Monteverdi, Frescobaldi, Corelli, Thomas Tallis, Matthew Locke, John Blow e altri compositori britannici del Cinquecento e del Seicento. D’altra parte Nyman, suo amico fin dall’adolescenza, non se ne deve dolere più di tanto. Se è vero che la sua notorietà dipende più dalla musica composta per Greenaway, che non dall’opera The Man Who Mistook His Wife For a Hat (L’uomo che prese sua moglie per un cappello), è anche vero che, per sua stessa ammissione, rimase spesso e volentieri frustrato dall’uso che ne fece l’amico, tanto vero che attualmente si trova molto meglio a collaborare con la regista neo­zelandese Jane Campion, per la quale ha composto le colonne sonore di The piano (Lezioni di piano, 1994) e di Portrait of a Lady (Ritratto di signora, 1996). La collaborazione fra Peter e Michael si fonda sul dialogo, non sull’esame concreto delle immagini montate. Greenaway, dopo avergli spiegato l’essenza del film, lo invita a scriverne liberamente la musica, senza fargli vedere un metro di pellicola. Sarà poi il regista a scegliere ciò che gli serve della partitura in base ai rigidi, matematici criteri coi quali costruisce i suoi film. Anche se Greenaway non sa spiegare come e perché un certo accordo, un certo ritmo provochi quel tale movimento della macchina da presa, la scelta di un determinato colore. Alla fin fine l’ultima parola, a suo avviso, spetta all’intuizione.

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*Callisto Cosulich (Trieste, 7 luglio 1922 – Roma, 6 giugno 2015)
È stato uno dei più attenti osservatori del cinema mondiale. Nel corso della sua vita di critico cinematografico (come dimostra la sua pluriennale collaborazione alla rivista Amadeus) ha posto particolare attenzione alle colonne sonore dei film.