di William Weaver

(Pubblicato sul n. 9 di Amadeus, agosto 1990)

Ancora oggi il musicista russo è vittima dei biografi e degli interpreti.
L’arte e la complessa vita interiore del compositore hanno spesso
attirato esegeti superficiali ed esteriori. I loro interventi hanno reso
indispensabile
una revisione dei luoghi comuni sulla vita
e sulla musica di Ciaikovskij.

            L’Italia, si sa, ama le ricorrenze. Ogni stagione musicale è costellata di celebrazioni dell’anniversario di questo e del bicentenario di quello. Quest’anno si festeggia, per esempio, e giustamente, il centesimo anniversario della sensazionale prima esecuzione della Cavalleria rusticana di Mascagni, non solo con nuovi allestimenti, ma anche con conferenze, convegni, pubblicazioni. Per l’anno prossimo (bicentenario di Mozart) si preparano grandi cose, e il ’92, bicentenario di Rossini, sarà senz’altro ricco di festeggiamenti, anche se il cigno di Pesaro deve competere con Piero della Francesca e Cristoforo Colombo.

Un ritratto di Ciaikovskij
a vent’anni.

Ma il 1990 segna anche i centocinquant’anni dalla nascita di uno dei compositori più popolari e più amati: Ciaikovskij. E non mi pare che abbia suscitato grandi reazioni, forse perché Ciaikovskij è talmente una parte essenziale della nostra vita musicale che non sentiamo il bisogno di tributargli omaggi particolari. L’unico evento speciale che ho notato è stato la pubblicazione di una eccellente guida fatta da Luigi Bellingardi per la collana Invito all’ascolto della Mursia. In questo volume la produzione musicale ciaikovskiana viene esaminata con accuratezza e intelligenza, e tutto è scritto in uno stile limpido e scorrevole, con utili appendici, bibliografia, discografia essenziale, catalogo delle composizioni.
Questa guida inizia con una breve cronaca della vita di Ciaikovskij e in essa Bellingardi fa sue le teorie di un’anziana scrittrice russa (da qualche anno emigrata negli USA), Alexandra Orlova, secondo la quale Ciaikovskij non morì di colera, come si annunciò allora (e come si è sempre scritto dopo), ma si suicidò, avvelenandosi per ordine di un giurì d’onore dopo la minaccia di uno scandalo omosessuale. Questa versione è basata essenzialmente su una conversazione (del 1966) della Orlova con un signore che disse di aver sentita storia nel 1913 da una signora che, a sua volta, l’aveva sentita da suo marito prima che questi morisse nel 1902. Come Bellingardi, anche l’autorevole biografo inglese David Brown ha sposato questa teoria e l’ha incorporata nella voce «Ciaikovskij» del New Grave Dictionary. Ma intanto diversi studiosi (Nina Berberova di Princeton, Malcolm Brown della Indiana University e Sion Karlinsky della Università della California a Berkeley) hanno sollevato serie obiezioni alla teoria della Orlova e, nella primavera dell’88, in un articolo sulla rivista specializzata 19th Century Music, Alexander Poznansky, chiamando in aiuto medici, esperti di veleni e storici, l’ha praticamente demolita.

Rivedere i luoghi comuni
            Cosa c’entra tutto questo con la musica di Ciaikovskij? Sarebbe bello poter dire: nulla. Ma, purtroppo, come succede con pochi altri compositori, chi scrive di Ciaikovskij, anche discutendo soltanto della musica, adopera sempre parole come «tormentato», «angosciato», «morboso», «ipersensibile». Brown, nella stessa voce del Grave, parla di un «bisogno quasi isterico di trovare uno sbocco personale emotivo» e dice, inoltre, che nei lavori dell’ultimo periodo Ciaikovskij cercasse di sfogare «impulsi emotivi che non potevano trovare espressione in un rapporto fisico completo». Ma si ha ragione di credere invece che Ciaikovskij ebbe parecchi rapporti fisici completi, sebbene omosessuali e proprio gli ultimi anni gli furono resi particolarmente felici dalla devozione del suo giovane nipote Vladimir Davidov («Bob»), dedicatario della Sesta Sinfonia.

Alexandra, la sorella del compositore, con il marito.

Più che della sua sessualità Ciaikovskij è stato vittima dei suoi biografi (prima quelli mendaci o evasivi, come il fratello Modest, e poi quelli pseudo-psicoanalitici) e, in un altro senso, dei suoi interpreti. Se uno ascolta tre o quattro esecuzioni diverse di una sinfonia – diciamo la Quinta per esempio – troverà, nelle diverse interpretazioni, diversi livelli di emotività, e magari potrà facilmente anche incontrare momenti angosciati, tormentati, morbosi, ecc. ecc., ma saranno chiaramente dovuti più alla direzione che alla partitura. In un recente e importante articolo sul Financial Times di Londra, il critico Roland John Wiley ha espresso la necessità di rivedere i luoghi comuni, le «idées reçues» che riguardano Ciaikovskij, sia l’uomo che la sua musica. E per questo sarebbe ora di eliminare certe tradizioni, o almeno mettere accanto ad esse un nuovo atteggiamento in cui «le emozioni legittime possono essere espresse senza glosse interpretative». Lo scrittore nota poi la coesistenza del Bach di Leonhardt e quello di Gould, del Beethoven di Schnabel e quello di Sviatoslav Richter (e avrebbe potuto dire anche quello di Pollini).

Trascinante ma complesso
            È strano come un musicista con una vita interiore così ricca e complessa, come Ciaikovskij, attiri spesso interpreti superficiali, esteriori, dalla lacrima facile, amanti del tuono, della velocità. L’effetto immediato può essere trascinante, e l’ascoltatore farà bene a la­ sciarsi trascinare. Ma è un po’ come gustare il fumo invece dell’arrosto. È strano, anche, che persino un critico sensibile e informato come Brown possa esprimere alcuni giudizi categorici e un po’ stantii. Parlare male della Grande Sonata per pianoforte è sempre stato una specie di obbligo, e su questa linea Brown segue i suoi predecessori; ma il vecchio disco di Richter dovrebbe far riflettere, almeno l’ascoltatore che ama e conosce Ciaikovskij.
Noialtri, non esperti, sappiamo di conoscere Ciaikovskij imperfettamente. Certo, le grandi sinfonie le sentiamo spesso e a teatro, di tanto in tanto, riusciamo a vedere Eugenio Onieghin e forse La dama di picche, più spesso vediamo i tre grandi balletti. Ma la musica da camera è difficile da raggiungere, e diverse sue opere liriche non vengono rappresentate (quarant’anni fa una produzione di Mazepa al Maggio Musicale fu una rivelazione, ma l’opera, in seguito, è rimasta praticamente lettera morta in Italia).

Una nuova edizione critica
            Come ha suggerito Wiley nell’articolo sopracitato, è tempo che si faccia una nuova edizione critica della musica e degli scritti di Ciaikovskij. Nel giugno del 1888, proprio mentre componeva la Quinta Sinfonia, il musicista scrisse nel suo diario «Quando leggo le lettere di persone famose, pubblicate postume, mi turba un vago senso di falsità, di mendacità». Le lettere di Ciaikovskij, come sono state pubblicate in varie edizioni, sono davvero false e mendaci, perché i curatori delle pubblicazioni – cominciando da Modest Ciaikovskij, primo biografo del fratello – fecero numerosi e dannosi tagli, per ragioni private e anche per ragioni politiche. Come nelle edizioni sovietiche delle partiture della Ouverture 1812 e della Marcia slava, le citazioni dell’Inno imperiale vengono regolarmente eliminate.
Il necessario nuovo atteggiamento verso Ciaikovskij, potrebbe rientrare, come dice Wiley, nelle ormai familiari parole russe, glasnost e perestroika. «Da tempo ci si aspetta una apertura nuova verso la vita di Ciaikovskij e la sua biografia». Lasciamo perdere i peccati del passato «Senza recriminazioni e senza amnistie». E bisogna dimenticare anche i peccati della critica.

Un momento della “Dama di picche2 andata in scena nel giugno 1990 alla Scala.

Nel perspicace ultimo capitolo del suo troppo breve libro, Bellingardi riporta una recensione di Giorgio Vigolo, scritta proprio in occasione di quel Mazepa fiorentino: «Vi sono degli artisti ai quali l’intuizione elementare, direi quasi naturale, del pubblico concede il suo cuore con una passione profonda, mentre quella sovrastruttura culturale e intellettuale che, a volte, è la critica si mette contro di esso in posizione di difesa, di ostilità, chiude ermeticamente gli accessi alla ricezione sensibile nonché all’ammirazione e lascia così passare tanto tempo prima di annettersi e ratificare il giudizio popolare. Il caso di Ciaikovskij è, da questo punto di vista, uno dei più interessanti. L’adorazione spontanea e ingenua del pubblico gli fu fatta pagare cara».

Snobismo musicale
            Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, ricordo che, alla mia università, gli studenti che si consideravano l’élite intellettuale (non ero uno di loro, mi affretto a confessare) dicevano di amare l’opera lirica ma ammettevano solo le opere di Monteverdi, Purcell oltre al Pelléas et Mélisande, al Boris Godunov e, forse, a qualche lavoro di Wagner (Meistersinger, Parsifal). Verdi era innominabile, e andare a una rappresentazione di Madama Butterfly era una pubblica ammissione di volgarità. Anche nel campo sinfonico mentre Mozart e Beethoven andavano bene (Haydn andava ancora meglio), già Brahms era tabù, e di Ciaikovskij era meglio non parlare.
Quei tempi, quegli snobismi fortunatamente sono morti di morte naturale, forse solo di vecchiaia. Ne sono nati altri, ma ora siamo liberi di amare Ciaikovskij e, volendo, anche di studiarlo, di rivederlo, soprattutto di riascoltarlo.