di Callisto Cosulich

(Pubblicato sul n. 8 di Amadeus, luglio 1990)

L’unico film su Berlioz e sulla sua musica fece arrabbiare Joseph Goebbels

«La Symphonie Fantastique» fu girato e presentata a Parigi
durante
l’occupazione nazista.
La pellicola dirigeva l’attenzione del pubblico non sulla celebre composizione
ma sulla vita sentimentale del compositore,
senza negare una sottile vena patriottica.

«Il fatto che i nostri uffici parigini insegnino ai francesi come rappresentare il nazionalismo nei loro film mi fa andare in bestia. Eppure le mie direttive erano chiare: i francesi debbono produrre solo film leggeri, vuoti e, se possibile, cretini. E penso che se ne dovrebbero accontentare».
Questa nota risale al 15 maggio del 1942 e appartiene al Diario di Joseph Goebbels. Essa si riferisce al film La Symphonie Fantastique girato e presentato a Parigi durante l’occupazione nazista, vietato in Germania per le suddette ragioni sebbene il ministro della propaganda del Terzo Reich gli riconoscesse «qualità eccezionali»; anzi, proprio per questo. Parrà strano, ma La Symphonie Fantastique è stato l’unico film che mai si sia fatto utilizzando Hector Berlioz e la sua musica. C’è, è vero, La damnation du docteur Faust. Ma il titolo non tragga in inganno. Si tratta di un film che Georges Méliès realizzò nel 1904, ispirandosi al Faust di Gounod e usando brani di quell’opera ridotta al solo pianoforte: il pianoforte tradizionalmente usato per accompagnare la proiezione dei film muti. Che così fosse non ci sono dubbi, poiché la partitura è stata conservata e porta delle indicazioni precise per ogni tableau del film al fine di consentire al pianista di seguire meglio l’azione. Semmai a Berlioz si riallaccia un film che Méliès girò l’anno precedente: Faust aux enfers. Ma nulla sappiamo circa la partitura che l’accompagnava.

Troppo complesso per il cinema
Possiamo perciò affermare che, tra Berlioz e il cinema i rapporti sono stati minimi: proprio il contrario di quanto è accaduto con altri musicisti del romanticismo e con Caikovskij, che, come Berlioz, ha praticato con grande assiduità la «musica a soggetto» o «a programma», come la si suol chiamare. In teoria ciò può essere spiegato dal fatto che tale musica già si prefigura come musica per film, quindi il suo collage col cinema risulta in pratica esteticamente molto discutibile. Ma produttori e registi in genere non vanno tanto per il sottile: se utilizzano Caikovskij, e non Berlioz, lo fanno perché Ciaikovskij è meno complesso del musicista francese, perché la sua musica si adatta meglio all’orecchio non esercitato del cinespettatore medio.

Lise Delamare (nel ruolo di Harriet Smithson) e Jean-Louis Barrault (in quello di Hector Berlioz).

Dunque l’unico film sul quale possiamo soffermarci è La Symphonie Fantastique, decisamente sopravvalutato da Goebbels, sebbene lo abbia fatto andare in bestia. Gli storici del cinema francese lo hanno definito semplicemente cocardier («patriottico») ma proprio per questo degno di attenzione, soprattutto tenendo conto del particolare momento in cui è stato fatto. Non è un film sulla più eseguita delle composizioni di Berlioz, bensì sulla vita del musicista: sulle sue vicende artistiche e amorose. Naturalmente la Sinfonia Fantastica offre un ottimo e dovizioso materiale sulla vita del musicista, per via del suo contenuto autobiografico, espresso fin nel sottotitolo Episodes de la vie d’un artiste, episodi legati all’amore delirante che Berlioz manifestò per Harriett Smithson, la «Fair Ophelia» come egli la definì nelle sue Memorie, l’attrice irlandese della compagnia di Kemble, che 1’11 settembre del 1827 al teatro Odéon di Parigi aveva entusiasmato i principali esponenti del romanticismo, legati all’ambiente di Jeune France, presentando l’Amleto in inglese. Ma la vicenda prosegue sino alla morte della seconda moglie e oltre, per concludersi sulle immagini del musicista ormai vecchio e onorato che insieme al figlio Louis, avuto dalla Smithson, assiste a una esecuzione del suo Requiem nella Chappelle des Invalides. Si conclude cioè in gloria, evitando i malinconici anni della fine contrassegnati dalla morte del figlio colpito dalla febbre gialla a L’Avana, e dalla sua lunga e letargica agonia, conclusasi 1’8 marzo 1869 a Parigi.

Amore e patria
Il tono celebrativo obbliga il film prendersi parecchie libertà con la vita di Berlioz: si tace sul suo amore per la pianista Camille Moke, «le gracieux Ariel» delle sue Memorie, giunto fino allo stadio del fidanzamento, ma bruscamente finito a causa del «tradimento» di lei, che, profittando dell’assenza del suo promesso sposo, trasferitosi come borsista a Villa Medici, dopo avere vinto il Prix de Rome con la cantata La dernière nuit de Sardanàpale, si marita con il signor Pleyel ricco fabbricante di pianoforti, suscitando nell’abbandonato propositi omicidi; si idealizza la figura della seconda moglie, la mediocre cantante franco-spagnola Maria Recio, nome d’arte di Marie-Geneviève Martin, descritta come una donna disposta a sacrificarsi interamente per lui, che nulla chiedeva in cambio del suo amore, mentre è noto che lo metteva in croce perché egli non riusciva a imporla negli ambienti musicali di Parigi e perché molto gelosa, non meno della prima moglie, la Smithson della Sinfonia Fantastica, che il film, invece, demonizza oltre misura dipingendola come un’autentica strega.

Un’altra scena del film.

E in questo infierire contro la Smithson si può ravvisare un motivo che ogni tanto ricorreva nel cinema francese durante l’occupazione: – il risentimento verso gli inglesi che avevano distrutto mezza  flotta dell’ex alleato nel timore del resto fondatissimo che essa finisse nelle mani delle potenze dell’Asse. Ma tale risentimento era espresso così timidamente, era così marginale, da non poter confortare Goebbels, al quale non era sfuggito il motivo politico centrale, seppur sotterraneo, del film: l’iconografia patriottica sostanziata qui dalla «immortalità» dell’arte francese, personificata non solo da Berlioz ma da tutti i celebri contemporanei che gli fanno corona. A un certo punto del film Berlioz dopo avere insultato un direttore d’orchestra pusillanime viene introdotto nel gruppo del Jeune France. Si siede e dice: «Signori, se ho ben compreso voi siete tutti…» – «dei giganti», lo interrompe Victor Hugo, «del resto, non accettiamo tra noi che dei giganti». Segue una panoramica sul gruppo che torna su Hugo, che esclama: «Tutti insieme polverizziamo i pregiudizi che sussistono sull’arte!».

Un uomo senza passato
La Symphonie Fantastique, diretto da Christian-Jaque (pseudonimo di Christian Maudet) e intrepretato da Jean-Louis Barrault, che proseguiva così la «galleria» di grands hommes iniziata nel 1937, impersonando Napoleone in Le perle della corona di Sacha Guitry, non è stato l’unico film «patriottico» girato durante l’occupazione: «eroi dell’aria», artisti, tutti in un modo o nell’altro rappresentanti del genio della France eternelle. Il fatto singolare, quello che probabilmente fece scattare Goebbels, risiedeva nella grande «C», iscritta in un cerchio che appariva in apertura dei titoli di testa: la sigla della Continental Films, società francese a capitali tedeschi gestita da un tedesco, Alfred Greven, che gli storici del periodo descrivono «Senza età, senza volto, senza passato»; un individuo che nel dopoguerra riuscì a rendersi introvabile distruggendo tutte le piste che portavano a lui, come Mister Arkadin, il misterioso personaggio immaginato da Orson Welles in Rapporto confidenziale. Forse era un antinazista, se è vero quanto hanno riferito i francesi che lo frequentavano, cioè che soleva posare il cappello sul busto di Hitler che troneggiava nel suo studio. Per la cronaca, La Symphonie Fantastique fu presentato in Italia nel dopoguerra col titolo Delirio d’amore: quando il mercato italiano celebrava l’agognato ritorno sui nostri schermi dei film di Hollywood. Dubitiamo che qualcuno l’abbia visto.