di Enzo Fabiani
(Pubblicato sul n. 18 di Amadeus, maggio 1991)
La geniale collaborazione teatrale tra Stravinsky e Picasso.
Il musicista russo possedeva uno spiccato interesse per le arti figurative.
A Roma conobbe Pablo Picasso, ne nacque una folgorante intesa teatrale,
esempio ideale di un incontro tra musica e pittura che in quel periodo
si realizzò nel lavoro di altri grandi artisti.
Alexandre Benois, che fu una delle anime dei Balletti russi, e non soltanto come scenografo e costumista (collaborò infatti a vari soggetti e libretti), scrive nelle sue memorie: «Uno dei legami fra noi, oltre alla musica, era il culto di Stravinsky per il teatro e il suo interesse per le arti plastiche. Contrariamente alla maggior parte dei musicisti, che sono in genere completamente indifferenti a tutto ciò che non rientra nella loro sfera, Stravinsky era profondamente interessato alla pittura, all’architettura, alla scultura. Benché non avesse una vera preparazione in questo campo, discutere con lui era sempre prezioso, poiché “reagiva” a tutto ciò che costituiva la nostra ragione di vita. A quei tempi era un “allievo” incantevole e colmo di buona volontà. Aveva sete di chiarezza e aspirava senza tregua ad allargare le sue conoscenze. Ma ciò che era più prezioso in lui era l ‘assenza di ogni dogmatismo».
Stravinsky aveva allora 28 anni, ma, come diceva Diaghilev: «Tenetelo bene a mente. È un uomo alla vigilia della gloria», e infatti quelle riunioni, in cui il giovane musicista si dimostrava «allievo incantevole», si tenevano durante le prove de L’uccello di fuoco, la cui prima trionfale avvenne all’Opéra di Parigi il 25 giugno del 1910, con la coreografia di Michel Fokine (che era anche il principe Ivan), le scene e i costumi di Golovine e Bakst, e la partecipazione di Tamara Karsavina (L’uccello di fuoco) ed Enrico Cecchetti (Katschei). C’era insomma aria di festa, tanto è vero che i suddetti maestri, compreso Nijinskij, che però non danzava in quel balletto, passavano le serate in allegria: «Terminavamo la giornata con un’abbondante cena innaffiata da un buon vino di Bordeaux», ricorderà Stravinsky.
Ora anche se, secondo gli esperti, questa prima opera personale di Stravinsky più che un fatto decisamente rivoluzionario va considerata un «punto d’arrivo», va vista insomma «a livello d’inventario», è certo che già in essa qualcosa di straordinariamente personale c’è, ad esempio nella Danza infernale di Katschei, che esploderà poi nella Sagra della primavera (vedi André Boucourechliev, Stravinsky, ed. Rusconi); come ci sarà poi in Petrouschka, che fu rappresentato la prima volta il 13 giugno 1911 al Théatre du Chatelet di Parigi con scene e costumi di Benois, il quale aveva collaborato con Stravinsky al soggetto. Ora per quanto riguarda le scene e i costumi di questo balletto (che era nato come composizione per pianoforte e orchestra e fu adattato alla scena su insistenza di Diaghilev) va detto che la linea è ancora tradizionale: a quanto risulta, ad esempio, dal bozzetto per la prima e la quarta scena, e questo è comprensibile dato il soggetto. Ne consegue che non è avvenuto ancora l’incontro e diremmo meglio il «matrimonio» tra musica e pittura (intesa come creazione di scene e costumi), limitandosi questa a raffigurare l’ambiente in modo adatto, parallelo, ma non profondamente determinante e coinvolgente: anche se molti furono in quegli anni i meriti dei vari scenografi e costumisti, come l’eccellente Benois.
L’incontro, lo scossone avvenne, come era fatale, grazie all’arrivo nel mondo del balletto di Picasso. Il quale non si era mai interessato né della musica né dei Balletti russi (che pure erano stati presentati a Parigi nel 1911 e 1913), ma aveva come amico quel1’estroso e vibratile poeta che era Jean Cocteau, il quale si vanterà, poi, e giustamente: «Ce l’ho trascinato io. I suoi amici si rifiutavano di credere che m’avrebbe seguito».
Seguito fino a Roma, dove si doveva allestire Parade, idea di Cocteau, musica di Erik Satie, in cui un cinese, un acrobata, una bambina americana, un manager francese e uno americano e altri figuranti interpretano una sorta di fiera pubblicitaria, invitando il pubblico a entrare, a comprare. Picasso ascoltò e subito «trovò» (si ricordi la sua famosa affermazione «Io non cerco, trovo»). Creò per i manager delle costruzioni cubiste, per il giocoliere cinese un costume rosso, giallo, nero e bianco con motivi che richiamavano il Sol Levante, mentre gli arlecchini, la cavallerizza e i chitarristi avevano vesti scure (questi figuravano sul sipario, che non fu usato). Siamo insomma davanti a una visione, e un’interpretazione d’avanguardia, così come lo è anche la musica, che termina con un pezzo di jazz. Naturalmente (la prima avvenne a Parigi il 18 maggio 1917) gli avanguardisti, con a capo Apollinaire, ne furono entusiasti; non così il pubblico e i critici, che videro, quasi tutti, in quel balletto una sfida al buon gusto e al buon senso. Fatto sta che Parade dette l’avvio a un nuovo modo di concepire la scenografia e i costumi, grazie a Picasso e grazie anche a Diaghilev, il quale capì al volo l’importanza di quella svolta e da quell’anno non chiese più la collaborazione a Benois, Bakst e altri maestri, considerandoli ormai autori di «Una lanterna magica per bambini adulti».
Da allora, insomma, l’arte moderna entrò in teatro: ed ecco infatti le scene e i costumi di André Derain per La boutique fantasque su musiche di Rossini (1919), di Picasso per Il cappello a tre punte su musiche di Manuel de Falla (1919), di Henry Matisse per Le chant du rossignol su musica di Stravinsky(1920) e nello stesso anno ancora di Picasso per Pulcinella; per continuare con Natalia Goncharova che eseguì scene e costumi per Les noces di Stravinskye con Fernand Léger per La creation du monde di Darius Milhaud, e così via con Georges Braque, che nel 1924 ideò scene e costumi per Les Fâcheux musicato da Georges Auric e Salade di Darius Milhaud. Ma non possiamo dimenticare che, sempre nel 1924, Giorgio De Chirico ideò scene e costumi per La giara, soggetto di Luigi Pirandello e musiche di Alfredo Casella.
Sensibilità differenti
In questo elenco di «accoppiate» memorabili, grazie alle quali il balletto diventava lo specchio dell’arte di quegli anni innovatori, e viceversa, potremmo continuare a lungo con i nomi di pittori quali Max Ernst, Joan Miro, ancora Alexandre Benois (evidentemente sempre attivissimo), ancora Giorgio De Chirico e Georges Rouault (nel 1933, per Le fils prodigue, da Prokofiev), ma rischieremmo di perdere di vista i protagonisti del nostro argomento, ossia Stravinsky e Picasso: i quali essendo dei geni, o comunque «più geni» degli altri, cioè autentici innovatori del linguaggio musicale e pittorico, riuscirono a «unificarsi» in una sorta di «passo a due» di livello spesso altissimo, o comunque di perfetta funzionalità.
Con questo non si vuol dire che la raffigurazione picassiana diventava stravinskiana (ammesso che la musica, cioè il discorso musicale, possa essere raffigurato e la pittura musicata), ma è certo che le scene e i costumi di Picasso riuscivano a dare alla danza, e diremmo al suono stesso, un qualcosa che li completava visivamente; le dava cioè un sapore, un’intelligibilità, anche, che altrimenti non avrebbe avuto. Questo anche se si trattava di sensibilità, di fantasie (l’uno russo, l’altro spagnolo) fondamentalmente diverse. Era questione, insomma, di intensità poetica, di profondità di un discorso che si faceva comune e quasi univoco grazie alla luce autentica dei due intelletti.
L’incontro «romano»
Arduo, comunque, sarebbe il vedere e il capire dove Picasso fu stravinskiano con maggiore intensità, e se e quando il musicista russo subì il fascino dello scatenato spadaccino di Malaga (ricordiamoci che in quegli anni Picasso era capace di dipingere sei-sette quadri e di eseguire decine e decine di disegni in un giorno); fatto sta che tra i due ci fu sempre un legame profondo, anche se a volte ammiccante, e col passare del tempo silenzioso, e alla fine muto.
I due si conobbero a Roma, quando Picasso stava lavorando per Parade e Stravinsky doveva dirigere al Costanzi un concerto benefico comprendente L ‘uccello di fuoco e Feu d’artifice con le scenografie futuriste di Giacomo Balla. Ebbene, «I due simpatizzarono d’istinto. Entrambi antiromantici, costruttori di forme, esibitori, sono fatti per comprendersi. La realtà è il loro ambito, una realtà reinventata a partire dalle sue proprie linee di forza e dai suoi materiali concreti, sonori o pittorici: una realtà che è nello stesso tempo fonte della loro ispirazione e oggetto delle loro speculazioni».
Simpatia e intesa d’istinto, dunque. Ma non sempre le cose andarono lisce, come si suol dire. Ad esempio per Pulcinella in cui si rischiò la rottura tra Picasso e Diaghilev: il quale in un attacco isterico (avvenimento non sorprendente né raro, com’è comprensibile data la «diversità» del russo) calpestò addirittura i bozzetti, in quanto non corrispondenti a una scenografia da commedia dell’arte, come egli si aspettava. Ovviamente Picasso si sentì offeso, ma alla fine si calmò e preparò un disegno con una sala italiana del Settecento, eppoi un altro che fu alla fine adottato e che rappresentava, si dice meravigliosamente, una via di Napoli con tanto di luna, golfo e Vesuvio fumante.
Un altro aneddoto curioso riguarda i ritratti che Picasso fece di Stravinsky (specie nel loro incontro a Roma) e nei quali il musicista, che in realtà era piccolo e minuto, appare come monumentalizzato con un disegno alla Ingres, cioè «freddo»: e questo potrebbe darci forse un’indicazione sul giudizio che il pittore dava dentro di sé sul russo, a proposito del quale egli non si pronunciò mai (o almeno io non sono riuscito a trovare qualche frase storica sulla loro collaborazione). L’aneddoto curioso è questo: quando alla frontiera di Chiasso vennero controllati i bagagli di Stravinsky i doganieri si misero in allarme dicendo: «Questo non è un ritratto, è una pianta!». Figuriamoci cosa avrebbero visto quei bravi svizzeri se il ritratto fosse stato cubista!
Comunque sia, la collaborazione tra i due fu intensa, anche se, oltre ai balletti fin qui ricordati, non troviamo più Picasso impegnato in scene e costumi per opere sceniche stravinskiane, che videro peraltro all’opera artisti come André Barsacq (Persephone, 1943), Irène Sharaff (Jeu des cartes, 1937), Toti Scialoia (Capricci alla Stravinsky, 1943), Isamu Noguchi (Orpheus, 1948), Günther Sneider-Siemen e Ronny Reiter (Les jambes savantes, 1965), tanto per citare i più importanti. Quanto poi le scene e i costumi di artisti grandi o comunque egregi abbiano contribuito a far conoscere e capire la musica «scenica» stravinskiana è difficile dire: anche se è certo che spesso musica e colore si sposarono felicemente, anche per la gioia degli occhi.
Amadeus n.18 – maggio 1991