di Joachim Kaiser

(Pubblicato sul n. 18 di Amadeus, maggio 1991)

La ripresa televisiva potrebbe svolgere un ruolo di importante documentazione
dell’opera di grandi musicisti e di storiche interpretazioni. Purtroppo,
molte volte si rivela invece irritante testimonianza di ignoranza musicale..

I concerti e la televisione

Sara segno di cecità culturale essere diffidenti nei confronti delle registrazioni musicali e delle documentazioni concertistiche filmate della televisione? Non si può rispondere facendo riferimento solo a un paio di registrazioni musicali divertenti, irritanti oppure segnate dalla grottesca antimusicalità dei registi televisivi. Si è spesso notato però che molti registi considerano un oggetto quanto meno noioso non solo la musica ma anche gli interpreti e lo dimostrano nelle riprese. Dai diversi posizionamenti delle telecamere fisse viene quasi sempre proposto uno sconcertante andirivieni: nei momenti più sommessi in primo piano si evidenziano le mani dei solisti, le labbra degli strumentisti a fiato, i segni delle vaccinazioni delle violiniste che siedono inattive. Nei passi a pieno organico, la telecamera si allontana per un quadro generale da cui spiccano, simili a macchie bianche, gli spartiti e le lampadine mentre, senza riuscire a orientarsi perfettamente, si scorgono minuscole giacche nere e maniche in movimento sinfonico. L’altro metodo di ripresa, quello di spostarsi adagio avanti e indietro, come se lo spettatore fluttuasse in elicottero sopra i musicisti, lievemente avvicinandosi e allontanandosi da loro, provoca poi un capogiro davvero in piena regola.

Documenti e divulgazione
          In un tale carosello televisivo non si verifica mai quella speciale tranquillità naturale e necessaria all’ascoltatore e, naturalmente, anche allo spettatore di una sala da concerto, dove mai verrebbe in mente di accovacciarsi sotto il pianoforte a coda o di sparire in un angolo della stanza o di soffermarsi a guardare, ammaliati, il formarsi e il cadere delle gocce di sudore sul viso di un interprete mentre dagli altoparlanti fuoriesce qualcosa che, a occhi chiusi, si potrebbe identificare con l’«Appassionata».
Si sa, esperienze del genere con la televisione e i suoi film musicali le hanno provate tutti gli appassionati di musica. Perfino Horowitz, che veniva descritto come un entusiasta spettatore televisivo (anche se non proprio di trasmissioni musicali, ma della serie Bonanza). In altre parole: quando Horowitz si rese disponibile per un’apparizione televisiva si fece un film assai elaborato che, pur malvisto dai tradizionalisti, è entrato di diritto nel patrimonio indispensabile di chi si interessa di musica e di interpretazione pianistica. Del Concerto in sol maggiore di Beethoven esistono numerose interpretazioni televisive, con Wilhelm Backhaus (addirittura varie versioni), Daniel Barenboim, Friedrich Gulda, Wilhelm Kempff e Arthur Rubinstein. Questi film possono denunciare imperfezioni, eppure se vi fosse anche solo una rappresentazione televisiva responsabile, autentica, istruttiva di un’unica interpretazione (per questo non ancora nota), allora sì, si dovrebbe prendere sul serio il mezzo televisivo per le sue possibilità, e nonostante tutte le sue carenze – in parte riconducibili a fattori tecnici, in parte conseguenza di un atteggiamento astuto, ma infantile.
Quali possibilità si delineano? La televisione potrebbe a suo modo riempire quel vuoto che si è creato fra l’astrazione del disco e la cultura concertistica, introducendo nel freddo ambito del mezzo elettronico, terribilmente sofisticato, un soffio di necessaria personalizzazione.
I collezionisti di dischi, infatti e chiunque ami confrontare le varie interpretazioni si occupano solo ed esclusivamente di prodotti di sintesi e di impianti ad alta fedeltà, spesso si dimenticano dell’elemento umano. Invece Glenn Gould oggi non è più solo un ululante fantasma discografico, ma un essere umano che si può ammirare in un film televisivo – anche se, ad esempio, per la registrazione delle Variazioni in fa maggiore op. 34 di Beethoven la televisione canadese ha ritenuto indispensabile un’assurda scenografia a paravento. Ma per quale motivo la musica alla televisione diviene soltanto raramente un documento ricco di fantasia e di slancio?
Incominciamo con il vizio per così dire specifico dei mezzi di comunicazione. Quando un regista televisivo decide di riprendere Arturo Benedetti Michelangeli che suona il Concerto in la minore di Schumann, per prima cosa pensa istintivamente al suo mezzo televisivo e al pubblico, non al pianista e alla musica. Quindi (purtroppo) non si domanda ciò che invece dovrebbe chiedersi: cosa conviene mostrare dovendo documentare per l’appassionato di musica XY, o per i posteri il modo in cui Benedetti Michelangeli suona il pianoforte? Se ci fosse un interesse «affettivo» per l’oggetto da trattare, il regista mostrerebbe come Benedetti Michelangeli siede al pianoforte, e la telecamera non cercherebbe a tutti i costi di rendere l’immagine «interessante» con espedienti visivi, ma si concentrerebbe completamente e tranquillamente sull’esecuzione musicale (evitando tutt’al più la statica monotonia con qualche accorgimento). È ovvio che bisogna mettere in conto una perdita di autenticità, se alla realtà del pianista e dell’orchestra si sostituisce la loro riduzione nel piccolo schermo. A Schumann e a Benedetti Michelangeli non si interessa certo che una piccola percentuale del potenziale pubblico televisivo: un due/cinque per cento (in ogni caso, un numero di spettatori enorme) costretto però a vedere l’oggetto del proprio interesse in condizioni precarie: in questo caso Benedetti Michelangeli, il pianista di cui tanto ha letto e di cui possiede i pochi dischi. Tuttavia la consapevolezza di lavorare per la «televisione» e per il pubblico è così radicata nei registi, siano interessati o meno di musica, che essi non tentano neppure di produrre un simile documento con modestia, per i pochi e insieme numerosi appassionati. Sono convinti che per la grande massa un concerto di mezz’ora sia senz’altro noioso e che quindi ci debba essere una varietà.
Così fanno un piacere alla massa, che non si sentirebbe a proprio agio nemmeno in una sala da concerto, e, col fine di una divulgazione senza speranza, si produce «la caricatura» di un concerto. La percezione del fluire della musica è disturbata, gli «interessati» si irritano e distolgono lo sguardo.
Fra l’altro, naturalmente, dal materiale visivo offerto da un pianista, un’orchestra, un direttore si può trarre un film molto pretenzioso sotto il profilo tecnico. Soltanto che allora cessa di essere il film di un’interpretazione musicale. L’obiettivo tende assai più verso un risultato visualmente autonomo. Gli oggetti appaiono trasformati fino a divenire irriconoscibili, nell’intento che possano rivelare qualcosa affatto nuovo e magari stimolante. E ciò non ha più nulla a che vedere con Arturo Benedetti Michelangeli o Robert Schumann.

L’arbitrarietà della telecamera
          Ammesso poi che i registi di trasmissioni musicali si rendano conto di questi presupposti. Ora, è importante definire una relazione ragionevole fra le dimensioni che costituiscono l’evento musicale. Ad esempio, di norma l’andamento della musica segue un flusso temporale rigidamente regolato. Nella sua versione filmica di Amleto Laurence Olivier può certo concedersi una lunga pausa prima del monologo, mentre il protagonista siede solitario sulle bianche scogliere di Dover, senza trasgredire la concezione temporale di Shakespeare. Questo però non trova un corrispettivo nelle misure musicali! La pausa generale dell’orchestra, il «due punti» musicale, l’esplosione finale del «Presto con fuoco» nella Ballata in sol minore di Chopin: tutto ciò è in stretto rapporto con il flusso temporale, lento, moderato, veloce della musica, un flusso regolato con la massima esattezza. Se questo flusso cambia, e cambia nello stesso istante anche la direzione dello sguardo, allora, da spettatori, non si percepisce più il mutamento decisivo nello svolgimento musicale! Mentre doveva crearsi tensione ci si è allontanati dal pianista, si è volati in giro per la sala, si guarda da una nuova prospettiva. E la prospettiva della musica non ha più luogo, l’organico legame è reciso.
Tutti i grandi mutamenti musicali (tutti-solo, fortissimo-pianissimo, lento-veloce) possono avere effetto solo se chi osserva ha un punto fisso da cui può coglierli. Ciò significa che i grandi contrasti musicali non possono essere sfruttati in funzione di principi visuali. E allora all’interno di un movimento conchiuso, di un passaggio, di un’esposizione dei temi, la telecamera deve procedere in maniera arbitraria? La risposta è una sola: anche il moto della telecamera deve seguire una logica interna plausibile, che tuttavia non può diventare più importante o più autorevole della logica intrinseca alla musica eseguita.
La telecamera può avvicinarsi al pianista solo entro i confini stabiliti; già prima dell’inizio del brano o del concerto deve aver esplorato lo spazio in cui si suona, secondo il raggio della sua curiosità. A dire il vero, sono una disgrazia anche quei regi­ sti troppo «musicali» che nei passi complicati puntano rapidamente l’occhio sulla diteggiatura scelta dall’artista, che vogliono portare un elemento «nuovo» nelle ripetizioni credute più inoffensive, cosa che non era nelle intenzioni del compositore. E trasformano il concerto in una lezione di musica …
È possibile tracciare un movimento ottico che non disturbi il flusso della musica, che non prenda iniziative arbitrarie, che insomma venga appena percepito? Se fosse semplicemente abolito, ci si sorprenderebbe dopo alcuni minuti della strana fissità. Ma il problema è già stato risolto un paio di volte in modo intelligente e positivo. Vi sono alcune registrazioni televisive (Arrau, Backhaus, Bishop, Gould, Horowitz, Kempff) che offrono delle idee significative. Il pianista che suona e talvolta si atteggia – non si dimentichi questa differenziazione – è relativamente più comprensibile di quanto non lo sia, ad esempio, un direttore d’orchestra. Anche se può essere indiscreto osservare la sofferenza di Arrau, il tremito del labbro inferiore di Brendel, o curioso vedere Horowitz che contempla le sue agili dita come un pedante direttore di circo delle pulci i suoi insetti: impressioni di questo tipo, se poste con un certo «tatto», hanno a che fare con l’interpretazione stessa o, almeno, con l’interprete. Ovviamente, se troppo insinuanti, divengono terribilmente penose, ma è altresì evidente che i movimenti, spesso da sciamano o da esorcista, di un direttore d’orchestra evocano anche di peggio.
Questi gesti non devono risultare movimenti a se stanti, ma vengono legittimati proprio dalla musica, che a seguito di essi viene trasmessa all’orchestra e riceve vita sonora. Considerandoli una posa vanitosa, possono rivelarsi assolutamente insopportabili.
Stiamo vivendo uno sviluppo che addita la possibilità per gli appassionati di prendere a prestito (se non addirittura di acquistare) le registrazioni dei concerti. E allora la televisione dovrà tener conto che, in questo contesto, essa svolge un servizio, un ruolo di mediazione, così come a suo tempo i produttori discografici intelligenti hanno imparato a rinunciare a produrre incisioni non vere, manipolate, piene di effetti secondari, o anche sciocche e distorte per attirare con un filone «tipo Beethoven» quegli acquirenti che di Beethoven non vogliono sapere nulla.
Concludendo, si può dire che, quando la televisione comprenderà che la sua opera potrebbe consistere, non tanto nel vano tentativo di trasformare le grandi interpretazioni musicali in ombre di ridicola sottocultura bensì nel registrare, anche visivamente, l’opera di musicisti importanti con modestia e cognizione di causa, allora da un bambino ancora imberbe crescerà un fratello intelligente della cultura concertistica e discografica.

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*Joachim Kaiser, uno dei più insigni studiosi tedeschi, dal1959 è critico musicale della Süddeutschezeitung; dal 1977 è professore alla Ochschule per la musica e l’arte drammatica di Stoccarda. Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo queste pagine da «Grandi pianisti del nostro tempo», ed. Piper-Schott

Le illustrazioni sono di Norman Rockwell